Biblioteca:Seneca, Fedra

Personaggi:

Ippolito
Fedra
Nutrice
Teseo
Messaggero
Coro degli Ateniesi
Cacciatori e servi (personaggi muti)

(Ippolito, cacciatori)

IPPOLITO
Avanti, circondate quel bosco fitto e quella vetta, Ateniesi! Perlustrate a passo veloce, sparpagliandovi, le terre sotto il petroso Parnete e quelle investite dal fiume che si affretta alle valli di Tria. Arrampicatevi su quei monti sempre bianchi di neve come le vette della Scizia. Di là, voi, in quell'alta foresta che s'infoltisce di ontani, di là voialtri, verso quei prati che Zefiro, suscitando morbide erbe, carezza d'un soffio rugiadoso. E voi di là, dove, tra campi sparuti, come fa il Meandro, pigro scorre l'esile Ilisso che sfiora sterili arene col suo flutto avaro. E Voi per di là, a sinistra, sul sentiero dove Maratona apre i suoi anfratti: là le femmine sgravate, coi loro piccoli, cercano pascoli notturni. E voi laggiù, dove il duro Acarneo, ai tepidi venti, tempera i suoi rigori. Qualcuno scali l'Imetto ricco di miele, batta un altro la piccola Afidna. Ma c'è una terra che non tocchiamo da tempo: il Sunio sovrasta il suo golfo. C'è un cacciatore in cerca di gloria? File lo attende. Là scorrazza, flagello dei contadini, un cinghiale già famoso per le sue ferite. Allentate il guinzaglio, voi, ai cani silenziosi. Teneteli stretti, quei furiosi molossi. Lasciate che tendano il collare quegli ardenti cretesi dal pelo logoro sul collo. Gli spartani (è una razza ardita, sente il sangue) teneteli più forte, e vicini. Quando sarà il momento, faranno risuonare di latrati le cavità delle rocce; adesso buoni, a fiutar l'aria con le narici sagaci, a cercar le tane a muso basso, mentre la luce è ancora incerta e la terra bagnata conserva le impronte. Si affretti, qualcuno, a caricarsi sulle spalle robuste le reti a maglia larga, un altro i lacci ritorti. Lo spauracchio di penne rosse farà cadere in trappola le belve col suo vano terrore. Tu scaglierai il giavellotto, tu punterai a due mani lo spiedo di ferro pesante, tu starai in agguato e metterai in fuga, con le tue grida, le fiere. Tu, vittorioso, strapperai le viscere; alla preda col tuo coltello ricurvo. Diana, divina cacciatrice, sii propizia al tuo fedele, tu che regni sui segreti recessi della terra e raggiungi con infallibili colpi, le belve, sì, quelle che si dissetano al gelido Arasse, quelle che giocano sul ghiaccio del Danubio. Leoni di Getulia, cerve di Creta, l'insegue la tua mano che trafigge, più leggera, le agili gazzelle. Il ventre le tigri striate, il dorso ti offrono i bisonti villosi e gli uri selvaggi dalle lunghe corna. Il tuo arco, Diana, lo teme ogni animale che pascola in terre deserte, lo nascondano i gioghi selvaggi di Pirene o le gole selvagge dell'Ircania, lo conosca il povero Africano o l'Arabo ricco dei suoi boschi o il Sarmata nomade per lande sterminate. Non mollano la preda, le reti, non strappa i lacci il piede delle belve se tu, divina, assisti i tuoi devoti, ma geme sotto la preda il carro, drizzano il muso insanguinato i cani ed è un lungo trionfo il ritorno del rustico corteo. Sì, tu sei propizia, divina. Ecco, i cani lanciano il segnale, acutamente. La foresta mi chiama. Presto, di qui, per questa scorciatoia.

(Fedra, nutrice)

FEDRA
O grande Creta, dominatrice del mare, che tieni di riva in riva con le tue navi innumeri, che solchi ovunque si apra ai rostri, sino all'Assiria, perché mi hai data in ostaggio a un focolare odioso? Perché mi hai sposata ad un nemico? Perché mi costringi ad una vita di dolori e lacrime? Ecco, il mio sposo è lontano. Sì, Teseo offre alla moglie la sua consueta fedeltà. Lui, il grande soldato, s'inoltra nelle tenebre profonde della palude da cui non si ritorna, in aiuto di quel temerario che vuol rapire la sposa del re degli Inferi. Complice di una passione sfrenata, va Teseo, va sempre avanti, non lo ferma timore o vergogna. Stupri e adulteri, il padre di Ippolito li cerca sin laggiù nell'Acheronte. Povera me! Un altro dolore, più grande, mi perseguita. Né pace notturna né sonno pesante mi liberano dall'angoscia. Cresce il mio male, si nutre, mi brucia dentro come il vapore che erompe dal cratere dell'Etna. Trascuro le mie tele, il fuso mi scivola di mano. Non ho più desiderio, io, di onorare i templi con offerte, di unirmi al coro delle donne agitando, intorno agli altari, le torce iniziatiche dei riti segreti. No, e neanche di rivolgermi, con caste preghiere e atti devoti, alla dea che protegge questa terra, che a lei è consacrata. Vorrei, invece, stanare bestie selvagge, e inseguirle, e scagliare il giavellotto di ferro con questa debole mano. Dove vuoi arrivare, anima mia? Povera madre mia, riconosco il tuo male fatale. È nelle foreste che il nostro amore impara la colpa. Madre, ho pietà di te. Per la passione abietta che ti prese, tu amasti, temeraria, il bestiale re di un branco selvaggio. Era feroce, ribelle al giogo, quel tuo amante che guidava un'indomita mandria... Però amava. C'è un dio, c'è un Dedalo che possa aiutarla, nel suo delirio, la sventurata che sono? No, soccorso alle mie disgrazie non lo potrebbe dare, se tornasse, nemmeno quel maestro di stratagemmi che rinchiuse nel labirinto il Minotauro. Venere odia la stirpe del Sole. Si vendica su di noi delle catene che strinsero lei e il suo Marte. Ci copre tutti d'infamia, noi figli di Febo. Amore casto, a donna nata da Minosse non fu mai concesso. C'è sempre entrato qualcosa di mostruoso.

NUTRICE
Via dal tuo animo casto ogni pensiero impuro. Spegnilo, questo fuoco, sposa di Teseo, nobile discendente di Giove. Non abbandonarti a una speranza sinistra. L'amore, chi si ribella e lo respinge subito è sicuro di vincerlo. Se invece lo nutri di blandizie, questo dolce male, è tardi per sottrarsi a un giogo che hai accettato. Sì, lo so che l'orgoglio regale è ostinato, che non sopporta la verità, che non vuole piegarsi alla ragione, ma io sono pronta a subire tutto ciò che la sorte mi riserva. O vecchiaia la libertà vicina ti fa forte. È onesto, anzitutto, seguire il bene senza deviare dalla retta via, e, poi, riconoscere la gravità della nostra colpa. Dove vuoi finire, sventurata? Vuoi rendere più infame la tua casa? Superare tua madre? L'amore incestuoso è peggio di quello mostruoso. Sì, il mostruoso è colpa del destino, l'incesto della coscienza. Ti sbagli se credi che resti celata, la tua colpa, e senza pericolo, perché tuo marito, adesso, non vede il mondo di quassù. Mettiamo che Teseo sia sepolto nell'abisso del Lete e condannato a restarci per sempre: forse che il signore del grande regno del mare, colui che dà legge a cento popoli, tuo padre Minosse, lo lascerebbe nascosto un delitto così? È occhiuta l'attenzione dei genitori. Ma mettiamo che noi, con frode e raggiro, si riesca a coprirlo. E il padre di tua madre, il Sole che dà la sua luce a tutte le cose? E il padre degli dèi che scuote l'universo vibrando con la sua mano corrusca la folgore etnea? Credi di poter fuggire a parenti che vedono tutto? E poi, anche se il capriccio degli dèi li nascondesse, i vergognosi abbracci, anche se toccasse, all'incesto, quel favore che mai è concesso ai delitti, non ci sarebbe lo stesso, e subito, il castigo? Nel cuore il rimorso, nell'animo un senso di colpa, e paura di sé... Per qualcuna rimane nascosta, la colpa, per nessuna impunita. Soffoca dunque, ti prego, la fiamma di questo desiderio infame, di questo delitto che mai neppure un barbaro ha compiuto, vagante Geta o inospitale Tauro o nomade Scita. Via dal tuo animo casto quest'orribile pensiero! Ricordati di tua madre. Devi aver paura, tu, di un amplesso proibito. Vuoi mischiare il seme del padre con quello del figlio? Vuoi concepire una promiscua prole in un sacrilego grembo? Avanti, allora, sovverti la natura con questa abietta passione... Mostri, non ne nascono più? Il labirinto di tuo fratello è deserto? Dovrà vedere prodigi mai veduti, il mondo, cadranno infrante le tue leggi, natura, ogni volta che una cretese sarà presa d'amore?

