Biblioteca:Omero, Odissea, Libro IV

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Giunsero all'ampia, che tra i monti giace,
Nobile Sparta, e le regali case
Del glorïoso Menelao trovaro.
Questi del figlio e della figlia insieme
Festeggiava quel dì le doppie nozze, 5

E molti amici banchettava. L'una
Spedìa d'Achille al bellicoso figlio,
Cui promessa l'avea sott'Ilio un giorno,
Ed or compieano il maritaggio i numi:
Quindi cavalli e cocchi alla famosa 10
Cittade de' Mirmìdoni condurla
Doveano, e a Pirro che su lor regnava.
E alla figlia d'Alettore Spartano

L'altro, il gagliardo Megapente, unia,
Che d'una schiava sua tardi gli nacque: 15
Poiché ad Elena gl'immortali dèi
Prole non concedean dopo la sola
D'amor degna Ermione, a cui dell'aurea
Afrodite la beltà splendea nel volto.

Così per l'alto spazïoso albergo 20

Rallegravansi, assisi a lauta mensa,
Di Menelao gli amici ed i vicini;
Mentre vate divin tra lor cantava,
L'argentea cetra percotendo, e due
Danzatori agilissimi nel mezzo 25
Contempravano al canto i dotti salti.

Nell'atrio intanto s'arrestaro i figli
Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo,

Un vigil servo del secondo Atride,
Primo adocchiolli, e con l'annunzio corse 30
De' popoli al pastore, ed all'orecchio
Gli sussurrò così: "Due forestieri
Nell'atrio, o Menelao, di Zeus alunno,
Coppia d'eroi, che del Saturnio prole
Sembrano in vista. Or di': sciorre i cavalli 35
Dobbiamo, o i forestieri a un altro forse

Mandar de' Greci, che gli accolga e onori?"

D'ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo
Menelao gli rispose: "O di Boète
Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi 40
Già dello scemo negli andati tempi,
E or sembri a me bamboleggiar co' detti.
Non ti sovvien quante ospitali mense
Spogliammo di vivande, anzi che posa

Qui trovassimo al fin, se pur vuol Zeus 45
Privilegiar dopo cotante pene
La nostra ultima età? Sciogli i cavalli,
E al mio convito i forestier conduci".

Ratto fuor della stanza Eteonèo
Lanciossi; e tutti a sé gli altri chiamava 50
Fidi conservi. Distaccaro i forti

Di sotto il giogo corridor sudanti,
E al presepe gli avvinsero, spargendo
Vena soave di bianc'orzo mista,
E alla parete lucida il vergato 55
Cocchio appoggiâro. Indi per l'ampie stanze
Guidaro i novelli ospiti, che in giro
D'inusitata maraviglia carche
Le pupille movean: però che grande

Gettava luce, qual di Sole o Luna, 60
Del glorïoso Menelao la reggia.
Del piacer sazî, che per gli occhi entrava,
Nelle terse calâr tepide conche;
E come fur dalle pudiche ancelle
Lavati, di biond'olio unti e di molli 65
Tuniche cinti e di vellosi manti,
Si collocaro appo l'Atride. Quivi

Solerte ancella da bell'auro vaso
Nell'argenteo bacile un'onda pura
Versava, e stendea loro un liscio desco, 70
Su cui la saggia dispensiera i pani
Venne ad impor bianchissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
E d'ogni sorta carni in larghi piatti
Recò l'abile scalco, e tazze d'oro. 75

Il re, stringendo ad ambidue la mano:
"Pasteggiate", lor disse, "ed alla gioia
Schiudete il cor: poscia, chi siete, udremo.
De' vostri padri non s'estinse il nome,
E da scettrati re voi discendete. 80
Piante cotali di radice vile,
Sia loco al vero, germogliar non ponno".

Detto così, l'abbrustolato tergo

Di pingue bue, che ad onor grande innanzi
Messo gli avean, d'in su la mensa tolse, 85
E innanzi il mise agli ospiti, che pronte
Steser le mani all'imbandita fera.
Ma de' cibi il desir pago e de' vini,
Telemaco, piegando in vêr l'amico,
Sì che altri udirlo non potesse, il capo, 90
Tale a lui favellò: "Mira, o diletto

Dell'alma mia, figlio di Nestor, come
Di rame, argento, avorio, elettro ed oro
L'echeggiante magion risplende intorno!
Sì fatta, io credo, è dell'Olimpio Zeus 95
L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti!
Io maraviglio più, quanto più guardo".

L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse:
"Figliuoli miei, chi gareggiar mai puote

De' mortali con Zeus? Il suo palagio, 100
Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto.
Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca
Di beni, o ceda; io so che, molti affanni
Durati e molto navigato mare,
Queste ricchezze l'ottavo anno addussi. 105
Cipro, vagando, e la Fenicia io vidi,
E ai Sidonî, agli Egizî e agli Etïòpi

Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnelle
Figlian tre volte nel girar d'un anno,
E spuntan ratto a gli agnellin le corna; 110
Né signore o pastor giammai difetto
Di carne pate, o di rappreso latte,
Ridondando di latte ognora i vasi.
Mentr'io vagava qua e là, tesori
Raccogliendo, il fratello altri m'uccise 115

Di furto, all'improvvista, e per inganno
Della consorte maladetta: quindi
Non lieto io vivo a questi beni in grembo.
Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri,
Tanto dalla lor bocca udir doveste. 120
Che non soffersi? Ruinai dal fondo
Casa di ricchi arredi e d'agi colma;
Onde piacesse ai dèi che sol rimasta

Mi fosse in man delle tre parti l'una,
E spirasser le vive aure que' prodi 125
Che, lungi dalla verde Argo ferace,
Ne' lati campi d'Ilïòn perîro!
Tutti io li piango, e li sospiro tutti,
Standomi spesso ne' miei tetti assiso,
E or mi pasco di cure, or nuovamente 130
Piglio conforto; che non puote a lungo

Viver l'uom di tristezza, e al fin molesto
Torna quel pianto che fu in pria sì dolce.
Pure io di tutti in un così non m'ango,
E m'ango assai, come d'un sol che ingrato 135
Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno:
Poiché Greco nessuno in tutta l'oste
O il bene oprando, o sostenendo il male,
Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato

Ch'ei tormentasse d'ogni tempo, e ch'io 140
Mesti per sua cagion traessi i giorni,
Io, che nol veggio da tanti anni, e ignoro
Se viva, o morto giaccia. Il piange intanto
Laerte d'età pieno, e la prudente
Penelope e Telemaco, che il padre 145
Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi".

