Biblioteca:Igino, Fabulae 257

Le coppie di amici più fedeli[modifica]

Pilade, figlio di Strofio, e Oreste, figlio di Agamennone. Piritoo, figlio di Issione, e Teseo, figlio di Egeo. Achille, figlio di Peleo, e Patroclo, figlio di Menezio. Diomede, figlio di Tideo, e Stenelo, figlio di Capaneo. Peleo, figlio di Eaco, e Fenice, figlio di Amintore. Eracle, figlio di Zeus, e Filottete, figlio di Peante. Armodio e Aristogitone, uniti da amore fraterno. In Sicilia c’era un tiranno crudelissimo, Dionisio, che metteva i suoi concittadini a morte dopo averli torturati. Mero decise di uccidere il tiranno, ma le guardie lo sorpresero con le armi in pugno e lo portarono al cospetto del re; qui Mero fu interrogato e ammise che voleva uccidere il re, il quale ordinò che fosse crocifisso. Mero chiese allora che gli fosse concesso un rinvio di tre giorni, per poter maritare sua sorella, dicendo che avrebbe dato in pegno al tiranno il suo amico e compagno Selinunto per garantirgli che il terzo giorno sarebbe ritornato. Il re concesse a Mero il rinvio che chiedeva, ma disse a Selinunto che se Mero non fosse tornato nel giorno stabilito, sarebbe stato lui a subire la stessa pena, mentre Mero sarebbe stato graziato. Mero, dopo aver sistemato la sorella, stava ritornando, quando improvvisamente un acquazzone ingrossò talmente le acque del fiume da rendere impossibile la traversata, sia a guado che a nuoto. Mero si sedette sulla sponda e pianse, temendo che l’amico dovesse morire al posto suo. Quel Falaride, intanto, ordinò che Selinunto venisse crocifisso, poiche era già l’ora sesta del terzo giorno e Mero non si vedeva; ma Selinunto replicò che il giorno non era ancora trascorso del tutto. Quando arrivò l’ora nona, il re ordinò di condurre Selinunto alla croce. Ma, mentre lo stavano portando via, Mero, che finalmente e a fatica era riuscito ad attraversare il fiume, corse dietro al carnefice gridando da lontano: «Ferma, carnefice, eccomi! Sono quello di cui si era fatto garante!» La cosa venne riferita al re, che li fece condurre entrambi al suo cospetto, concesse la vita a Mero e li pregò di diventare suoi amici. Armodio e Aristogitone. Sempre in Sicilia, quando Armodio volle uccidere lo stesso Falaride, uccise una scrofa con i piccoli, per dare corpo alla sua simulazione, e andò dall’amico suo Aristogitone con la spada insanguinata, dicendo che aveva ucciso la madre e pregandolo di nasconderlo. Quando Aristogitone l’ebbe nascosto, Armodio gli chiese di uscire e di venire poi a riferirgli se circolassero voci a proposito della madre. Aristogitone gli riferì che non correva nessuna voce; i due andarono avanti a discutere fino a sera, per sapere chi era meglio disposto verso l’altro, e Aristogitone non volle rimproverare Armodio per l’assassinio della madre. Alla fine Armodio rivelò all’amico di aver ucciso una scrofa che aveva i piccoli e di averla chiamata madre; poi gli disse che aveva intenzione di uccidere il re e gli chiese di essere suo complice. Ma, mentre stavano andando a uccidere il re, vennero catturati con le armi in pugno dalle guardie; e mentre venivano condotti al cospetto del tiranno, Aristogitone riuscì a liberarsi e a fuggire e il solo Armodio fu portato davanti al re. Quando gli chiesero chi fosse il suo compagno, per non tradire l’amico si mozzò la lingua con i denti e la sputò in faccia al re. Niso e il suo Eurialo, per il quale morì.