FEDRA
Le so, queste cose, nutrice, e sono vere, ma la passione mi spinge al peggio. Il mio cuore corre verso l'abisso, e lo sa, e con nostalgia si rivolge, ma invano, ai buoni consigli. Quando l'onda contraria investe una nave troppo carica, il nocchiero si prodiga, ma è inutile, e la nave è trascinata via, alla deriva... Che cosa conta la ragione? È la passione che vince, che comanda. Un dio troppo potente sta dominando il mio cuore. Regna su tutta la terra, questo dio alato, non risparmia neppure Giove, lo brucia con l'indomita fiamma. E Marte, il guerriero? Le ha provate anche lui, quelle fiamme. E persino Vulcano si scotta a quel piccolo fuoco, lui che forgia il fulmine tripunte e attizza nei gioghi dell'Etna le fucine sempre furenti. E Febo stesso, il dio che scaglia le frecce, è trafitto da quella, più sicura, lanciata dal divino fanciullo che volteggia nell'aria ed è temuto sia in terra che in cielo.

NUTRICE
L'amore è un dio? Questo lo dice la libidine, che è turpe e complice del vizio. Per essere più libera ha dato il nome di un dio alle sue voglie... Ma certo! Venere manda qua e là suo figlio, per tutto il mondo, e lui, svolazzando, con la sua tenera manina lancia dardi crudeli. Tra gli dèi, dunque, il più piccolo ha il potere più grande... Tutto questo è assurdo! Il potere di Venere e l'arco di Cupido se li è inventati una mente delirante. Quando il benessere è troppo e si nuota nell'opulenza, nasce la cupidigia del nuovo. È allora che s'insinua la libidine, questa crudele compagna della buona fortuna. Il solito cibo, una casa di giusta modestia, un comune boccale non bastano più. Nelle famiglie degli umili, perché si insinua di rado questa lue che sceglie invece le case altolocate? Perché sotto umile tetto vive casto l'amore, perché la gente modesta ha desideri sani, e sa frenarli? Perché ricchi e potenti, invece, bramano più di quel che è lecito? Chi troppo può, vuol potere quel che non si può. Ma tu pensa ai doveri di una donna che è assurta agli onori del trono. Devi temerlo e onorarlo, lo scettro del tuo sposo, che ritornerà.

FEDRA
L'amore mi tiene in suo potere... No, non ritornerà, non ho paura. Mai ha fatto ritorno sulla terra chi è sceso nel regno silente della notte perpetua.

NUTRICE
Mai fidarti troppo di Plutone. Se pure l'ha sbarrato, il suo regno, se alle porte crudeli c'è di guardia Cerbero, Teseo troverà da solo la strada che gli negano.

FEDRA
Forse concederà il suo perdono al mio amore.

NUTRICE
Fu spietato persino con una sposa fedele. La barbara Antiope ha provato la crudeltà della sua mano. Ma ammettiamo pure che si pieghi, il tuo irato consorte. E l'altro? Chi lo piegherà il suo animo inflessibile? Dalle donne rifugge, ne odia anche il nome, dedica i suoi giovani anni a una vita da celibe e rifiuta le nozze. È sangue delle Amazzoni, ricorda.

FEDRA
Voglio seguirlo lassù, sui gioghi d'un monte nevoso, e mentre scala con agile piede rocce impervie, e per monti e foreste.

NUTRICE
E lui si fermerà? Si offrirà alle tue carezze? Per un amore non casto darà l'addio a una vita casta? Deporrà per te l'odio che ha per le donne? Le odia, loro, forse perché odia te. Le preghiere non possono vincerlo. È un selvaggio.

FEDRA
L'amore vince anche le belve, dicono.

NUTRICE
Ti fuggirà.

FEDRA
Lo seguirò, anche sul mare, se occorre.

NUTRICE
Ricordati di tuo padre.

FEDRA
Anche di mia madre, mi ricordo.

NUTRICE
Odia tutte le donne.

FEDRA
Dunque non ho rivali da temere.

NUTRICE
Tuo marito ritornerà.

FEDRA
E non è complice di un adultero?

NUTRICE
Ritornerà anche tuo padre.

FEDRA
Con sua figlia Arianna fu indulgente.

NUTRICE
Basta, ti prego! Per questi capelli che la vecchiaia inargenta, per questo petto stanco di soffrire, per queste mammelle che ti furono care, domina il tuo delirio, ti supplico, e aiuta te stessa. Voler guarire è l'inizio della guarigione.

FEDRA
Il pudore non si è spento ancora nel mio animo. Voglio obbedirti, nutrice. Se non può essere guidato, l'amore, che sia vinto. No, non sarai macchiato, onore. Per sfuggire al male c'è soltanto una via: raggiungere mio marito. La morte prevenga l'infamia.

NUTRICE
Cerca di dominarti, figlia. Soffoca gli slanci di un cuore sfrenato. Io dico che sei degna di vivere proprio perché ti dici degna di morire.

FEDRA
È decisa, la morte. Ma come morire, non lo so. Mi appenderò a un laccio o mi lancerò su una spada? Mi getterò giù dalla roccia di Pallade? Suvvia, armiamoci la mano, perché la castità sia vendicata.

NUTRICE
E la mia vecchiaia ti lascerebbe morire d'una morte così prematura? Frenalo, questo impulso furioso. Non è facile ritornare alla vita.

FEDRA
Non c'è ragione di non morire, quando di morire si è deciso, e bisogna morire.

NUTRICE
Solo conforto dei miei ultimi anni, se così violento è il delirio del tuo animo, ebbene, calpesta il tuo onore, padrona. È forse amico del vero, l'onore? Arride a chi demerita, a chi merita sfugge. Cerchiamo di piegarlo, quell'animo austero ed inflessibile. Questo è compito mio: parlargli, al giovane selvaggio, e commuovere la sua mente spietata di uomo troppo severo.

CORO
Nata dal mare inclemente, Venere, ti chiama madre l'ambiguo Cupido, che è armato di frecce e di fiamme, il fanciulletto lascivo e maligno che infallibile ha l'arco! Penetra, il suo delirio, sin nel midollo delle ossa, con quel suo fuoco segreto che consuma le vene. È una ferita da nulla, a guardarla, ma dentro brucia profonda. Non si dà tregua, il fanciulletto, che fulmineo per tutto il mondo sparge le sue frecce. Chi non lo conosce, il suo fuoco? La riva che vede nascere il Sole, la terra che giace verso i confini di Esperia, quella che è sotto il torrido Cancro e quella che, sotto il gelo dell'Orsa maggiore, è corsa da nomadi genti... Attizza, dei giovani, il fuoco violento, ravviva le braci già spente dei vecchi, di fiamme ignote ferisce il cuore delle vergini. Gli dèi stessi, li costringe a lasciare il cielo per vivere, sotto finte spoglie, tra gli uomini. Fu pastore in Tessaglia e guidò l'armento Febo Apollo; lasciato il plettro per la zampogna diseguale, lanciò ai tori il richiamo.Forme più umili assunse, e quante volte, colui che il cielo guida e le nubi. Batté candide ali, come uccello, più soave che del cigno morente la sua voce, poi offrì, come giovenco irrequieto dalla fronte fiera, il suo dorso al gioco delle vergini. Attraverso i flutti (nuovissimo regno) del fratello, con le zampe imitando lenti remi, oppose il suo petto al mare alto e lo vinse, trepidando per la fanciulla che seco rapiva. La chiara dea del mondo oscuro, Diana, si accese d'amore, abbandonò la notte, affidò al fratello il suo lucente carro, così diverso da guidare. Impara a dirigerla, Febo, la biga notturna, e la volge in orbita più stre tta, ma le notti riescono più lunghe, spunta in ritardo il giorno, mentre tremano gli assi delle ruote poi che il peso è più grave. L'orrida pelle di leone depose il figlio di Alcmena, sì Ercole depose la faretra, fece acconciare i suoi capelli incolti, le sue dita ornare di smeraldi. Calzò sandali preziosi, cinse le gambe d'ornamenti d'oro, la sua mano passò dalla clava al fuso dal rapido filo. La Persia lo vide, e la Lidia dal regno ferace, mentre gettava la spoglia del leone. Tessuto a Tiro, un delicato manto ricopre le spalle che avevano sorretto l'universo. Troppo potente, divino, è questo fuoco, e lo dice chi ne fu ferito. Su ogni terra cinta dal mare, nel cielo percorso dalle stelle, regna inclemente il fanciulletto, e anche nel mare profondo le sue frecce colgono il segno. Le Nereidi, cerulo stuolo, cercano invano di lenire la sua fiamma con l'acque. Ardono del suo fuoco anche gli uccelli. E se Venere lo eccita si fa audace il giovenco e muove guerra per primeggiare sulla mandria. Persino il timido cervo, ove tema per la sua compagna, ricerca la lotta e dà segno del suo furore coi bramiti. L'India abbronzata inorridisce dinanzi alle tigri striate, digrigna i denti aguzzi il cinghiale e schiuma dalla bocca; squassa il collo il leone africano, se Amore lo spinge, e geme allora la foresta al ruggito crudele. Amano i mostri marini, gli elefanti amano. Tutto nella natura ti appartiene, nulla ti si sottrae, Amore, e al tuo cenno l'odio perisce, cedono collere antiche... Debbo dire di più nel mio canto? Crudeli matrigne, tu le vinci, Amore.