Disse; e di pianto subitana voglia
Risvegliossi in Telemaco, che a terra
Mandò lagrime giù dalle palpèbre,
Del padre udendo, ed il purpureo manto 150
Con le mani s'alzò dinanzi al volto.
Menelao ben comprese; e se a lui stesso
Lasciar nomare il padre, o interrogarlo
Dovesse pria, né serbar nulla in petto,

Sì e no tenzonavangli nel capo. 155

Mentre cosi fra due stava l'Atride,
Elena dall'eccelsa e profumata
Sua stanza venne con le fide ancelle,
Che Artemide parea dall'arco d'oro.
Bel seggio Adrasta avvicinolle, Alcippe 160
Tappeto in man di molle lana, e Filo

Panier recava di forbito argento,
Don già d'Alcandra, della moglie illustre
Del fortunato Polibo, che i giorni
Nella ricca menava Egizia Tebe. 165
A Menelao due conche argentee, due
Trìpodi e dieci aurei talenti ei diede.
Ma la consorte ornar d'eletti doni
Elena volle a parte: una leggiadra

Conocchia d'ôr le porse, ed il paniere 170
Ritondo sotto, e di forbito argento,
Se non quanto le labbra oro guernìa.
Questo ricolmo di sudato stame
L'ancella Filo le recava, e sopra
Vi riposava la conocchia, a cui 175
Fini si ravvolgean purpurei velli.

Ella raccolta nel suo seggio, e posti
Sul polito sgabello i molli piedi,
Con questi accenti a Menelao si volse:
"Sappiam noi, Menelao di Zeus alunno, 180
Chi siano i due che ai nostri tetti entraro?
Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica:
Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi
Nel veder maraviglia, uomo né donna

Così altrui somigliar, come d'Ulisse 185
somigliar dee questo garzone al figlio,
Ch'era bambino ancor, quando per colpa
Ahi! di me svergognata, o Greci, a Troia
Giste, accendendo una sì orrenda guerra".

Tosto l'Atride dalla bionda chioma: 190
"Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Quelle

Son d'Ulisse le mani, i piè son quelli,
E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine.
Io, l'Itacese rammentando, i molti
Dicea disagi ch'ei per me sostenne; 195
E il giovane piovea lagrime amare
Giù per le guance, e col purpureo manto,
Che alzò ad ambe le man, gli occhi celava".

E Pisistrato allor: "Nato d'Atreo,

Di Zeus alunno, condottier d'armati, 200
Eccoti appunto di quel grande il figlio.
Ma verecondo per natura, e giunto
Novellamente, gli parrebbe indegno
Te delle voci tue fermar nel corso,
Te, di cui, qual d'un dio, ci beano i detti. 205
Nestore, il vecchio genitor, compagno
Mi fece a lui, che rimirarti in faccia

Bramava forte, onde poter dell'opra
Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti
Que' guai che un figliuol soffre, a cui lontano 210
Dimora il padre, né d'altronde giunge
Sussidio alcun, Telemaco li prova.
Il genitor gli falla, e non gli resta
Chi dal suo fianco la sciagura scacci".

"Numi!" riprese il re dai biondi crini, 215

"Tra le mie stesse mura il figlio adunque
D'uomo io veggio amicissimo, che sempre
Per me s'espose ad ogni rischio? Ulisse
Ricettare io pensava entro i miei regni,
Io carezzarlo sovra tutti i Greci, 220
Se ad ambo ritornar su i cavi legni
L'Olimpio dava onniveggente Zeus.
Una io cedere a lui delle vicine

Volea cittade Argive, ov'io comando,
E lui chiamar, che dai nativi sassi 225
D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei
D'uomini vôta e di novelli ornata
Muri e palagi, ad abitar venisse
Col figlio, le sostanze e il popol tutto.
Così, vivendo sotto un cielo, e spesso 230
L'un l'altro visitando, avremmo i dolci

Frutti raccolti d'amistà sì fida,
Né l'un dall'altro si sarìa disgiunto
Che steso non si fosse il negro velo
Di morte sovra noi. Ma un tanto bene 235
Zeus c'invidïò, cui del ritorno
Piacque fraudar quell'infelice solo".

Sorse in ciascuno a tai parole un vivo
Di lagrime desïo. Piangea la figlia

Di Zeus, l'Argiva Elena, piangea 240
D'Ulisse il figlio ed il secondo Atride,
Né asciutte avea Pisistrato le guance,
Che il fratello incolpabile, cui morte
Diè dell'Aurora la famosa prole,
Tra sé membrava, e che tai detti sciolse: 245
"Atride, il vecchio Nestore mio padre
Te di prudenza singolar lodava,

Sempre che in mezzo al ragionare alterno
Il tuo nome venìa. Fa', se di tanto
Pregarti io posso, oggi a mio senno. Poco 250
Me dilettan le lagrime tra i nappi.
Ma del mattin la figlia il nuovo giorno
Ricondurrà; né mi fia grave allora
Pianger chïunque al suo destin soggiacque;
Ché solo un tale onore agl'infelici 255

Defunti avanza, che altri il crin si tronchi,
E alle lagrime giuste allarghi il freno.
Anco a me tolse la rea Parca un frate,
Che l'ultimo non fu dell'oste Greca.
Tu il sai, che il conoscesti. Io né vederlo 260
Potei, né a lui parlar: ma udii che Antiloco
Su tutti si mostrò gli emuli suoi
Veloce al corso, e di sua man gagliardo.


