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Del novello Quirin: spumante e ingombro
 
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Vedrassi il Nilo, e le colonne erette
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Versione delle 15:45, 24 giu 2022

<poem> Te pur, divina Pale, e te d’Anfriso Memorando Pastor, voi boschi e fonti Del Liceo canterò. L’altre che dolce Sarien trastullo a l’ozïose menti, Favolose memorie, omai son tutte 5 Da lungo tempo e divulgate, e conte. Chi d’Euristeo le insidie, e l’are infami Di Busiride ignora? o chi la fonte D’Ila fanciullo, e di Leto in Delo La fuga, e il parto non udì? cui noti 10 Del rinomato Pelope non sono L’omero eburneo, i vincitor destrieri E la sposa fatal? Nuovo a me giova Tentar sentiero, e nuovo carme, ond’altro M’erga dal suolo, e per le bocche altrui 15 Vincitor de l’oblio voli il mio nome. Primo io, se vita avrò, ne i patrii lidi Da l’Elicona le pïerie muse Condurrò meco, e primo a te di palme, Mantova, illustre porterò corona. 20 E in verde prato mäestoso tempio Di ricchi marmi inalzerò là, dove Lento scorrendo e tortuoso veste D’alga palustre le sue rive il Mincio. Al tempio in mezzo il simulacro posto 25 Sarà d’Augusto, e ad onorarne il nume Io vincitor di porpora vestito Cento del fiume a l’affollata riva Emule al corso agiterò quadriglie; E al grido tratta de i festivi giuochi 30 Verrà, lasciando del Molorco i boschi, E l’olimpico Alfeo, la Grecia tutta Al corso, e al cesto ivi a pugnar; ed io Cinto le tempie di tosato ulivo Porgerò i doni a i vincitori Atleti. 35 E già presenti col pensier figuro, E veder parmi le solenni pompe Condotte al tempio, e gl’immolati tori: Già ne i tëatri su i veloci perni Veggio d’aspetto varïar le pinte 40 Mobili scene, ed i britanni schiavi Svolgere e alzar ne i ricamati arazzi Le lor tessute immagini, e sconfitte. Su l’alte porte in liscio avorio, e in oro Inciderò l’indica pugna, e l’armi 45 Del novello Quirin: spumante e ingombro D’ostili vele e di sanguigni flutti Vedrassi il Nilo, e le colonne erette Col fuso bronzo de l’egizie navi. De l’Asia in oltre aggiugnerò le dome 50 Città, gli Armeni debellati, e il Parto Che imbelle a un tempo e insidïoso i dardi Scaglia da tergo, e nel fuggir combatte. Le doppie spoglie, ed i trofei rapiti A diversi nemici, e la due volte 55 Ne l’uno e l’altro mar gente sconfitta. Scolpiti al vivo in pario marmo i volti Ivi saranno, e i glorïosi nomi De la scesa da Giove inclita schiatta, D’Assaraco la prole, e il padre Troe, 60 E il fondator de l’alta Troia Apollo. Muta l’Invidia e pallida le ultrici Furie, dovuta pena, e il nero fiume Paventerà del vindice Cocito, La ruota e i serpi d’Issione, e il sasso, 65 Che di Sisifo il piè stanca, e la mano.

Ma ne le selve de le Driadi intanto, Da latino cantor non tocche ancora, Or tempo è, ch’io m’inoltri. Ardua fatica, Ma tuo comando, augusta Bice, a cui 70 Nulla negare, e senza cui non osa Nulla di grande incominciar l’ingegno. Su dunque vieni, affretta omai: con alto Rimbombo già del Citeron gli armenti, E del Taigete i cani, e d’Epidauro 75 Ne invitano i destrieri, e il vasto intorno Fragor s’addoppia a l’eccheggiar de i boschi. Dopo questo lavor con maggior tromba Io poi d’Augusto canterò le guerre, E farò sì, che il nome suo per fama 80 La lunga etade di Titon pareggi.