(Nutrice, coro)
CORO
Quali notizie, nutrice? Dov'è la regina? La sua passione ha trovato un freno?

NUTRICE
Che speranza può esserci? Una passione così non si può frenare, è un fuoco senza fine. Si consuma a un silenzioso ardore... Anche se la chiude in sé e la nasconde, questa follia, il volto la tradisce. I suoi occhi brillano febbrili, le palpebre stanche non sopportano la luce. Non sa quello che vuole, soffre, le sue membra sono irrequiete. Ora il suo passo è stremato, vacilla come se morisse, e il collo, reclinando, sostiene la testa a fatica; ora vuol concedersi riposo, ma si nega al sonno e passa la notte in lamenti. Si fa levare dal letto e, subito dopo, coricare. I capelli, ora sciolti li vuole, ora acconciati. Insofferente di se stessa, muta continuamente di aspetto. Del cibo e della salute non si cura. Fa l'atto di muoversi, incerta, e subito le forze l'abbandonano. No, non c'è più il suo slancio, non c'è più sul viso lucente colore di rosa. Quel pensiero la consuma tutta. Il suo passo è tremante, adesso, la tenera bellezza del suo corpo se ne va. E gli occhi, quegli occhi che recavano le tracce della luce del sole, non brillano più del loro splendore divino. Lacrime scendono giù per le guance, bagnandole di rugiada, senza sosta, come sui gioghi del Tauro le nevi si sciolgono alla tiepida pioggia... Ma ecco, le porte della reggia si spalancano: è là, la regina, abbandonata sul letto nella stanza d'oro. La sua mente turbata rifiuta le solite vesti.

(Fedra, coro)
FEDRA
Via, ancelle, via queste vesti intessute di porpora e d'oro, via da me questo rosso di Tiro, via queste sete che i Cinesi raccolgono dai gelsi. Una breve cintura stringa un abito succinto, e niente monili al collo, niente perle del mare d'India alle orecchie. Non voglio profumi assiri sulle chiome. Cadano liberi i capelli, così, spargendosi sul collo e sugli omeri, che ondeggino al vento nella corsa. Terrò con la sinistra la faretra, lancerò con la destra il giavellotto. Era così la madre dell'austero Ippolito... Come una figlia del Tanai o della Meotide, lasciò le lande gelide del Ponto e guidò le sue schiere nell'Attica, lei. Con un nodo stringeva e scioglieva i suoi capelli. Si proteggeva il fianco con lo scudo lunato... Simile a lei, io me ne andrò nelle foreste.

CORO
Basta con i lamenti. Non è il dolore che dà conforto agli sventurati. Supplica il nume di Diana, la vergine dea cacciatrice.

(Nutrice, Ippolito)
NUTRICE
Regina dei boschi, che sui monti vivi solitaria e sui solitari monti sei, sola dea, venerata, distogli da noi le minacce e i tristi presagi! Dei boschi sacri, delle foreste grande dea, del cielo astro luminoso, della notte ornamento, tu che puntuale ritornando fai rilucere il mondo, Ecate Triforme, vieni tu ad aiutarmi, ti prego, in ciò che sto per fare. Domalo tu, l'animo inflessibile dell'austero Ippolito. Fa che mi ascolti. Addolcisci il suo cuore selvaggio. Fa che impari ad amare e a ricambiare l'amore. Sforza la sua volontà. Quest'uomo fiero, ostile, selvaggio, fa che si pieghi alle leggi di Venere. Aiutami tu con la tua potenza, e splendido sia sempre il tuo volto, le tue purissime falci squarcino le nubi, e mai, mai possano tessale maghe sviarti mentre reggi le briglie del carro notturno, mai, mai possa un pastore gloriarsi di averti sedotta. Ecco, io ti ho invocata e tu sei venuta, divina, ed esaudisci il mio voto. Sì, è lui, lui in persona, che viene a pregarti e venerarti, senza seguito alcuno... Perché esito? Il caso mi offre il tempo, il luogo. Astuzia, ci vuole. Sto tremando. No, non è facile osare... È un delitto, questo, ma te l'hanno comandato. Gli ordini! Ne hai paura, no? E allora lascialo perdere, l'onore, dimenticalo. Non è buon servo del potere chi ha rispetto di sé.

IPPOLITO
Perché trascini qui i tuoi passi, cara, vecchia nutrice? E questa fronte scura, questo viso triste? È vivo, mio padre, non è vero? E Fedra? E il duplice pegno della loro unione?

NUTRICE
Non temere, lo stato del regno è prospero, la tua casa fiorisce di forza e felicità. Tu, piuttosto, sii più clemente con te stesso. È il pensiero di te che mi dà pena, perché ti infliggi da solo gravi sofferenze. Chi è costretto dalla sorte, soffre e non ne ha colpa; chi si tormenta da solo, invece, e di sua volontà si infligge pene, merita di perdere quei beni di cui non sa godere. Sei giovane, non dimenticarlo, mitiga dunque il tuo rigore. Su, leva la fiaccola nelle notti di festa, e Bacco ti liberi dai pensieri molesti. Goditi la giovinezza, che fugge troppo veloce. Venere ti sorride, oggi che sei giovane, oggi che il tuo cuore è palpitante. Il tuo animo deve rallegrarsi. Perché è vedovo il tuo letto? Liberala dalla malinconia, la tua giovinezza, prendi la corsa, allenta le briglie, non lasciarti sfuggire i giorni migliori della vita. Un dio ha prescritto ad ogni stagione i suoi doveri, ad ogni esistenza le sue tappe: al giovane si addice la letizia, al vecchio il viso severo. Perché ti fai violenza, perché li reprimi, i tuoi istinti? Al contadino il frutto più ricco glielo dà la messe che, verde ancora, lussureggia da lieti seminati. Nel bosco si leva più alto, con la sua cima, albero che mano maligna non recide o mutila. Così una natura retta arriva alla gloria se libertà generosa ne alimenta il nobile sentire. Sdegnoso, selvatico, ignaro della vita, vuoi passarla così, una giovinezza triste e senza amore? Credi che l'uomo abbia soltanto il dovere di sopportare le fatiche, domare cavalli alla corsa, battersi crudelmente in guerre sanguinose? Sono rapaci le mani della morte, e il padre dell'universo, nella sua provvidenza, ha disposto che sempre le nascite riparino le perdite. Ma pensa! Che cosa sarebbe la terra se Venere, che continuamente la ripopola, dovesse abbandonarla? Un'orribile distesa sarebbe, uno squallido mondo senza pesci nel mare, senza uccelli nel cielo e belve nelle foreste. Il vento, il vento soltanto, sarebbe padrone di tutto. Gli uomini, sono tante le cause che li conducono a morte, e in gran folla: il mare, la guerra, gli inganni! Ma supponi che manchino, queste. Il tetro Stige lo raggiungiamo presto da soli. Se una sterile giovinezza scegliesse una vita senza nozze, tutto questo che vedi, tutto quanto, durerebbe il tempo di una generazione e rovinerebbe su di sé. Seguila dunque, la natura, come guida della tua vita, frequenta la città, cerca la compagnia dei tuoi simili.