E Menelao dai capei biondi: Amico,
L'uom più assennato e in più matura etade, 265
Che non è questa tua, né pensamenti
Diversi avrìa, né detti; e ben si pare
Agli uni e agli altri da chi tu nascesti.
Ratto la prole d'un eroe si scorge,
Cui del natale al giorno, e delle nozze 270

Destinò Zeus un fortunato corso,
Come al Nelìde, che invecchiare ottenne
Nel suo palagio mollemente, e saggi
Figli mirar, non che dell'asta dotti.
Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto, 275
Si ripensi alla cena, e un'altra volta
La pura su le mani onda si sparga.
Sermoni alterni anche al novello sole

Fra Telemaco e me correr potranno".

Disse; ed Asfalïone, un servo attento, 280
Spargea su le man l'onda, e i convitati
Nuovamente cibavansi. Ma in altro
Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce
Vino, di cui bevean, farmaco infuse
Contrario al pianto e all'ira, e che l'obblìo 285

Seco inducea d'ogni travaglio e cura.
Chïunque misto col vermiglio umore
Nel seno il ricevé, tutto quel giorno
Lagrime non gli scorrono dal volto,
Non, se la madre o il genitor perduto, 290
Non, se visto con gli occhi a sé davante
Figlio avesse o fratel di spada ucciso.
Cotai la figlia dell'Olimpio Zeus

Farmachi insigni possedea, che in dono
Ebbe da Polidamna, dalla moglie 295
Di Tone nell'Egitto , ove possenti
Succhi diversi la feconda terra
Produce, quai salubri e quai mortali;
Ed ove, più che i medicanti altrove,
Tutti san del guarir l'arte divina, 300
Siccome gente da Peòn discesa.

Il nepente già infuso, e a' servi imposto
Versar dall'urne nelle tazze il vino,
Ella così parlò: "Figlio d'Atreo,
E voi, d'eroi progenie, i beni e i mali 305
Manda dall'alto alternamente a ognuno
L'onnipossente Zeus. Or pasteggiate
Nella magione assisi, e de' sermoni
Piacer prendete in pasteggiando, mentre

Cose io racconto, che saranno a tempo. 310
Non già ch'io tutte le fatiche illustri
Ricordar sol del pazïente Ulisse
Possa, non che narrarle: una io ne scelgo,
Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi,
L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo 315
Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni
S'avvolse, e penetrò nella nemica

Cittade, occulto e di mendìco e schiavo
Le sembianze portando, ei che de' Greci
Sì diverso apparìa lungo le navi. 320
Tal si gittò nella Troiana terra,
Né conoscealo alcuno. Io fui la sola
Che il ravvisai sotto l'estranie forme,
E tentando l'andava; ed ei pur sempre
Da me schermìasi con l'usato ingegno. 325

Ma come asperso d'onda, unto d'oliva
L'ebbi, e di veste cinto, ed affidato
Con giuramento, che ai Troiani primo
Non manifesterei, che alle veloci
Navi non fosse, ed alle tende giunto, 330
Tutta ei m'aperse degli Achei la mente.
Quindi, passati con acuta spada
Molti petti nemici, all'oste Argiva

Col vanto si rendé d'alta scaltrezza.
Stridi mettean le donne Iliache ed urli: 335
Ma io gioìa tra me; ché gli occhi a Sparta
Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo
Si piagneva, in cui Afrodite mi spinse,
Quando staccommi dalla mia contrada,
Dalla dolce figliuola, e dal pudìco 340
Talamo e da un consorte, a cui, saggezza

Si domandi o beltà, nulla mancava.

"Tutto", l'Atride dalla cròcea chioma,
"Dicesti, o donna, giustamente. Io terra
Molta trascorsi, e penetrai col guardo 345
Di molti eroi nel sen: ma pari a quella
Del pazïente Ulisse alma io non vidi.
Quel che oprò, basti, e che sostenne in grembo
Del cavallo intagliato, ove sedea,

Strage portando ad Ilio, il fior de' Greci. 350
Sospinta, io credo, da un avverso nume,
Cui la gloria de' Teucri a core stava,
Là tu giungesti, e uguale a un dio nel volto
Su l'orme tue Deïfobo venìa.
Ben tre fiate al cavo agguato intorno 355
T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi
Chiamavi degli Achei, contraffacendo

Delle lor donne le diverse voci.
Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse
Chiamar ci udimmo; e il buon Tidide ed io 360
Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo,
O dar risposta dal profondo ventre,
Ambo presti eravam: ma nol permise,
E, benché ardenti, ci contenne Ulisse.
Taceasi ogni altro, fuorché il solo Anticlo, 365

Che risponder voleati, e Ulisse tosto
La bocca gli calcò con le robuste
Mani inchiodate, né cessò, che altrove
Te rimenato non avesse Palla.
Sì di tutta la Grecia ei fu salute". 370

"E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce",
Ripigliava il garzone. "A che gli valse
Tanta virtù se non potea da morte

Difenderlo, non che altro, un cor di ferro?
Ma deh! piacciavi omai che ritroviamo 375
Dove posarci, acciò su noi del sonno
La dolcezza ineffabile discenda".
Sì disse; e l'Argiva Elena all'ancelle
I letti apparecchiar sotto la loggia,
Belle gittarvi porporine coltri, 380
E tappeti distendervi, e ai tappeti

Manti vellosi sovrapporre, ingiunse.
Quelle, tenendo in man lucide faci,
Usciro, e i letti apparecchiaro: innanzi
Movea l'araldo, e gli ospiti guidava. 385
Così nell'atrio s'adagiaro entrambi:
Nel più interno corcavasi l'Atride,
E la divina tra le donne Elena
Il sinuoso peplo, ond'era cinta,

Depose, e giacque del consorte a lato. 390

Ma come del mattin la bella figlia
Rabbellì il ciel con le rosate dita,
Menelao sorse, rivestissi, appese
Per lo pendaglio all'omero la spada,
E i bei calzar sotto i piè molli avvinse: 395
Poi, somigliante nell'aspetto a un nume,

Lasciò la stanza rapido, e s'assise
Di Telemaco al fianco; e: "Qual", gli disse,
"Cagione a Sparta, su l'immenso tergo
Del negro mar, Telemaco, t'addusse? 400
Pubblico affare, o tuo? Schietto favella".