O che a le palme olimpiche tu voglia Magnanimi destrieri, o buoi robusti A l’aratro educar, tua prima cura Sarà sceglier le madri. Ottima quella 85 Giovenca fia, che torva abbia la fronte, Informe il capo, e doppio il collo, e a cui Dal mento giù fino al ginocchio ondeggi La pendula gorgaia: esteso e lungo Il fianco loderò, grandi le membra 90 E muscolose, e largo il piede, e sotto Brevi e inarcate corna irte le orecchie. Nè a me dispiacerà che sparso mostri Di bianche macchie il dorso, e non che il giogo Indocile ricusi, e il corno avventi 95 Minacciosa a ferir, nè che del toro Le forme imiti e la maschil fierezza, E mäestosa passeggiando e altera Scopi il terren co la setosa coda.

Non pria del quarto soffrirai, non oltre 100 Il decim’anno che a i lavori agresti, O a le fatiche d’imeneo soggiaccia; Fuor di questi confin rïesce a i parti Ogni altra etade, ed a l’aratro inetta. Dunque, finchè conservano le mandre 105 Il giovanil vigor, t’affretta, e il maschio Sciogli, e il concedi a l’avide consorti, Che gli annui danni a riparar crescente Somministrino a te novella prole. Ahi! che qual lampo a i miseri viventi 110 De la fiorita età fuggono i giorni; Quindi i morbi succedono, e le tristi Fatiche, e l’egra inutile vecchiezza, E morte alfin, che tutto invola e strugge. Tu fra le molte madri alcuna sempre 115 Da cambiar troverai; nuova sottentri A l’inabile, o vecchia, e cauto ogni anno Prevenendo il bisogno, i nuovi eleggi Migliori allievi a risarcir l’armento.

E ne la scelta de i destrier pur anco 120 Vuolsi ogni studio usar, e quelli poi Fin da’ prim’anni custodir che scelti Avrai le razze a propagar. Tra questi Sono i leardi in molto pregio, e i bai, Negletto e vile il cinericcio e il falbo. 125 Se generoso è d’indole il polledro, Giovinetto il vedrai tosto pe i campi Passeggiar alto, e la pieghevol zampa Mollemente posar: primo ei nel corso La via divora, e a perigliosi guadi 130 Intrepido s’avventa, e ignoto ponte Osa calcar con franco piè, nè vano O subito romor l’arresta, o scuote. Erta e ricurva ha la cervice, il capo Sottil, tonda la groppa, asciutto il fianco, 135 Polputo e largo l’animoso petto. Chè se improvviso suon d’armi, o di tromba Da lungi ascolta, impetuoso, ardente S’agita, e star non sa, drizza le orecchie, E trema, e sbuffa da le nari il foco. 140 Sovra l’omero destro ondeggia sparso Il foltissimo crin, doppia sul dorso Appar la spina, e irrequïeta e dura Batte e scava il terren l’unghia sonante. Tal fu Cillaro un dì, domo dal freno 145 De l’amicleo Polluce, e tai di Marte I cavalli a noi pinsero, e d’Achille I greci vati; e in simile destriero Trasformossi Nettun, quando da Rea Colto in furtivi amor lasciò sul collo 150 Cadersi i crini, e rapido fuggendo Su l’alto Pelio di nitriti acuti La conscia spaventò Fillira amante.