IPPOLITO
Non c'è vita più libera, più pura da vizi, più vicina ai costumi di un tempo, di quella che ama le foreste e rifugge dalla città. La febbre dell'avarizia non contagia chi dedica la sua innocenza alla vita sui monti, non lo toccano il favore della moltitudine, il volgo malfido per gli onesti, la mefitica invidia, il plauso incostante. Non è servo del potere né del potere assetato. Non va a caccia di onori e di ricchezze. È libero da speranza e paura. Non lo morde, col suo dente abietto, il nero e vorace livore. Nulla sa L dei delitti che nascono nella città, tra la folla. Nessun timore lo atterrisce, poiché non ha sensi di colpa, e non è costretto a mentire. Non desidera, come i ricchi, vedersi intorno mille colonne, e non riveste d'oro, come gli ambiziosi, le travi del soffitto. Gli altari, non li inonda di fiotti di sangue, né centinaia di candidi buoi, cosparsi del farro rituale, per lui piegano il collo al sacrificio. Ma sue sono le distese dei campi, sua l'aria aperta mentre va senza nuocere ad alcuno. Sa tendere insidie, ma soltanto alle belve, e quand'è provato dalle fatiche ristora il suo corpo nel limpido Ilisso. Un giorno costeggia la riva del rapido Alfeo, un altro percorre luoghi fitti di alte foreste in cui riluce, pura nei suoi guadi, la fonte gelida di Lerna. Ovunque è casa sua: là dove gorgheggiano queruli uccelli e fremono, da lievi soffi percossi, vecchi faggi e frassini. O dove è bello calpestare le rive sinuose di un torrente o cedere a sonno leggero sulla nuda zolla, mentre una fonte rigogliosa versa i suoi rapidi flutti o dolcemente sussurra un rivo che fugge tra fiori sboccianti. Placano la sua fame i frutti che scrolla dai rami, gli offrono facile cibo le fragole che coglie dai cespugli. Fugge d'istinto, lui, lontano dal fasto della reggia. Che cosa bevono i potenti in quelle coppe d'oro? Affanni. No, è meglio dissetarsi nel cavo della mano a una sorgente. Dorme più tranquillo chi si affida a un duro giaciglio. Non medita da malvagio, nel buio della sua stanza, amori furtivi, non si nasconde da vile nei recessi del palazzo. Cerca l'aria e la luce, il cielo è testimone della sua vita. Sono certo che vivevano così gli uomini che la prima età generò insieme agli dèi. Non conoscevano la cieca brama dell'oro, non avevano pietre maledette che dividessero, a capriccio, le terre tra le genti. Navi temerarie non solcavano i flutti, ciascuno conosceva soltanto il suo mare. Torri e bastioni non cingevano le città. Non c'erano soldati a brandire armi crudeli, né ordigni di guerra per abbattere, a colpi di macigno, le porte sbarrate. Non aveva padroni, la terra, né soffriva la servitù dell'aratro, poi che i campi, per se stessi fecondi, nutrivano genti senza pretese. I boschi offrivano ricchezze naturali, naturali rifugi le buie caverne. Quest'armonia, l'infranse la febbre sacrilega del lucro, e l'ira sfrenata, la libidine che accende e travolge le menti. Sopravvenne la sete del potere, che trasuda sangue, il debole fu preda del forte, la forza prese il posto del diritto. E allora fu la guerra, dapprima a mani nude, poi trasformando in armi pietre e rami grezzi. Ancora non c'erano l'agile giavellotto dalla punta di ferro, la spada dal lungo taglio appesa alla cintura, l'elmo chiomato dal vistoso pennacchio: l'odio serviva per arma. La furia di Marte creò nuove arti e mille strumenti di morte. Scorse il sangue, da allora, e impregnò la terra, arrossò il mare. E i delitti sconfinarono in tutte le case, nessun misfatto rimase senza esempio: il fratello fu ucciso dal fratello, il padre dal figlio, lo sposo è colpito dalla sposa, sacrileghe madri sopprimono i figli. Delle matrigne non parlo. Le belve sono più miti. Ma di ogni misfatto la donna è guida e maestra. Assedia gli uomini, questa artefice di delitti, e per i suoi turpi adulteri cento città vengono bruciate, si muovono guerra cento popoli, e le macerie dei regni cadono su di loro. Basta citarne una, una sola, Medea, perché sia maledetta la razza delle donne.

NUTRICE
Il delitto di poche ricade forse su tutte?

IPPOLITO
Io le odio tutte, le disprezzo, le detesto, e le fuggo. Sia ragionamento o istinto o cieca rabbia, le ho sempre odiate, io. Riuscirai prima a unire l'acqua al fuoco... Prima la tempestosa Sirti sarà buon rifugio per le navi, Teti farà sorgere il sole dall'estremo confine di occidente, i lupi faranno amorevole muso alle gazzelle, prima che io mi dia per vinto e mi mostri amico delle donne.

NUTRICE
Spesso Amore vince i più ribelli e muta l'odio... Pensa alla terra di tua madre: anche le Amazzoni selvagge subiscono il giogo di Venere. Unico figlio della loro razza, tu ne sei la prova vivente.

IPPOLITO
La morte di mia madre mi dà questo solo conforto: che ora posso odiarle tutte, le donne.

NUTRICE
Come uno scoglio inaccessibile resiste, da ogni lato, alle acque, e rigetta lontano le onde che l'assalgono, così respinge le mie parole, con disprezzo. Ma ecco là Fedra... Non sopporta indugi, si precipita. Dove si volgerà la sorte? E il suo furore, dove? Ma d'un tratto perde i sensi, cade al suolo. Un pallore di morte le è sceso sul viso. Sollevala, la testa, figlia mia, facci sentire la tua voce. È Ippolito, il tuo Ippolito che ti sorregge.

(Fedra, gli stessi)

FEDRA
Chi mi riporta al dolore? Chi le riaccende nel mio cuore queste vampe crudeli? Era bello non sentire più nulla.

IPPOLITO
Perché lo rifiuti, il dolce dono della luce?

FEDRA
Coraggio, anima mia. Tenta. Fa tu quello che hai ordinato. E siano audaci, le tue parole. Una preghiera timida è un invito al rifiuto. Sono troppo avanti, ormai, sulla strada del male. È tardi per il pudore. Già è nato, in me, il colpevole amore. Se vado avanti, forse riuscirò a nasconderla, la mia colpa, sotto le fiaccole nuziali. Il delitto, se ha successo, diventa una buona azione, qualche volta. Su, cominciamo, anima mia! Ascoltami in segreto, solo un minuto, ti prego. Se hai compagni con te, mandali via.

IPPOLITO
Ecco, siamo al sicuro da ogni indiscrezione.

FEDRA
Non mi escono più, le parole. Una grande forza le ispira, una più grande le soffoca. O dèi, mi siete testimoni: questo, che io voglio, non lo voglio...

IPPOLITO
Cerca di dire qualcosa, il tuo animo, e non riesce?

FEDRA
Parlano, parlano, i piccoli dolori; quelli grandi sono muti.

IPPOLITO
Confida le tue pene alle mie orecchie, madre.

FEDRA
Madre? È troppo superbo, questo nome, troppo solenne. Chiede un nome più umile il mio sentimento. Chiamami sorella, Ippolito, oppure schiava. Schiava è meglio. Sì, ti servirò in tutto, dappertutto. Se tu mi ordinassi di andare in mezzo alle nevi, non esiterei, io, a scalare i gioghi nevosi del Pindo. Le fiamme, le schiere nemiche, se tu me lo chiedessi, io le sfiderei, offrendo il mio petto senza esitare alle spade sguainate. Tienlo tu, lo scettro che mi fu affidato, e prendimi come schiava. È giusto che tu comandi, che io obbedisca. Non è compito per una donna difendere il regno di un uomo. Sta a te, che sei nel fiore della giovinezza, reggere da forte lo scettro di tuo padre. Accoglila tra le tue braccia, stringila, proteggila, questa schiava che ti supplica. Abbi pietà di una vedova.

IPPOLITO
Signore Iddio, via questo presagio! Mio padre ritornerà presto, sano e salvo.

FEDRA
Il signore del regno silenzioso, dell'inflessibile Stige, mai l'ha concessa, a chi ha lasciato la terra, la via del ritorno. La concederà a chi vuol rapire la sua sposa? Ma forse anche Plutone è indulgente verso l'amore.

IPPOLITO
Gli dèi, nella loro giustizia, faranno sì che ritorni. E mentre rimane incerto se il dio accoglierà il nostro voto, avrò cura dei miei fratelli con tutto il mio affetto. Quanto a te, farò sì che non ti senta vedova. Farò le veci di mio padre.

FEDRA
O credula speranza di chi ama! Ingannevole amore! Ho detto abbastanza? No, insisti, supplica. Esaudiscile, per pietà, le preghiere di un cuore che non trova le parole... Vorrei dire e non so.

IPPOLITO
Che male è questo?

FEDRA
Un male... No, tu non puoi crederlo, che possa colpire una matrigna.

IPPOLITO
La tua voce è esitante, dici cose ambigue. Parla chiaro.

FEDRA
Un fuoco, un delirio brucia questo folle cuore. Divampa nel midollo delle ossa, scorre per le vene, sin giù nel ventre, il fuoco, un desiderio nascosto, come fiamma che di trave in trave si propaga.

IPPOLITO
Questo delirio d'amore è per Teseo ed è casto, non è vero?