E in risposta il garzon: "Nato d'Atreo,
Per risaper del genitore io venni.
In dileguo ne van tutti i miei beni,

Colpa una gente nequitosa e audace, 405
Che gli armenti divorami e le gregge,
E ingombra sempre il mio palagio, e anela
Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio
Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto,
O visto, o su le labbra inteso l'abbi 410
D'un qualche vïandante, il triste fine
Del padre mio, che sventurato assai

Della sua genitrice uscì dal grembo.
Né timore o pietà così t'assalga,
Che del ver parte ti rimanga in core. 415
Venne mai dal mio padre in opra o in detto,
Bene o comodo a te, là ne' Troiani
Campi del sangue della Grecia tinti?
Ecco di rimembrarlo, Atride, il tempo".

Trasse il Monarca, dai capei di croco, 420

Un profondo sospiro, e: "Ohimè", rispose,
"Volean d'un eroe dunque uomini imbelli
Giacer nel letto? Qual se incauta cerva
I cerbiatti suoi teneri e lattanti
Deposti in tana di leon feroce, 425
Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose
Valli profonde; e quel feroce intanto
Riede alla sua caverna, e morte ai figli

Porta, e alla madre ancor: non altrimenti
Porterà morte ai concorrenti Ulisse. 430
E oh piacesse a Zeus, a Febo e a Palla,
Che qual si levò un dì contra il superbo
Filomelìde nella forte Lesbo,
E tra le lodi degli Achivi a terra
Con mano invitta, lotteggiando, il pose, 435
Tal costoro affrontasse! Amare nozze

Foran le loro, e la lor vita un punto.
Quanto a ciò che mi chiedi, io tutte intendo
Schiettamente narrarti, e senza inganno,
Le arcane cose ch'io da Proteo appresi, 440
Dal marino vecchion, che mai non mente.

Me, che alla patria ritornar bramava,
Presso l'Egitto ritenean gli dèi,
Perché onorati io non gli avea di sacre

Ecatombi legittime; ché sempre 445
L'oblio de' lor precetti i numi offese.
Giace contra l'Egitto e all'onde in mezzo
Un'isoletta che s'appella Faro,
Tanto lontana, quanto correr puote,
Per un intero dì concavo legno, 450
Cui stridulo da poppa il vento spiri.
Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero,

Poscia che l'acqua non salata attinse,
Facilmente nel mar vara la nave.
Là venti dì mi ritenean gli dèi: 455
Né delle navi i condottieri amici
Comparver mai su per l'azzurro piano,
Le immobili acque ad increspar col fiato.
E già con le vivande anco gli spirti
Per fermo ci fallìan, se una dea, fatta 460

Di me pietosa, non m'aprìa lo scampo.
Idotèa, del marin vecchio la figlia,
Cui fieramente in sen l'alma io commossi,
Occorse a me, che solitario errava,
Mentre i compagni dalla fame stretti 465
Giravan l'isoletta, ed i ricurvi
Ami gettavan qua e là nell'onde.
"Forestier", disse, come fu vicina,

"Sei tu del senno e del giudicio in bando,
O degli affanni tuoi prendi diletto, 470
Che così, a un ozio volontario in preda,
Nell'isola t'indugi, e via non trovi
D'uscirne mai? Langue frattanto il core
De' tuoi compagni, e si consuma indarno".
"O qual tu sii delle immortali Dive, 475
Credi", io le rispondea, "che da me venga

Così lungo indugiar? Vien dai beati,
Del vasto cielo abitatori eterni,
Ch'io temo aver non leggiermente offesi.
Deh, poiché nulla si nasconde ai numi, 480
Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta,
E il mar pescoso mi rinserra intorno".

E repente la dea: "Forestier, nulla
Celarti io ti prometto. Il non bugiardo

Soggiorna in queste parti Egizio veglio, 485
L'immortal PrOteo, mio creduto padre,
Che i fondi tutti del gran mar conosce,
E obbedisce a Poseidone. Ei del vIaggio
Ti mostrerà le strade, e del ritorno,
Dove, stando in agguato, insignorirti 490
Di lui tu possa. E quello ancor, se il brami,
Saprai da lui, che di felice o avverso

Nella casa t'entrò, finché lontano
Per vie ne andavi perigliose e lunghe".
"Ma tu gli agguati", io replicai, "m'insegna, 495
Ond'io così improvviso a Proteo arrivi,
Ch'ei non mi sfugga dalle mani. Un nume
Difficilmente da un mortal si doma".

"Questo avrai pur da me", la dea riprese.
Come salito a mezzo cielo è il sole, 500

S'alza il vecchio divin dal cupo fondo,
E uscito dalla bruna onda, che il vento
Occidentale increspagli sul capo,
S'adagia entro i suoi cavi antri, e s'addorme
E spesse a lui dormon le foche intorno, 505
Deforme razza di Alosidna bella,
Già pria dell'onda uscite, e il grave odore
Lunge spiranti del profondo mare.

Io te là guiderò, te acconciamente
Collocherò, ratto che il dì s'inalbi: 510
Ma di quanti compagni appo la nave
Ti sono, eleggi i tre che più tu lodi.
Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti:
Pria noverar le foche a cinque a cinque,
Visitandole tutte; indi nel mezzo 515
Corcarsi anch'ei, quasi pastor tra il gregge.

Vistogli appena nelle ciglia il sonno,
Ricordatevi allor sol della forza,
E lui, che molto si dibatte e tenta
Guizzarvi delle man, fermo tenete. 520
Ei d'ogni belva che la terra pasce,
Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco
Si cangerà di portentoso ardore;
E voi gli fate delle braccia nodi

Sempre più indissolubili e tenaci. 525
Ma quando interrogarti al fin l'udrai,
Tal mostrandosi a te, quale sdraiossi,
Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio
Sciogli, e sappi da lui chi è tra i numi,
Che ti contende la natìa contrada". 530
Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse.