Quando però da non sanabil morbo, O da lunghi anni infievolito ei langue, 155 Tu chiuso allora ne le stalle il serba, E a l’onorata e di riposo degna Sua vecchiezza perdona. Inetto e freddo Sempre è il vecchio in amor, e in vani sforzi Consumasi anelando; e se talvolta 160 A la battaglia avventasi, repente In lui, qual debil vampa in secca paglia, In breve langue inutile furore. E l’età dunque, e l’indole, e le doti Varie procura d’indagar, da quale 165 Schiatta derivi, e qual nel corso mostri Senso di gloria a riportar la palma, O dolor d’esser vinto. E non vedesti Nel circo allor che da le aperte sbarre Impetüosi a divorar l’arringo 170 Slanciansi i cocchi? Ai giovanetti aurighi Fra la speme e il timor esulta, e in petto Palpita il cor: co le innalzate sferze Pendono chini e ai corridor sul collo Allentano le briglie; accese in giro 175 Volan le ruote: or rannicchiarsi e bassi Radere il suolo, or raddrizzarsi e in alto Li vedi sollevar; nè indugi o al corso O riposo sì dà: nuotano in nembo Di polvere i destrier, di sudor molli, 180 Bianchi di spume, ed anelante il vinto Scalda col fiato al vincitor le groppe. Tanto è l’ardor de la vittoria, e tanto Può negli emuli cor desìo di lode.

Primo Erittonio fu che quattro al giogo 185 Destrieri aggiunse, e su veloce cocchio Osò mostrarsi trïonfando in giro. I peletronii Lápiti del freno L’uso poscia inventarono, e sul dorso Dei domati destrieri in mezzo a l’armi 190 Ai giri li addestrano ed ai salti, E mäestosi a galoppar sul campo. Ambe quest’arti han lode ugual; ma sia, Che a l’una o a l’altra i generosi alunni Ami educar, ne la paterna scelta 195 Ardente al corso e vigoroso cerca, E giovane il destrier. Vecchio il rigetta, Nè lasciarti sedur, benchè famoso Sia per vinte battaglie, o a patria vanti Micene, o Epiro, e non s’ei fosse ancora 200 Del destrier di Nettun divina prole.

Ciò posto, allor che il solito s’appressa Tempo de gli imenei, tutte le cure Pongono in uso i provvidi custodi Il maschio ad impinguar, che de l’armento 205 A duce destinarono e marito; A liquid’acque, erbe sugose e biada Porgongli in copia, onde non egli al dolce D’amor travaglio inabile soccomba, O da padre digiun nascano poi 210 Estenuati e senza forze i figli. Ma per opposto di smagrir le madri Studiano ad arte, ed allor quando il noto Piacer le invoglia a gli amorosi assalti, Dai paschi le allonatanano e dai fonti, 215 E spesso ancora affaticarle al corso Sogliono e sotto il sol, mentre su l’aia Batte le biade il contadino, e gitta In faccia al vento le volanti paglie. E ciò perchè non di soverchio pingue 220 Stringasi il solco genital, ma schiuda Facile il varco, e sitibondo attragga, E custodisca l’internato seme.

Ma il provvido pensier che pria rivolto Era i padri a nudrir, termina, e quello 225 De le madri sottentra, allorchè in giro Portano pregno di più mesi il ventre. Ah non soffrasi allor che a grave carro Alcun le aggioghi, o a correre sui prati, O a saltar fossi, o rapidi torrenti 230 Le costringa a guadar. Pascan tranquille In aperta pianura e lungo il fiume; Che placido ridondi, ove di musco E d’erbe ognor verdeggiano le rive, E fresca grotta, o sovrastante scoglio 235 Non lontan somministri ombra ed asilo.

Dentro i boschi del Silaro e vicino Al coronato di verdi elci Alburno, Stridulo vola e numeroso un tristo Alato insetto, a cui d’asilo diero 240 Nome i Romani, e in lor favella poi Estro i Greci il chiamar. Da l’aspro e acuto Stimolo e da l’orrisono ronzìo Fuggon gli armenti spaventati, e d’alto Muggito il ciel, le ingrate selve e i lidi 245 Rimbombando de l’arido Tanagro. Questo per odio e per vendetta un tempo Contro l’Inachia figlia orrido mostro La gelosa incitò cruda Giunone. Tu lui però da le impregnate madri 250 Lungi discaccia; e al mezzodì, chè allora Più molesto esser suol, cauto ritira L’armento altrove, e a pascolarvi il guida O ai primi raggi del nascente sole, O a l’apparir de le notturne stelle. 255

Dopo del parto ogni pensiero e cura A i vitelli rivolgesi; e da prima Sovra la coscia con rovente ferro S’imprime il marchio de la razza, e quelli Scelgonsi poi che vittima a gli altari 260 Son destinati o a propagar la mandra, O sotto il giogo ad incallire il collo, E i duri campi aprir: liberi gli altri Su i verdi prati a pascolar sen vanno.