FEDRA
Sì, sì, Ippolito. Io lo amo, il volto di Teseo, il volto della sua adolescenza. Una peluria velava le sue guance pure... A Cnosso, allora, sfidò il labirinto del mostro e svolse il lungo filo per segnarsi la via tra i meandri. Era splendente di bellezza! Un nastro stringeva i suoi capelli, il pudore gli arrossava il tenero viso, ma erano forti i muscoli nelle sue braccia gentili. Era il volto della tua Diana o del mio Apollo, no, era il tuo volto... Sì, era così, era così quando la sua nemica, Arianna, ne fu presa. Così levava la testa. In te riluce una bellezza più ruvida. C'è tutto tuo padre, in te, ma c'è anche, in uguale misura, la bellezza fiera di tua madre. Nel tuo viso di greco appare la rudezza dello scita. Se tu fossi sbarcato a Creta con tuo padre, l'avrebbe filato per te, Arianna, il suo filo. O sorella, sorella mia, ovunque tu brilli nel cielo stellato, io ti invoco per una causa che fu la tua. Ci ha sedotto una famiglia sola, noi due: te il padre, me il figlio. Vedi, qui in ginocchio, a supplicarti, c'è l'erede di una stirpe regale. Ero pura, innocente, io, senza macchia; per te, per te solo, sono diventata diversa... Mi abbasso a supplicarti, io, ma con una certezza: questo giorno metterà fine al mio dolore, o alla mia vita. Abbi pietà di una donna che ama...

IPPOLITO
Dio degli dèi, e tu puoi ascoltare, puoi guardare questo, tu? Il cielo resta sereno: che cosa aspetti a scagliare la folgore con la tua mano spietata? Precipiti il cielo, sconvolto, nasconda la luce del giorno con nuvole nere, e le stelle, volte all'indietro, fuggano per traverse vie. E tu, Sole raggiante, signore del cielo, tu puoi guardarla, l'infamia della tua stirpe? Sprofondala, la luce, e sparisci nelle tenebre. Perché non colpisce, la tua destra? Perché, signore degli dèi e degli uomini, il mondo non brucia della tua folgore tripunte? Tuona contro di me, trafiggimi, inceneriscimi con la tua fiamma più veloce!... Sono colpevole, io, merito di morire. È me che ama la mia matrigna. Sono capace di un adulterio, io? Io, solo io, ti sembro facile materia per un delitto così? È questo il premio di una vita austera?... Tu superi in infamia tutta la razza delle donne. Tu hai tentato qualcosa di più turpe che quella genitrice di mostri. Tu sei peggio di lei. Si macchiò soltanto di un adulterio, lei, e nascose a lungo il suo delitto, sinché la tradì la forma mostruosa del figlio. Tu sei nata dallo stesso ventre... Felici, felici voi che l'odio o l'inganno ha bruciato, distrutto, gettato nella morte... Ti invidio, padre: costei è più infame della tua matrigna, Medea.

FEDRA
Ti riconosco, destino della mia gente. Vogliamo quello che è proibito, noi. Ma io non sono padrona di me. Attraverso le fiamme ti seguirò, attraverso il mare in tempesta, tra le rocce, sui fiumi che l'onda rapida travolge. Ovunque te ne andrai, io ci sarò, spinta dal mio delirio... Eccomi, superbo, io mi trascino ai tuoi piedi...

IPPOLITO
Via, via dal mio casto corpo le tue mani impudiche. Cosa fa? Cerca persino di abbracciarmi? La spada, a me. Abbia la pena che si merita. La mia sinistra, ecco, stringe i suoi capelli, io le torco indietro questa testa impudica... No, non fu mai versato più giustamente il sangue sul tuo altare, dea dell'arco.

FEDRA
Ippolito, stai esaudendo il mio voto. Tu guarisci la mia follia. Non speravo tanto, io: morire per tua mano salvando il mio pudore.

IPPOLITO
Vattene, e vivi. Non avrai nulla da me. Via dal mio casto fianco questa spada, che si è contaminata. Chi potrà purificarmi? Il Tanai, forse? La palude Meotide che si versa nel Ponto con le sue barbare onde? No, nemmeno lui, con tutte le sue acque, potrebbe lavare questa macchia, il signore del mare. Oh foreste, oh belve selvagge!

(Nutrice, Fedra)
NUTRICE
La tua colpa è scoperta. Anima mia, perché te ne stai lì atterrita? L'incesto, dobbiamo ritorcere l'accusa, gettare la colpa su di lui. Delitto nasconda delitto. Quando sei in pericolo, l'attacco è la difesa più sicura. Se siamo vittime o colpevoli, chi potrà testimoniarlo? La colpa è rimasta segreta... Correte, Ateniesi! Aiuto, servi fedeli! Vuole stuprarla, Ippolito. La stringe, è infuriato, la minaccia di morte, leva la spada su questa donna pudica... Fugge di corsa, guardate... Nella sua confusione, nella fretta, ha lasciato cadere la spada. Ecco la prova del delitto! Presto, soccorrete questa sventurata. Strappati, in disordine, i suoi capelli lasciateli così, a prova del misfatto. Riportatela dentro. Su, padrona, ritorna in te. Perché ti strazi? Perché vuoi nasconderti a tutti? È la colpa che disonora la donna, la sventura no.

CORO
È fuggito come pazza tempesta, rapido più del maestrale che addensa le nubi, più rapido della scia di fuoco che lascia, strappata dai venti, una stella che cade. La fama che loda i secoli lontani confronti con te ogni passato esempio di bellezza: più pura brillerà la tua, come più fulgida riluce la luna, quando, riunite le sue falci, sul suo carro si slancia a piena notte e mostra il suo volto dorato, e non reggono al suo fulgore le stelle. Simile a te è l'astro che le prime tenebre riporta, il messaggero della notte, Espero, appena deterso dalle onde, e Lucifero ancora, che le ultime tenebre scaccia. E tu che dall'India sei venuto, dalla terra che porta il tirso, tu che atterrisci le tigri con la lancia intrecciata di pampini, che cingi la fronte cornuta con la mitra, non la vincerai neppure tu, giovane Bacco dalla chioma intonsa, la chioma irsuta di Ippolito. Non lodarlo troppo, il tuo volto, poi che tra i popoli è fama che Arianna, di Fedra sorella, ti avrebbe preferito Teseo. Dono ambiguo ai mortali, effimero dono, bellezza, come presto svanisci col tuo passo impaziente! Non così rapida li spoglia, i prati fioriti a primavera, il respiro bruciante dell'estate, quando a metà del giorno il sole è a picco, quando è breve il corso della notte. Come languisce il giglio dai petali bianchi, come agonizzano le rose care alle ghirlande, così sei rapito tu in un momento, splendore che da tenere guance si irraggia. Ogni giorno strappa al corpo un petalo della sua bellezza. Sì, è fugace cosa la bellezza. Si fiderà, un saggio, di un bene così fragile? Godine sin che puoi. Sil enzioso il tempo ti distrugge. Un'ora passa e un'altra, sempre peggiore, la segue. Perché cerchi luoghi deserti? La bellezza, là, non è più sicura. Mentre il sole è alto, nel bosco segreto verranno intorno a te, impudiche, le Naiadi che sanno catturare, nelle loro fonti, i bei giovani; ti insidieranno, nel sonno, le Driadi lascive delle foreste, le dee che corrono le notti inseguite dai Fauni che corrono i monti. O volgerà il suo sguardo su di te, dal cielo stellato, l'astro nato dopo gli antichi Arcadi, e alla sua guida sfuggirà il candido suo carro. E non è arrossita poco fa? E nube non c'era a velarlo, il volto lucente della luna. Una maga tessala l'affascina, tememmo noi a quel torbido lume, e, per scongiuro, facemmo tintinnare metalli. No, eri tu, tu la causa del suo turbamento, poi che la dea della notte, per spiarti, frenava il suo celere passo. Ah se la sferza del gelo risparmiasse il tuo volto! Ah se non lo esponessi così sovente al sole! Splenderebbe più del marmo di Paro. Che grazia nel tuo viso maschio e corrucciato, che nobiltà pensosa nel tuo ciglio! Com'è splendido, e degno di Febo, il tuo collo! La chioma ribelle, cadendo, orna e copre le spalle del dio; a te stan bene irsuti, i capelli, e corti, e disordinati. Tu li puoi superare, se li sfidi, e in forza e in grandezza, gli dèi della guerra e della lotta, poi che erculei sono i tuoi bicipiti e più spazioso, e giovane, è il tuo petto di quello di Marte. Se balzi in groppa ad unghiuto corsiero, la tua mano è più destra, nella guida, di quella di Castore: sì, tu puoi domarlo, Cillaro, il cavallo spartano. Tendila con la punta delle dita, la correggia, scaglialo, con tutte le tue forze, il dardo: no, non così lontano vanno le frecce sottili dei Cretesi, maestri nel tiro dell'arco. Preferisci, al modo dei Parti, scagliare le frecce verso il cielo? Nessuna ricadrà senza preda, nel seno stesso delle nuvole coglierà ciascuna un uccello, nel tiepido cuore trafiggendolo. I secoli ammoniscono: per pochi la bellezza fu immune da sventura. Un dio più clemente risparmi te. Che la tua nobile forma possa deformarsi nel tempo della vecchiezza! C'è cosa che non tenti la passione furiosa d'una donna? Contro un giovane innocente prepara neri delitti. Ah scellerata! Tu cerchi, strappandoti i capelli, una prova, cancelli dal tuo volto la bellezza, ti bagni di lacrime le guance: c'è tutta la perfidia di una donna che va intessendo un inganno. Ma chi è, chi è quegli che viene a testa alta, mostrando nel volto una regale maestà? Come sarebbe simile, nel viso, al giovane Pitteo, non fossero così pallide, così scavate le sue guance, non fosse così irsuta e così incolta la chioma. E Teseo! Teseo ritornato sulla terra.