Io, combattuto da pensier diversi,
Colà n'andai, dove giacean del mare
Su la sabbia le navi, a cui da presso
La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne 535
La prezïosa notte, e noi sul lido
Ci addormentammo al mormorìo dell'acque.
Ma poiché del mattin la bella figlia
Consperse il ciel d'orïentali rose,

Lungo il lido io movea, molto ai celesti 540
Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte
Le men facili imprese io più fidava,
Conducea meco. La deessa intanto
Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata,
Quattro pelli recò, del corpo tratte 545
Novellamente di altrettante foche;
E tramava con esse inganno al padre.

Scavò quattro covili entro l'arena:
Quindi s'assise e ci attendea. Noi presso
Ci femmo a lei, che subito levossi, 550
E noi dispose ne' scavati letti,
E i cuoi recenti ne addossò. Moleste
Le insidie ivi tornavano; ché troppo
Noiava delle foche in mar nutrite
L'orrendo puzzo. E chi a marina belva 555

Può giacersi vicin? Se non che al nostro
Stato provvide la cortese diva,
Che ambrosia, onde spirava alma fragranza,
Venneci a por sotto le afflitte nari,
Cui del mar più non giunse il grave odore. 560

Tutto il mattino aspettavam con alma
Forte e costante. Le deformi foche
Dell'onde usciro in frotta, e a mano a mano

Tutte si distendevano sul lido.
Uscìo sul mezzogiorno il gran vegliardo 565
E trovò foche corpulente e grasse,
Che attento annoverò. Contò noi prima,
Né di frode parea nutrir sospetto.
Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque.
Ci avventammo con grida, e le robuste 570
Braccia al vecchio divin gittammo intorno,

Che l'arti sue non obliò in quel punto.
Leone apparve di gran giubba, e in drago
Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme,
E corse in onda liquida, e in sublime 575
Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi
Il tenevam fermo più sempre. Allora
L'astuto veglio, che nel petto stanco
Troppo sentiasi omai stringer lo spirto,

Con queste voci interrogommi: "Atride, 580
Qual fu de' numi che d'insidiarmi
Ti diè il consiglio, e di pigliarmi a forza?
Di che mestieri hai tu? "Proteo", io risposi,
"Tu il sai. Perché il dimandi, e ancor t'infingi?
Sai che gran tempo l'isoletta tiemmi, 585
Che scampo quinci io non ritrovo, e sento
Distruggermisi il core. Ah! dimmi, quando

Nulla celasi ai dèi, chi degli Eterni
M'inceppa e mi rinchiude il mare intorno".

"Non dovevi salpar", riprese il dio, 590
"Che onorato pria Zeus e gli altri numi
Di sagrifici non avessi opimi,
Se in breve al natìo suol giungere ardevi.
Or la tua patria, degli amici il volto,
E la magion ben fabbricata il fato 595

Riveder non ti dà, dove tu prima
Del fiume Egitto , che da Zeus scende,
Non risaluti la corrente, e porgi
Ecatombe perfette ai dii beati,
Che il bramato da te mar t'apriranno". 600

A tai parole mi s'infranse il core,
Udendo che d'Egitto in su le rive
Ricondurmi io dovea per gli atri flutti,

Lunga e difficil via. Pur dissi: "Vecchio,
Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi, 605
Ti priego, a questo, e schiettamente parla:
Salvi tornaro co' veloci legni
Tutti gli Achivi che lasciammo addietro,
Partendo d'Ilïòn, Nestore ed io?
O perì alcun d'inopinata morte 610
Nella sua nave, o ai cari amici in grembo,

Posate l'armi, per cui Troia cadde?"

"Atride", ei replicò, perché tal cosa
Mi cerchi tu? Quel ch'io nell'alma chiudo,
Saper non fa per te, cui senza pianto, 615
Tosto che a te palese il tutto fia,
Non rimarrà lunga stagione il ciglio.
Molti colpì l'inesorabil Parca,
E molti non toccò. Due soli duci

De' vestiti di rame Achei guerrieri 620
Moriro nel ritorno; e, ritenuto
Del vasto mar nel seno, un terzo vive;
Aiace ai legni suoi dai lunghi remi
Perì vicino. Dilivrato in prima
Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso 625
Girèi macigni, a cui Nettun lo spinse,
Potea scampar, benché a Atena in ira,

Se non gli uscìa di bocca un orgoglioso
Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi
Che, in dispetto agli déi, vincer del mare 630
Le tempeste varrìa. Poseidone udillo
Borïante in tal guisa, e col tridente,
Che in man di botto si piantò, percosse
La Girèa pietra, e in due spezzolla: l'una
Colà restava, e l'altra, ove sedea 635

Della percossa travagliato il Duce,
Si rovesciò nel pelago, e il portava
Pel burrascoso mare, in cui, bevuta
Molta salsa onda, egli perdeo la vita.
Il tuo fratello, col favor di Era, 640
Morte sfuggì nella cavata nave.
Ma come avvicinossi all'arduo capo
Della Malèa, fiera tempesta il colse,

E tra profondi gemiti portollo
Sino al confin della campagna, dove 645
Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio
Di Tieste, abitava. E quinci ancora
Parea sicuro il ritornar; ché i numi
Voltàr subito il vento, e in porto entraro
Gli stanchi legni. Agamennòn di gioia 650
Colmo gittossi nella patria terra,

E toccò appena la sua dolce terra,
Che a baciarla chinossi, e per la guancia
Molte gli discorrean lagrime calde,
Perché la terra sua con gioia vide. 655
Ma il discoprì da una scoscesa cima
L'esplorator, che il fraudolento Egisto
Con promessa di due talenti d'oro
Piantato aveavi. Ei, che spïando stava

Dall'eccelsa veletta un anno intero 660
Non trapassasse ignoto, e forse a guerra
Intalentato il tuo fratello, corse
Con l'annunzio al signor, che un'empia frode
Repente ordì. Venti, e i più forti, elesse:
E in agguato li mise, e imbandir feo 665
Mensa festiva: indi a invitar con pompa
Di cavalli e di cocchi andò l'Atride,

Cose orrende pensando, e il ricondusse;
E, accolto a mensa, lo scannò qual toro,
Cui scende su la testa, innanzi al pieno 670
Presepe suo, l'inaspettata scure.
Non visse d'Agamennone o d'Egisto
Solo un compagno, ma di tutti corse
Confuso e misto nel palagio il sangue".