Tu quei però che ai rustici lavori 265 Formar vorrai, d’ammäestrar procura, E di domare in giovinetta etade, Finchè la docil’indole inesperta E’ facile a piegar: e pria di molli Pieghevoli vincastri un largo cerchio 270 Portin pendulo al collo, e poichè avvezza La libera cervice a questo avranno Segno di servitù, co i cerchi stessi Tu due ne aggioga, e sforzali congiunti Con passo eguale a camminar del pari. 275 Ciò fatto, il carro insiem, vôto da pria, S’addestrino a tirar che segni appena Il polveroso pian; indi, cresciute Le forze alfine, a più pesante incarco Curvino il dorso, e gemere da tergo 280 Odano l’asse, e cigolar le ruote. Cibo ai vitelli non domati ancora Non pur l’alga palustre, e il salcio, e l’erbe Verdi saran, ma le recise cime Porgerai lor de le novelle biade; 285 Nè dopo il parto a te le munte vacche, Come uso antico fu, di latte i vasi Empir dovran, ma lascerai che tutte Vôtino i figli le materne poppe.

Che se di Marte a le feroci pugne 290 L’animo hai volto; o del pisano Alfeo Lungo le rive, o nei sacrati a Giove Arcadi boschi le veloci bighe Ami al corso agitar, tua prima cura Sia l’avvezzare il giovane polledro 295 De l’armi il lampo e de le trombe il suono Tranquillo a sostener; nè lui di ruote Stridor spaventi, o l’agitar dei freni Dentro le stalle; ed a la nota voce Del custode s’allegri, e il plauso goda 300 De la concava man che a lui la fronte E il collo palpa accarezzando e il petto. E a tutto questo accostumarlo è d’uopo Slattato appena; e giovanetto pure Debole ancora, e di difese ignaro 305 Morbide funi al collo intorno e in bocca Di morso invece a tollerare impari. Ma poichè, il terzo già compiuto, ei giunge L’anno quarto a toccar, cominci allora A sciorre il trotto rotëando in giro, 310 Indi con arte a regolati passi Addestri il piè sonante, e inarchi, e snodi Le gambe alterne e l’agil anca, e sembri Costretto faticar; libero al corso Poi s’abbandoni, e per gli aperti campi, 315 Sciolto sul collo il fren, rapido voli, L’orme segnando su la polve appena. Così talor da l’iperboree spiagge Scende aquilon fugandosi dinanzi Le scitiche procelle, e i secchi nembi. 320 Senton da lungi il suo venire, e al primo Soffio leggero le ondeggianti spiche A spiegarsi incominciano, e le cime A sibilar de le foreste, e lungi A sorger l’onde ed innalzarsi al lido: 325 Ei sopraggiunge impetüoso, e passa Radendo a volo le campagne e il mare. Educato così tu lieto poi Primo a la meta il tuo destrier vedrai, Di sudor sparso e di sanguigne spume 330 Correre un dì ne la palestra elea, O in miglior uso l’animoso collo A i belgici soppor guerrieri cocchi. Poichè domo ei sarà, tu lascia allora Che d’erbe e biada a sazietà pasciuto 335 Colmi ingrassando le carnose groppe, Prima non già, chè indocile e feroce Mal soffrirebbe la fischiante verga E d’ubbidir ricuserebbe al morso.