(Teseo, nutrice)
TESEO
Ti ho lasciato, infine, regno della notte eterna, tenebrosa volta che ti stendi sul carcere immenso dei defunti. Questa luce, che ho tanto desiderato, la sopportano a stento, i miei occhi. Quattro volte Eleusi ha mietuto le sue messi, quattro volte la Libra ha fatto uguali il giorno e la notte, dacché fui preso tra i mali della vita e della morte nel corso di un'impresa ambigua dall'incerta riuscita. In me, ch'ero morto, c'era ancora qualcosa di vivo. Soffrivo. Ai miei dolori, Ercole pose fine quando, nello strappare Cerbero dal Tartaro, mi prese seco verso il mondo dei vivi. Ma è stanco; il mio coraggio, non ha più la forza di un tempo, il mio passo incespica. Ah che impresa fu tenergli dietro, a Ercole, e sfuggire alla morte, e dall'abisso risalire, passo passo, alla luce! Questo lamento così flebile che mi colpisce le orecchie, che cos'è? Presto, voglio saperlo. Lutto, lacrime, dolore... Si piange sulla soglia della mia reggia? Com'è degna di un ospite infernale, l'accoglienza!

NUTRICE
È Fedra, Fedra che si ostina nella sua volontà di morire. Le nostre preghiere, non le ascolta nemmeno. È sul punto di uccidersi.

TESEO
Perché vuol morire? Suo marito ritorna e lei si uccide?

NUTRICE
Sì, è questa la causa che la spinge a morire.

TESEO
Parole oscure, le tue, che nascondono qualcosa di terribile. Parla chiaro. Quale dolore turba la sua mente?

NUTRICE
Non lo rivela a nessuno. Nasconde disperatamente il suo segreto. Vuole portarlo con sé, il male che la fa morire. Ma tu affrettati, ti prego, affrettati! Non c'è un minuto da perdere.

TESEO
Spalancate le porte della reggia!

(Teseo, Fedra)
TESEO
Compagna della mia vita, così lo accogli, così lo rivedi, il tuo sposo? Non lo desideravi, il mio ritorno? Gettala via, quella spada. Dà tregua al mio cuore e dimmi perché vuoi morire.

FEDRA
Ahimè, nel nome del tuo potere regale, magnanimo Teseo, nel nome dei nostri figli, del tuo ritorno, delle ceneri che presto sarò, lasciami morire.

TESEO
Che cosa ti costringe a morire?

FEDRA
Se lo dico, perdo il frutto della morte.

TESEO
Nessuno, all'infuori di me, ti ascolta.

FEDRA
Una donna onesta teme anche le orecchie del suo sposo.

TESEO
Parla, il mio cuore fedele terrà nascosto il tuo segreto.

FEDRA
Se vuoi che tacciano gli altri, taci tu per primo.

TESEO
Mezzi per ucciderti, non te ne lascio.

FEDRA
Se uno vuoi morire, la morte non si tira indietro.

TESEO
Rivelami la colpa che vuoi espiare con la morte.

FEDRA
La colpa di vivere.

TESEO
Non ti commuove il mio pianto?

FEDRA
Tra i pianti dei propri cari, morire. C'è fine più bella?

TESEO
Si ostina a tacere. Allora sarà questa vecchia, sotto la tortura, in catene, a rivelare quello che lei non rivela. Avanti, incatenatela. Che la sferza le strappi il suo segreto.

FEDRA
No, fermati! Dirò tutto io.

TESEO
Questo viso triste, perché lo nascondi? Perché le copri con la veste, queste lacrime che ti sgorgano improvvise?

FEDRA
T'invoco come testimone, padre degli dèi, e te, astro ardente dall'eterea luce, da cui la mia famiglia ha avuto origine: ho resistito a tutte le preghiere, io, non mi sono piegata a minaccia, ma il mio corpo ha subito violenza. C'è una macchia sul mio onore e il mio sangue la laverà.

TESEO
Parla: chi ha calpestato il nostro onore?

FEDRA
L'uomo che meno sospetti.

TESEO
Voglio sentirlo, il suo nome.

FEDRA
Questa spada lo dirà. Nel tumulto, mentre arrivava gente, spaventato, lo stupratore l'ha lasciata cadere.

TESEO
Quale delitto mi tocca di scoprire? Quale mostro mi si rivela? L'avorio regale reca i nostri segni... Sull'elsa riluce il simbolo della mia gente... Dov'è fuggito?

FEDRA
Più rapido che poteva, tremando di paura, è corso via... Questi servi l'hanno veduto.

TESEO
Oh santa Pietà! Oh reggitore del cielo! E tu che hai il regno del mare! Donde è venuta questa peste infame? La Grecia l'ha nutrito? Oppure la terra degli Sciti? O la Colchide? L'indole dipende dagli avi, il sangue degenere porta il marchio della sua razza. La riconosco, la natura sfrenata di quella gente bellicosa, che odia il legittimo amore, vive casta a lungo e poi, d'un tratto, si prostituisce. Trista razza che le leggi di un paese più civile non riescono a piegare! Persino le bestie rifuggono dall'incesto, un pudore istintivo rispetta le leggi del sangue. Dov'è finito quel suo volto virile, e la sua finta austerità, e quei modi rustici all'antica, e i costumi severi da vecchio, la rigidità dei sentimenti? Che vita bugiarda! Li nascondi, gli istinti. La maschera della virtù copre la turpitudine. Dietro il pudore c'è l'impudicizia, dietro la misura c'è la sfrontatezza, dietro la pietà, il sacrilegio. I mentitori spergiurano il vero, i viziosi proclamano la virtù. Rude e selvaggio, casto e puro, lui, l'abitatore dei boschi, si riservava per me? Voleva darla nel mio letto, in quel modo infame, la prova della sua virilità? Ti ringrazio, dio degli dèi, sì, ti ringrazio d'averla uccisa io, con queste mani, Antiope, così scendendo agli Inferi non l'ho lasciata nelle sue mani, sua madre. Vattene pur lontano, ramingo tra gente sconosciuta: lo pagherai lo stesso, il fio del tuo delitto. Anche se arriverai in un paese remoto al limite dell'universo, separato dal nostro dall'Oceano, anche se vivrai agli antipodi sepolto nel recesso più segreto, nel regno tremendo che è di là dal polo, anche se lascerai alle tue spalle i ghiacci e le nevi accecanti, anche se le tempeste boreali si scateneranno per proteggerti, tu la pagherai. Senza tregua, per ogni tana, io terrò dietro alla tua fuga. I luoghi più lontani, sbarrati, nascosti, opposti e inaccessibili, saprò raggiungerli, io. Nessun ostacolo mi fermerà. Sai da dove ritorno. E dove non arrivano i miei dardi, arriverà la mia maledizione. Nettuno mio padre mi ha promesso, e l'ha giurato sull'inferno, di esaudirmi in tre voti col suo divino potere. Adempilo, quel triste dono, signore del mare! Non la veda più, Ippolito, la luce del giorno, e giovane com'è raggiunga le ombre furiose contro suo padre. Dammelo, ora, padre mio, questo terribile aiuto! Non l'userei, io, l'ultimo dono della tua potenza, se non fosse così grande la sventura che mi schiaccia. Non sono mai ricorso, io, al tuo aiuto, nemmeno quand'ero nell'abisso, tra Tartaro e Dite, nemmeno sotto le minacce del signore infernale. Ora ti chiedo di adempiere il patto. Esiti, padre? Perché continuano a tacere, le tue onde? Ora devi avvolgere la notte di nuvole nere addensate dai venti. Cielo e stelle, portali via, fa che straripi il mare, chiama a raccolta i mostri delle acque. Scatenali dal fondo dell'Oceano, i flutti impetuosi.