E a me schiantossi il core a queste voci. 675

Pianto io versava, su l'arena steso,
Né più mirar del sol volea la luce.
Ma come di plorar, di voltolarmi
Sovra il nudo terren sazio gli parvi,
Tal seguitava il non mendace vecchio: 680
"Resta, o figlio d'Atreo, dall'infinite
Lagrime per un mal che omai compenso
Non pate alcuno, e t'argomenta in vece,

Più veloce che puoi, riedere in Argo.
Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto, 685
O l'avrà poco dianzi Oreste ucciso,
E tu al funèbre assisterai banchetto".

Disse, e di gioia un improvviso raggio
Nel mio cor balenava. "Io già d'Aiace",
Risposi, "e del fratello assai compresi. 690

Chi è quel terzo che il suo reo destino
Vivo nel sen del mare, o estinto forse
Ritiene? Io d'udir temo e bramo a un tempo".

E nuovamente il non bugiardo veglio:
"D'Itaca il re, che di Laerte nacque. 695
Costui dirotto dalle ciglia il pianto
Spargere io vidi in solitario scoglio,
Soggiorno di Calipso, inclita ninfa,

Che rimandarlo niega: ond'ei, cui solo
Non avanza un naviglio, e non compagni 700
Che il trasportin del mare su l'ampio dorso.
Star gli convien dalla sua patria in bando.
Ma tu, tu, Menelao, di Zeus alunno,
Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice
Di cavalli Argo; ché non vuole il fato. 705
Te nell'Elisio campo, ed ai confini

Manderan della terra i numi eterni,
Là 've risiede Radamanto, e scorre
Senza cura o pensiero all'uom la vita.
Neve non mai, non lungo verno o pioggia 710
Regna colà; ma di Favonio il dolce
Fiato, che sempre l'Oceano invia,
Que' fortunati abitator rinfresca.
Perché ad Elena sposo, e a Zeus stesso

Genero sei, tal sortirai ventura. 715
Tacque, e saltò nel mare, e il mar l'ascose.

Io, da vari pensier l'alma turbato,
Movea co' prodi amici in vêr le navi.
La cena s'apprestò. Cadde la notte,
Dell'uom ristoratrice, e noi del mare 720
Ci addormentammo sul tranquillo lido.

Ma del mattin la figlia ebbe consperso
Di rose orïentali appena il cielo,
Che nel divino mar varammo i legni,
D'uguali sponde armati, e con le vele 725
Gli alberi alzammo: entrâro, e sovra i banchi
I compagni sedettero, ed assisi
Co' remi percotean l'onde spumose
Del fiume Egitto , che da Zeus scende.

Un'altra volta all'abborrita foce 730
Io fermai le mie navi, e giuste ai numi
Vittime offersi, e ne placai lo sdegno.
Eressi anco al german tomba, che vivo
In quelle parti ne serbasse il nome.
Dopo ciò, rimbarcàimi, e con un vento 735
Che mi ferìa dirittamente in poppa,
Pervenni, folgorando, ai porti miei.

Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia
Rimaner, che l'undecima riluca
Nell'orïente, o la duodecim'alba. 740
Io ti prometto congedarti allora
Con doni eletti: tre destrieri e un vago
Cocchio, ed inoltre una leggiadra tazza
Da libare ai celesti, acciò non sorga
Giorno che il tuo pensiero a me non torni". 745


Il prudente Telemaco rispose:
"Gran tempo qui non ritenermi, Atride.
Non che a me non giovasse un anno intero,
La patria e i miei quasi obblïando, teco
Queste case abitar, ché alla tua voce 750
L'alma di gioia ricercarmi io sento.
Ma già muoion di tedio i miei compagni
Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo.

Qualsiasi il don di che mi vuoi far lieto,
Un picciol sia tuo prezïoso arnese. 755
Ad Itaca i destrieri addur non penso;
Penso lasciarli a te, bello de' tuoi
Regni ornamento: perocché signore
Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce
Loto e cipéro, ove frumenti e spelde, 760
Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna.

Ma non larghe carriere, e non aperti
Prati in Itaca vedi: è di caprette
Buona nutrice, e a me di ver più grata,
Che se cavalli nobili allevasse. 765
Nulla del nostro mare isola in verdi
Piani si stende, onde allevar destrieri;
E men dell'altre ancora Itaca mia".

Sorrise il forte ne' conflitti Atride,

E la mano a Telemaco stringendo: 770
"Sei", disse, "o figlio, di buon sangue, e a questa
Tua favella il dimostri. Ebbene, i doni
Ti cambierò: farlo poss'io. Di quanto
La mia reggia contien, ciò darti io voglio,
Che più mi sembra prezïoso e raro: 775
Grande urna effigïata, argento tutta,
Dai labbri in fuor, sovra cui l'oro splende,

Di Efesto fattura. Io dall'egregio
Fedimo, re di Sidone, un dì l'ebbi,
Quando il palagio suo me, che di Troia 780
Venìa, raccolse; e tu n'andrai con questa.

Così tra lor si ragionava. Intanto
Dell'Atride i ministri al suo palagio
Conducean pingui pecorelle, e vino
Di coraggio dator, mentre le loro 785

Consorti il capo di bei veli adorne
Candido pan recavano. In tal guisa
Si mettea qui l'alto convivio in punto.

Ma in altra parte, e alla magion davante
Del magnanimo Ulisse, i proci alteri 790
Dischi lanciavan per diletto, e dardi
Sul pavimento lavorato e terso,
Della baldanza lor solito campo.