Ma nulla tanto è necessario, come 340 Da le furie di Venere, e dai ciechi Stimoli de l’amor guardar l’armento. Uso è però di confinare i tori In solitarii pascoli e lontani, O dietro a’ monti, o di frapposto fiume 345 Oltre le rive, o ne le chiuse stalle Separati a mangiar; poichè la vista De le consorti accende in loro e nutre Un lento foco che li strugge e snerva, Dei pascoli svogliandoli e dei boschi. 350 E avvien sovente che di loro alcuna Co le dolci lusinghe istighi e mova I gelosi a pugnar superbi amanti. Stassi nel bosco, e dei rivali in vista Pascendo la bellissima giovenca. 355 Essi abbassando le nemiche fronti Movonsi incontro, e con feroce assalto Le corna incrocicchiando urtansi, e i colpi Alternano e le piaghe; il nero sangue Dal collo gronda e da le spalle, e geme 360 A le percosse ed ai muggiti il bosco. Nè accordo, o pace è più tra lor, nè albergo Han più comune insiem; esule il vinto Sen va lontano in solitarie spiagge Le sue ferite a piangere, e il suo scorno, 365 E la vittoria del rival superbo, E i suoi perduti e invendicati amori. E rivolgendo nel partir lo sguardo A i pascoli e a le stalle, i cari lidi, Dove ei nacque e regnò, mesto abbandona. 370 Ma non l’amor, nè la vendetta obblìa, E le sue forze esercitando e l’ire, A le fatiche indurasi, e fra i sassi In ruvido covil giace, d’amare Foglie, e d’acuta carice pasciuto; 375 E cimentando il suo furor, le corna Appunta ai duri tronchi, e vani colpi Vibrando a l’aria, co la bifid’unghia Sparge l’arena, ed a pugnar s’addestra. E poichè alfin tutto raccolto ei sente 380 Il primiero vigore, a nuova pugna Esce in campo, e l’immemore nemico Impetuoso ad assaltar ritorna. Siccome flutto che da l’alto mare Biancheggiar lungi, ed avanzar si vede 385 Or alto, or basso, indi più sempre a terra Appressarsi ingrossando, e alfin tra scogli Urtar muggendo, e sovra i lidi immenso Rovesciarsi e piombar: da l’imo fondo L’onda agitata in vorticosi giri 390 Bolle e solleva la sconvolta arena.

E che non puote amor? sue dolci furie Ogni animal risente, e del suo foco Ardon del pari e gli uomini e le fiere, Le gregge, i pesci, ed i volanti augelli. 395 Calda d’amor la lïonessa obblìa I cari figli, furïosa errando A la campagna; sanguinose stragi Fan gli orsi informi per le selve, e smania L’orrida tigre: ahi! periglioso allora 400 Saria di Libia il traversar le arene. Non vedi tu qual tremito ricerchi Ogni fibra al destrier, sol che a le nari L’aura da lungi il noto odor trasporti? Rapido ei fugge, nè la dura sferza, 405 Nè il ferreo morso più, nè scoglio, o rupe, Nè frapposto il ritien gonfio torrente. E il feroce cignal urta grugnendo Le folte macchie, aguzza i denti, e il suolo Raspa, e fregando a gli alberi le coste 410 L’ispido dorso a le ferite indura. Che poi non oserà giovine incauto, A cui nel sen sua vïolenta face Agiti il crudo amor? Misero! ahi solo Di cupa notte in tempestoso mare 415 Gittasi a nuoto: invano a lui sul capo Tuona e balena il ciel, tra scogli infranto Mugghiagli invano il gonfio flutto; ei nulla Ode, o paventa; nè il suo rischio, o il pianto Dei genitor, nè l’infelice amante 420 Che di dolor ne morirà, lo arresta. E che dirò de le macchiate linei, A Bacco sacre, e de i selvaggi lupi, E de i cani domestici, e de l’aspre Pugne che accende amor ne i cervi imbelli? 425 Ma nulla uguaglia lo sfrenato e cieco Furor de le cavalle: in lor l’infuse Venere stessa fin da quando in Potno Le spinse il corpo a divorar di Glauco. Oltre il sonante Ascanio, oltre il sublime 430 Gargara amor le caccia, e varcan monti, E foreste attraversano e torrenti. E quando poi ne la stagion novella Serpeggiar ne le cupide midolle Sentono il noto ardor, su l’alta cima 435 D’ignude rupi radunate e immote Stan con la bocca a i zefiri rivolte L’aure bevendo, e, meraviglia a dirsi! Senz’altre nozze gravide di vento Scendono allor precipitose in fuga 440 Tra scogli e balze, e per le cupe valli; E non a l’auro, od al nascente sole Volgono il corso, ma là, d’onde o coro Spira, o il freddo aquilon, o il torbid’austro Che di piogge dirotte attrista il cielo. 445 E quindi poi da la concetta fiamma D’acre e viscoso umor stillano un lento Veleno, a cui d’Ippomane i pastori Diedero il nome, e che le rie matrigne Spesse volte raccolgono, mescendo 450 Venefich’erbe e magiche parole. Ma fugge intanto e rapido s’invola Il tempo irrevocabile, mentr’io Già troppo a lungo da l’amor rapito M’arresto errando ad ogni oggetto intorno. 455