CORO
Grande madre degli dèi, Natura, e tu, del folgorante Olimpo signore, che guidi le stelle sperdute nel moto dell'universo e il corso regoli degli astri e ruoti sul rapido cardine i poli, perché così grande è la tua cura di regolare l'orbite perenni nelle altitudini dell'etere? Per te gelo di candida bruma le foreste spoglia, poi ritornano per te le ombre degli arbusti, poi matura l'ardente criniera del Leone le messi, ma puntuale l'autunno modera il suo fuoco. Sì, tu lo governi, l'universo, e al tuo cenno i corpi celesti nel giusto si muovono equilibrio: perché degli uomini non curi? Perché non premi i buoni, non punisci i malvagi? Le cose umane, Fortuna senz'ordine alcuno le regge, dispensa alla cieca i suoi doni, le cose peggiori asseconda. Vizio crudele trionfa sulla virtù, l'inganno regna padrone nella reggia. Si rallegra il popolo affidando il potere ai più turpi e li onora e li odia. Infelice virtù, come premio tu sei perseguitata. Triste miseria tocca agli uomini casti, ma l'adultero trionfa poi che il vizio lo fa potente. Nulla, o pudore, tu vali, e falsa è la tua gloria. Ma perché giunge a rapidi passi un messaggero? Perché le lacrime rigano l'angoscia del suo volto?

(Messaggero, Teseo)

MESSAGGERO
Sei acerbo e crudele, destino, tu sei troppo opprimente, servitù. Perché fai di me un messaggero di sventura?

TESEO
Coraggio, parla, dimmi di questa sventura. Il mio cuore non è impreparato.

MESSAGGERO
Parole di lutto, la mia lingua non sa trovarle, nel suo dolore.

TESEO
Dimmi quale sciagura cade sulla mia famiglia già tanto colpita.

MESSAGGERO
Ahimè, Ippolito muore di lacrimevole morte.

TESEO
Già lo sapeva, il padre, che suo figlio era morto. Ora è morto il seduttore. Raccontala con ordine, la sua fine.

MESSAGGERO
Non appena ebbe lasciata la città col suo passo sdegnato, e correndo, attacca al giogo i suoi cavalli scalpitanti, più presto che può, e gli passa il morso nelle bocche domate. Parla tra sé, a lungo, maledice il suolo della patria, chiama per nome suo padre, più volte. Ecco, scuote la frusta, allenta le briglie, ma d'un tratto il mare, dal largo, si gonfia, si gonfia e s'impenna verso il cielo. Non c'è vento sulla distesa delle acque, non c'è tuono nel cielo sereno, è il mare stesso che scatena la propria tempesta. Non è così forte l'Austro che investe lo stretto di Sicilia, non è così furioso lo Ionio quando, sferzato dal maestrale, scaglia in alto i suoi flutti, e tremano gli scogli sotto le ondate e bianca schiuma ferisce la cima di Leucade. L'immensa distesa si leva su come un grande bastione, s'avventa verso la riva, e c'è un mostro dentro di lei. Non si volge contro le navi, questo flagello, minaccia la terra. Pesante, massiccia, l'onda avanza rotolando e con sé porta qualcosa che non so dire. È una nuova terra che mostra la vetta alle stelle? Una nuova Ciclade che nasce? Mentre noi, stupefatti, ci poniamo queste domande, ecco che tutto il mare è un boato e tutti gli scogli, da tutte le parti, fanno eco. Le rocce del tempio di Epidauro non si vedono più, e neanche gli scogli che il delitto di Scirone rende famosi, neanche l'Istmo compresso tra i due mari. Quella montagna d'acqua dalla cima lancia zampilli di sale, spumeggia, vomita i flutti e li aspira, su e giù, come il cetaceo enorme che solca l'Oceano lanciando un getto dalla bocca. Il globo d'acqua s'abbatte, s'infrange, si scioglie, trascinando a riva qualcosa che è peggio del nostro terrore. Il mare si lancia sulla terra e segue quel mostro. Siamo scossi da un tremito, noi. Che forma, che mole aveva, il suo corpo! Come un toro sollevò il collo, che era azzurro, drizzò alta la cresta sulla fronte verde. Erano tese, ispide, le orecchie, gli occhi cangianti, ora da capo dell'armento, ora da figlio delle acque. Sì, vomitavano fiamme, i suoi occhi, ma subito brillavano d'un riflesso azzurro. Sotto la nuca grassa si tendono i muscoli potenti, fremono le narici aprendosi all'avido respiro. È verde, di muschio tenace, il suo petto, verde la pelle sotto il collo, ma i lunghi fianchi hanno macchie rosse di fuoco. Sotto la groppa il suo corpo si stringe mostruosamente, sì, l'enorme belva trascina una lunga coda squamosa. È così la balena che nei mari lontani ins egue, inghiotte, frantuma le navi. La terra tremò, il gregge si disperse per i campi, atterrito, dimenticò il pastore di seguire i suoi capi. Ogni belva fugge dalla foresta, non c'è cacciatore che non senta farsi di ghiaccio il suo sangue. Lui solo, Ippolito, è immune dalla paura. Stringe le redini e incoraggia, con la sua voce ben nota, i cavalli atterriti. C'è una strada alta per Argo, tagliata nei monti, che corre a strapiombo sui flutti. È là che si spinge, quel mostro, e si prepara a infuriare. La collera sale, in lui, e lui la cova, la prova, poi scatta in avanti quasi a volo, sfiorando appena la terra, per ergersi fremendo dinanzi al carro trepidante. Ma tuo figlio si leva minaccioso, col suo volto fiero, e, senza batter ciglio, gli grida: "No, non spaventi il mio cuore, tu, con le tue vane minacce. Mio padre m'ha insegnato a vincere i tori." Ma ecco che i suoi cavalli si ribellano al morso, si lanciano trascinando via il suo carro, fuori strada, dove il folle terrore li spinge, rabbiosi, e corrono, corrono tra gli scogli. Come nella tempesta il capitano trattiene la nave, che non sia investita di fianco, e schiva con maestria le ondate, così Ippolito governa il suo cocchio lanciato a precipizio: ora gli stringe il morso, ai cavalli, ora li tiene a colpi di frusta sul dorso. Compagno ostinato, il mostro lo incalza, ora andandogli dietro, al medesimo passo, ora girandogli contro, seminando terrore da ogni parte. No, non è più possibile fuggire. Gli sbarrano la via, con tutto l'orribile muso, le corna del mostro marino. Sferzati dalla paura i destrieri si ribellano al comando, cercano di strapparsi al giogo, si impennano rovesciando il cocchio. Ippolito precipita, la testa in avanti, e cadendo s'impiglia nei lacci tenaci e più si dibatte più li stringe, quegli implacabili nodi. L'avvertono, i cavalli, il loro delitto e, senza più guida il carro fattosi leggero, si avventano dove terrore comanda. Così, sull'errata via del cielo, fu sbalzato dal carro Fetonte, poi che si avvidero, i cavalli, che il peso era di verso, e sdegno li prese che la luce fosse affidata a un falso Sole. Lascia una scia di sangue, Ippolito, mentre il suo capo sbatte tra gli scogli. Sterpi gli strappano i capelli, pietre aguzze devastano il suo bel viso. Infelice bellezza, cento piaghe ti danno la morte! Il corpo morente è trascinato dalle ruote impazzite. Ma ecco, la sua corsa per un attimo si arresta. Il ramo d'un albero bruciato gli si è conficcato dentro l'inguine. Il carro è trattenuto dal corpo trafitto. Si fermano, i cavalli, per quella ferita, ma subito spezzano gli indugi e il loro stesso padrone. Lo straziano gli arbusti, quel troncone agonizzante, e gli aspri roveti dagli spini aguzzi. Ogni cespuglio strappa un po' del suo corpo. Triste corteo, i servi vanno per i campi, nei luoghi dove fu dilaniato Ippolito, dove pozze di sangue segnano il suo lungo passaggio. I cani, guaendo, cercano le membra del padrone. La dolorosa ricerca non ha ancora potuto ricomporlo, il suo corpo. Dov'è finito lo splendore della sua bellezza? Il compagno del re, l'erede sicuro del trono, che come astro rifulgeva, è ora raccolto qua e là per il rogo supremo e le esequie.

TESEO
Com'è forte il legame del sangue che stringe il padre al figlio! Natura, tu sei troppo potente. Anche se non vogliamo, noi dobbiamo inchinarci. Volevo, perché è colpevole, ucciderlo; perché è morto lo piango.

MESSAGGERO
Non è lecito piangere su ciò che si è voluto.

TESEO
Il colmo della sventura, ecco cos'è: che la sorte ci faccia auspicare ciò che dovremmo deprecare.

MESSAGGERO
Se odi ancora, perché le tue guance sono bagnate di pianto?

TESEO
Piango non perché l'ho ucciso, ma perché l'ho perduto.