Solo i due capi, che di forza e ardire
Tutti vinceano, il pari in volto ai numi 795
Eurimaco ed Antìnoo, erano assisi.
S'accostò loro, ed al secondo volse
Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti:
"Antinoo, il dì lice saper, che rieda
Telemaco da Pilo? Ei dipartissi, 800
Con la mia nave che or verrìami ad uopo,

Per tragittar nell'Elide, ove sei
Pasconmi e sei cavalle, ed altrettanti
Muli non domi, che lor dietro vanno,
E di cui, razza faticante, alcuno 805
Rimenar bramo e accostumarlo al giogo".

Stupìano i prenci che ne' suoi poderi
De' montoni al custode, o a quel de' verri
Trapassato il credeano, e non al saggio

Figliuol di Neleo nell'eccelsa Pilo. 810

"Quando si dipartì?" rispose il figlio
D'Eupìte, Antinoo. "E chi seguillo? Scelti
Giovani forse d'Itaca, o gli stessi
Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto?
Schietto favella. Saper voglio ancora, 815
Se a mal cuor ti lasciasti il legno tôrre,

O a lui, che tel chiedea, di grado il desti".

"Il diedi a lui, che mel chiedea, di grado",
Noemón ripigliò. "Chi potea mai
Con sì nobil garzone e sì infelice 820
Stare in sul niego? Zeusntù seguillo
Della miglior tra il popolo Itacese,
E condottier salìa la negra nave
Mentore, o un dio che ne vestìa l'aspetto.

E maraviglio io ben ch'ieri sull'alba 825
Mentore io scôrsi. Or come allor la negra
Nave salì, che veleggiava a Pilo?"
Disse, e del padre alla magion si rese.

Atterriti rimasero. Cessâro
Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi, 830
E a tutti favellò d'Eupìte il figlio:

[Se gli gonfiava della furia il core
Di caligine cinto, e le pupille
Nella fronte gli ardean come due fiamme.]
"Grande per fermo e audace impresa è questo, 835
Cui già nessun di noi fede prestava,
Vïaggio di Telemaco! Un garzone,
Un fanciullo gittar nave nel mare,
Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento

Con la più scelta gioventù le vele? 840
Né il male qui s'arresta: ma Zeus
A Telemaco pria franga ogni possa,
Che una tal piaga dilatarsi io veggia.
Su, via, rapida nave e venti remi
A me, sì ch'io lo apposti, e al suo ritorno 845
Nel golfo, che divide Itaca e Samo,
Colgalo; e il folle con suo danno impari

L'onde a stancar del genitore in traccia".
Così Antinoo parlò. Lodi e conforti
Gli davan tutti: indi sorgeano, e il piede 850
Nell'alte stanze riponean d'Ulisse.

Ma de' consigli che nutrìano in mente,
Penelope non fu gran tempo ignara.
Ne la feo dotta il banditor Medonte,
Che udìa di fuori la consulta iniqua, 855

E agli orecchi di lei pronto recolla.
Ella nol vide oltrepassar la soglia,
Che sì gli disse: "Araldo, onde tal fretta?
Ed a che i proci ti mandâro? Forse
Perché d'Ulisse le solerti ancelle 860
Dai lavori si levino, e l'usato
Convito apprestin loro? O fosse questo
De' conviti l'estremo, e a me travaglio

Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto
Del prudente Telemaco il retaggio 865
Per disertar, vi radunate in folla.
E non udiste voi da' vostri padri,
Mentr'eravate piccioletti e imberbi,
I modi che tenea con loro Ulisse,
Nessuno in opre molestando, o in detti, 870
Costume pur degli uomini scettrati,

Che odio portano agli uni, e agli altri amore?
Non offese alcun mai: quindi l'indegno
Vostro adoprar meglio si pare, e il merto
Che di tanti favor voi gli rendete". 875

Ed il saggio Medonte: "Ai dèi piacesse
Che questo il peggior mal, reina, fosse!
Altro dai proci se ne cova in petto
Più grave assai, che Zeus sperda: il caro

Figlio, che a Pilo sacra, e alla divina 880
Sparta si volse, per ritrar del padre,
Ucciderti di spada al suo ritorno".

Penelope infelice, a tali accenti
Scioglier sentissi le ginocchia e il core.
Per lungo spazio la voce mancolle, 885
Gli occhi di pianto le s'empièr, distinta

Non poteale dai labbri uscir parola:
Rispose al fine: "Araldo, e perché il figlio
Da me staccossi? Qual cagion, qual forza
Sospingealo a salir le ratte navi, 890
Che destrieri del mar sono, e l'immensa
Varcano umidità? Brama egli dunque
Che né resti di sé nel mondo il nome?"

"Qual de' due spinto", il banditor riprese,

"L'abbia sul mare, a domandar del padre, 895
Se la propria sua voglia, o un qualche nume,
Reina, ignoro". E sovra l'orme sue
Ritornò, così detto, il fido araldo.

Fiera del petto roditrice doglia
Penelope ingombrò; né, perché molti 900
Fossero i seggi, le bastava il core

Di posare in alcun; sedea sul nudo
Limitar della stanza, acuti lai
Mettendo; e quante la servìano ancelle,
Sì da canuta età, come di bionda, 905
Ululavano a lei d'intorno tutte.
Ed ella, forte lagrimando: "Amiche,
Uditemi", dicea. "Tra quante donne
Nacquero e crebber meco, ambasce tali

Chi giammai tollerò? Prima un egregio 910
Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome
Per l'Ellada risuona, e tutta l' Argo.
Poi le tempeste m'involaro il dolce
Mio parto, in fama non ancor salito, 915
E del vïaggio suo nulla io conobbi.
Sciaurate! eravi pur l'istante noto,

Ch'ei nella cava entrò rapida nave:
Né di voi fu, cui suggerisse il core
Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga 920
Potuto avessi presentirne, certo
Da me, benché a fatica, ei non partìa,
O me lasciava nel palagio estinta.
Ma dei serventi alcun tosto mi chiami
L'antico Dolio, schiavo mio, che dato 925

Fummi dal genitor, quand'io qua venni,
Ed or le piante del giardin m'ha in cura.
Vo' che a Laerte corra, e il tutto narri,
Sedendosi appo lui, se mai Laerte,
Di pianto aspersa la senil sua guancia, 930
Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi
Di color che schiantar l'unico ramo

Di lui vorrìano, e del divino Ulisse".