Basta fin qui del grosso armento. Or resta Del lanigero gregge, e de le irsute Capre a parlar: di faticosa cura E’ il culto lor, ma larga poi ne speri L’industre agricoltor lode e vantaggio. 460 Ben veggio, e so, che malagevol opra Fia l’innalzar con dignitoso stile Sì basse cose, e l’umile argomento Coi fregi ornar de l’apollineo canto; Ma un dolce amor di peregrina lode 465 Me per deserte e sconosciute spiagge Di Pindo invita: ignote vie mi giova Tentar su l’ardue cime, ove non orma Appar d’antico piè che apra, od insegni Facil sentiero a le castalie rive. 470 Or tu propizia, o veneranda Pale, Scendi, e rinforza la mia voce al canto. E pria nel caldo ovil, finchè del verno Dura la ria stagion, d’erbe dovrai Le pecore nutrir, e a lor di paglia 475 E di morbida felce agiato letto Distender sotto, onde non nuoca il gelo De l’umido terreno, e il molle gregge D’immonda scabbia, o di podagra infetti. Le capre poi di teneri e frondosi 480 Ramoscelli alimenta, e limpid’onda Bevano e fresca, e al mezzodì rivolte Abbian le stalle, onde anche allor che versa L’umido acquario le gelate piogge, Godano il sole, e non le offenda il vento. 485 Nè minor cura a lor tu déi, nè frutto Minor, che da le pecore, ne avrai: Che se le ricche e prezïose lane Non porgon esse, che colora in Tiro Il milesio pastor, feconde invece 490 Sono di parti numerosi, e quindi Così di latte abbondano, che quanto Più i vasi n’empirai, tanto mungendo Più lo vedrai fra le tue dita in bianchi Rivi colar da le rigonfie poppe. 495 Al cinifio capron si tosan pure La bianca barba, e il lungo pel che ad uso Servono poi di militari tende, E ne la pioggia a i marinar di cappa. Nel giorno e per le selve, e su per l’erte 500 Cime de’ monti pasconsi le capre D’alpestri dumi e di spinosi rubi, E da se stesse poi memori a casa Guidando i parti lor, tornan la sera, E de l’ovil co le ripiene poppe 505 Possono a stento sormontar la soglia. Ma tu però, quanto minori in loro Sono i bisogni de la vita, attento Veglian dovrai, che dai nevosi venti Sien difese, e dal gelo, e finchè dura 510 De l’inverno il rigor, provvido tieni Chiuse le stalle, ed il fenile aperto. Ma quando poi de’ zefiretti il dolce Fiato richiama la stagion migliore, E le capre e le pecore nei verdi 515 Boschi, e sui prati a pascolare invia; E dal dischiuso ovil escan ne l’ora Che spunta appena in ciel l’idalia stella, E non ben chiaro è il dì, finchè biancheggia Il campo ancor de la notturna brina, 520 E grata al gregge tremolando brilla Su l’erbe la freschissima rugiada. A l’ora quarta poi che in lor la sete Destasi, e i campi col noioso canto Assorda e il ciel la querula cicala, 525 A ber le guiderai la limpid’onda Che per lungo canal d’elci scavate Da i pozzi scorre, o dal vicino lago. Ma nel meriggio ombrosa valle e fresca Trovar procura, ove i fronzuti rami 530 Ampia distende antica quercia, o dove Di folt’elci nereggia il bosco opaco. E finalmente al tramontar del sole Abbeverarle, e pascere di nuovo Devi, quando il calor tempra del giorno 535 Espero, e spunta a ristorare i prati L’umida luna, e già cantar sul lido L’alcïon s’ode, e il cardellin fra i dumi.