CORO
Terribili travolgono gli eventi la vita degli uomini. Ma contro gli umili Fortuna è meno crudele, contro i deboli più deboli i colpi del dio. Chi vive nell'ombra è sereno, sino a vecchiaia giunge chi vive in un tugurio. Raffiche di Euro, di Noto investono i palazzi che sfidano il cielo, e pazze minacce di Borea e piovose ventate del Maestrale. Il fulmine rari colpi riserva all'umida valle, ma trema ai dardi di Giove altitonante il grande Caucaso, trema la frigia foresta della madre Cibele. Dall'alto cielo geloso Giove colpisce con la folgore chi si avvicina al cielo. Col suo povero tetto la casa del plebeo non ospita tumulti: è sui regni che tuona. Incerte l'ali, s'invola l'ora fugace, incostante a nessuno tien fede Fortuna. Colui che ha potuto ritrovare (lasciato il regno dei morti) luce del sole e stelle, ora piange il suo triste ritorno. Più che l'Averno è dolorosa la reggia paterna che l'accoglie. Dalle genti di Atene venerata, Pallade casta, se il tuo Teseo è sfuggito alle paludi infernali, se rivede il cielo ed i vivi, nulla tu devi, divina, all'insaziabile Plutone: poi che uguale è rimasto, nel suo regno, il numero dei morti. Quale voce di pianto risuona dall'alto della reggia? Che cosa medita Fedra, smarrita com'è, stringendo la spada?

(Teseo, Fedra, coro)

TESEO
Il dolore ti sconvolge. Da quale delirio sei travolta? Questa spada, che significa? E questi pianti sopra un corpo odioso?

FEDRA
Me, me devi colpire, spietato signore del profondo, contro di me devi mandarli, i mostri marini, quelli che laggiù, nel più lontano abisso, Teti alleva, e quelli che, nei recessi più segreti, nasconde l'Oceano che con i suoi flutti irrequieti abbraccia ogni cosa. Tu non sei mai ritornato dai tuoi senza portare sciagura, Teseo sempre crudele: con la morte li hanno pagati, i tuoi ritorni, tuo figlio e tuo padre. Tu la distruggi, la tua famiglia, ogni volta, perché tu, nell'amore o nell'odio, sei funesto alle tue spose. Così debbo rivederlo, il tuo viso, Ippolito? Io l'ho ridotto così? Chi le ha fatte a pezzi, le tue membra? Un Sini, un Procuste, quelle belve, o il Toro cretese, quel mostro, con la sua testa cornuta? È stato lui a dilaniarti mentre il labirinto si riempiva del suo muggito bestiale? Ahimè, dov'è finita la tua bellezza? E i tuoi occhi, che erano le mie stelle? Tu giaci senza vita. Ritorna per un istante e ascoltami. No, non dico nulla d'impudico. Con questa mano ti vendicherò, pianterò la spada nel mio cuore malvagio. Sarà liberata, Fedra, nello stesso momento, della sua anima e della sua colpa. Attraverso le onde e le paludi, attraverso lo Stige e il fiume di fuoco, io ti seguirò, disperata. Plachiamo gli spiriti. Accettala, questa ciocca di capelli, e quest'altra, che strappo via dalla mia fronte. Le nostre anime, non mi fu concesso di unirle, i nostri destini sì, mi è concesso. Se sei pudica, Fedra, muori per il tuo sposo; se impudica, per il tuo amore. Raggiungerò, io, con la morte, quel letto nuziale che ho macchiato? Godrò, io, da casta sposa, di un letto che ha reclamato vendetta? Ci mancherebbe anche questa infamia. O morte, unico conforto di un amore maledetto, o morte, rifugio del pudore offeso, io corro tra le tue braccia. Ascoltatemi, Ateniesi. Ascoltami anche tu, padre peggiore d'una funesta matrigna. Ho detto il falso, io. Sì, ho mentito, ho inventato un delitto che io, io sola, la pazza, avevo concepito nel mio cuore delirante. Tu, padre, hai punito un delitto inesistente. Incolpevole, casto, questo giovane puro è morto d'un impuro delitto. E tu, petto malvagio, offriti alla giustizia della spada (si trafigge). Il mio sangue si versa in sacrificio per un santo. Imparalo dalla matrigna, padre, ciò che devi al figlio che hai ucciso: scendere alle rive dell'Averno.

TESEO
Averno, livide gole, spelonche del Tenaro, e tu, acqua del Lete cara agli sventurati, e voi, paludi stagnanti, portatelo via, questo scellerato, sprofondatelo, schiacciatelo con eterne pene. Su, venite, crudeli mostri del mare! Gonfiati, tu, mondo bestiale che ti nascondi nel più lontano seno di Proteo! Su, rapitemi nei gorghi vorticosi, poi che ho esultato del mio delitto. Padre, padre che assecondi la mia furia troppo facile, non facile morte merito, io, che lungo i campi ho disseminato mio figlio. Una pena così, non si era mai sentita. Io, il giustiziere, l'inflessibile, per punire un falso delitto sono caduto in un crimine vero. Della mia colpa ho riempito le stelle, il mare, l'inferno. Altro sito non resta nei tre regni che furono sorteggiati tra gli dèi. Tutti e tre mi conoscono. Sono ritornato sulla terra: perché? La strada mi si è aperta perché potessi vedere due cadaveri e una duplice morte? Perché accendessi, io, senza sposa e senza figlio, i roghi del figlio e della sposa con la medesima torcia? Oh Ercole, tu che mi hai donato la luce nefasta, riportalo a Dite questo Teseo che ti fu concesso in dono. Rendimi le ombre infernali che mi hai tolto. Io, l'infame, reclamo quella morte che ho fuggito. Invano... Crudele inventore di morte, che escogiti le pene più spietate, colpisci te stesso, ora, subito, con il castigo meritato. Deve spezzarmi in due tronconi un pino curvato con la punta sino a terra e poi liberato verso il cielo? Dovrò gettarmi a capofitto sulle scogliere di Scirone? Ho visto pene più terribili, io, che il Flegetonte infligge ai dannati, prigionieri delle sue onde fiammeggianti. Lo so, io, il luogo e la pena che mi attendono. Fatemi posto, anime colpevoli! Cada qui, su queste spalle, fiaccandomi le mani, il masso che è la pena eterna di Sisifo. Ingannino la mia bocca, sfiorandola, le acque di Tantalo. Abbandoni Tizio, il crudele avvoltoio, e voli qui, su di me, e che il mio fegato, per mia disgrazia, sempre ricresca. Riposa tu, Issione, padre del mio Piritoo; trascini il mio corpo, la ruota, nella sua corsa vorticosa che non si ferma mai. Apriti, terra, e tu accoglimi, crudele caos, accoglimi. Ora ho una più giusta ragione di scendere ai morti. Seguo mio figlio. No, non temere, signore dei defunti: vengo con animo puro. Accoglimi, non fuggirò mai più dalla tua eterna dimora... Le mie preghiere non li commuovono, gli dèi. Ah, se gli chiedessi un delitto, come sarebbero pronti ad esaudirmi!

CORO
Per piangere, Teseo, hai dinanzi a te l'eternità. Ora devi rendere gli onori funebri a tuo figlio. Seppelliscile al più presto, queste membra disperse, così crudelmente dilaniate.

TESEO
Qui, portateli qui, i poveri resti del suo corpo. Dateli a me. Il petto, le membra unite a caso... È questo Ippolito? Confesso la mia colpa: ti ho ucciso. Per non essere colpevole io solo, ed una sola volta, ho richiesto io, tuo padre, l'aiuto del mio, per consumare il delitto. Eccolo, l'aiuto di mio padre! Solitudine, triste pena degli anni dell'infermità... Abbraccia queste membra, stringile tra le braccia e riscaldale sul tuo petto, padre sventurato: sono ciò che resta di tuo figlio.

CORO
Raccoglile, padre, le membra disperse del corpo straziato, ricomponile tu, le parti riunite a casaccio. Questo qui è il posto della mano destra, che era così forte, qui va la sinistra, così abile nel reggere le briglie. Li riconosco, questi segni sul fianco sinistro. Quante parti ancora mancano alle nostre lacrime! Continuate, trepide mani, nel vostro ufficio pietoso. No, niente lacrime, ora. Asciugatevi, guance, mentre il padre le conta, una per una, le membra del figlio e ricompone il suo corpo.

TESEO
Questo brandello, che cos'è? Non ha forma, che obbrobrio, è squarciato da cento ferite. Non so che sia, ma è parte di te. Qui, mettilo qui, non è il suo posto ma è vuoto. È questo il viso che splendeva come una stella? Che vinceva anche gli occhi più ostili? A questo è ridotta la tua bellezza? O fati crudeli, o spietato favore degli dèi! È così che il figlio fa ritorno, secondo il voto, a suo padre? Accettali, ti prego, gli ultimi doni di tuo padre, figlio che sarai sepolto volta a volta. Le fiamme, intanto, cremino questi grumi di carne. Apritela, voi, la lugubre casa che la sventura ha colpito. Risuoni l'Attica intera di alti lamenti. Voi preparate la fiamma del rogo regale. Ma voialtri continuate a cercarle, sui campi, le parti disperse del suo corpo. Costei, nuda fossa l'accolga e sia pesante la terra sulla sua testa maledetta.