E la diletta qui balia Euriclèa:
"Sposa cara", rispose, "o tu m'uccida, 935
O nelle stanze tue viva mi serbi,
Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio
Le candide farine e il rosso vino
Consegnai: ma giurar col giuramento
Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi 940

Non ti giugnesse della sua partenza
Aura d'altronde, e tu men richiedessi,
Io tacerei, finché spuntasse in cielo
La dodicesim'aurora, onde col pianto
Da te non s'oltraggiasse il tuo bel corpo. 945
Su via, ti bagna, e bianca veste prendi,
E, con le ancelle tue nell'alto ascesa,
Priega Atena che il figliuol ti guardi:

Né affligger più con imbasciate il veglio
Già per sé afflitto assai. No, tanto ai numi 950
Non è d'Arcesio la progenie in ira,
Che un germe viver non ne debba, a cui
Queste muraglie sorgano, e i remoti
Si ricuopran di messe allegri campi".

Con queste voci le sopì nel petto 955

La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio
Ella bagnossi, bianca veste prese,
E, con le ancelle sue, nell'alto ascesa,
Pose il sacr'orzo nel canestro e il sale,
E a Palla supplicò. "M'ascolta", disse, 960
"O dell'Egioco Zeus inclita figlia.
Se il mio consorte ne' paterni tetti
Pingui d'agna o di bue cosce mai t'arse,

Oggi per me ten risovvenga: il figlio
Guardami, e sgombra dal palagio i proci, 965
Di cui, più ciascun dì monta l'orgoglio".
Scoppiò in un grido dopo tai parole,
E l'Atenèa Atena il priego accolse.

Tumulto fean sotto le oscure volte
Coloro intanto, e alcun dicea: "La molto 970

Vagheggiata Reina omai le nozze
Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte
S'apparecchia da noi". Tanto dal vero
Quelle superbe menti ivan lontane.

Ed Antinoo: "Sciaurati, il dire incauto, 975
Che potrìa dentro penetrar, frenate.
Ma che più badiam noi? Tacitamente
Quel che tutti approvar mettiamo in opra.


Ciò detto, venti scelse uomini egregi,
Ed al mare avvïossi. Il negro legno 980
Varâro, alzaro l'albero, assettaro
Gli abili remi in volgitoi di cuoio,
E le candide vele ai venti apriro.
Poi, recate arme dagli arditi servi,
Nell'alta onda fermâr la negra nave. 985

Quivi cenaro; e stavansi aspettando
Che più crescesse della notte il buio.

Ma la grama Penelope nell'alto
Giacea digiuna, non gustando cibo,
Bevanda non gustando; e a lei nel petto 990
Sul destin dubbio di sì cara prole
Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava.
Qual de' lattanti leoncin la madre,

Cui fan corona insidïosa intorno
I cacciatori, che a temere impara, 995
E in diversi pensier l'alma divide:
Tal fra sè rivolvea cose diverse,
Finché la invase un dolce sonno. Stesa
Sul letto, e tutte le giunture sciolta,
La donna inconsolabile dormìa. 1000

Allor la dea dall'azzurrino sguardo
Nuova cosa pensò. Compose un lieve
Fantasma, che sembrava in tutto Iftima,
D'Icario un'altra figlia, a cui legato
S'era con nodi maritali Eumelo, 1005
Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno.
Questa Iftima invïò d'Ulisse al tetto,
Che alla Reina tranquillasse il core,

E i sospiri da lei bandisse e il pianto.
Pel varco angusto del fedel serrame 1010
Entrò il fantasma, e, standole sul capo:
"Riposi tu, Penelope", dicea,
"Nel tuo cordoglio? Gl'immortali dèi
Lagrimosa non voglionti, nè trista.
Riederà il figliuol tuo, perché de' numi 1015
L'ira col suo fallir mai non incorse".


E la Reina, che dormìa de' sogni
Soavissimamente in su le porte:
"Sorella, a che venistu? io mai da prima
Non ti vedea, così da lunge alberghi; 1020
E or vuoi ch'io vinca quel martìr che in cento
Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte
Perdei sì buon, di sì gran core, ornato
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome

Per l'Ellada risuona e l'Argo tutta! 1025
S'arroge a questo, che il diletto figlio
Partì su ratta nave, un giovinetto
Delle fatiche e dell'usanze ignaro.
Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango
E temo nol sorprenda o tra le genti 1030
Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti
Nemici ha che l'insidiano, e di vita

Prima il desìan levar, ch'egli a me torni".

Ratto riprese il simulacro oscuro:
"Scaccia da te questi ribrezzi, e spera. 1035
Compagna il segue di cotanta possa,
Che ognun per sé la bramerìa: Atena,
Cui pietà di te punse e di cui fida,
Per tuo conforto ambasciatrice io venni".

E la saggia Penelope a rincontro: 1040
"Poiché una dea sei dunque, o almeno udisti
La voce d'una dea, parlarmi ancora
Di quell'altro infelice or non potrai?
Vive? rimira in qualche parte il Sole?
O ne' bassi calò regni di Pluto?" 1045

Ratto riprese il simulacro oscuro:

"S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri.
Spender non piace a me gli accenti indarno".
Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo
Si mescolò co' venti e dileguossi. 1050
Ma la reina si destò in quel punto,
Ed il cor si sentì d'un'improvvisa
Brillar letizia, che lasciolle il sogno,
Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba.


I proci l'onde già fendeano, estrema 1055
Macchinando a Telemaco ruina.
Siede tra la pietrosa Itaca e Samo
Un'isola in quel mar, che Asteri è detta,
Pur dirupata, né già troppo grande,
Ma con sicuri porti, in cui le navi 1060
D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato
Telemaco attendean gl'iniqui Achei.

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