E a che dir qui de’ nomadi pastori Gli usi diversi, e i pascoli, ed i rari 540 Ne l’inospito suol sparsi tugurii? Spesso l’errante greggia e notte e giorno Per quelle solitudini pascendo Sen va gl’interi mesi, a nudo cielo, Senza tetto incontrar, tanto si stende 545 La deserta pianura! E tutto quindi Porta con se quanto a la vita è d’uopo L’affricano pastor, gli arnesi, e i lari, E la capanna, e la faretra, e il cane. Tal d’armi carco, e d’importabil soma 550 Il soldato roman con piè robusto La marcia affretta, e inaspettato il campo Pianta, e già sta de l’inimico a fronte.

Ma ne la Scizia non così, nè presso A la mëotic’onda, o dove l’Istro 555 Torbido volge al mar le bionde arene, O dove l’alto Rodope piegando Fin sotto al polo borëal s’allunga. Ivi non mai da le rinchiuse stalle Escon gli armenti; e non appar su i campi 560 Erba, o fronda su gli alberi, ma sotto Monti di neve desolata giace La terra intorno, e d’aspro gel coperta, Che alto a più braccia sovra lei s’indura. Perpetuo regna ivi l’inverno, e soffia 565 Il freddo coro, nè da l’äer tristo Mai le pallide nebbie il sol dirada, O ch’ei dal mar col luminoso carro In alto ascenda, o che nel mar tramonti. In dure lastre de i correnti fiumi 570 Stringesi l’onda, e immobile sul dorso Sostien le ferree ruote, ospite pria Di lievi barche, or di stridenti carri. Ampio specchio di lubrico cristallo Ogni lago divien, frange i metalli 575 L’acuto freddo, e co la scure in pezzi Tagliasi il duro vin, gelano indosso L’umide vesti, e indurasi in sonore Gocce di brina su la barba il fiato. Giù folta intanto dal cinereo cielo 580 Cade la neve a larghi fiocchi intorno. Ne muor la greggia intirizzita, e oppressi Vi rimangono i buoi; ristretti in branco Giacciono i cervi, e torpidi e sepolti Sotto il peso novel la cima appena 585 Mostrano fuor de le ramose corna. Nè cani allora per cacciarli, o reti, O späuracchi di purpuree penne Usa il feroce cacciator; col ferro Corre lor sopra ad assalirli, e mentre 590 Tentan col petto invan l’opposta neve Gemendo sollevar, scannali, e lieto Porta con se la palpitante preda. Privi di sol que’ popoli selvaggi Entro scavate sotterranee grotte 595 Menan sicura ed ozïosa vita, E sovra i vasti focolar le intere Querce ammontando e gli olmi, in cerchio assisi Le lunghe notti ingannano giocando, E a piene tazze, de le ignote viti 600 Imitando il liquor, bevon de l’orzo, E de le sorbe fermentate il sugo. E, se nei brevi dì da le lor tane Osan talvolta uscir, de l’euro a schermo Che da i monti rifei gelido spira, 605 Pe i boschi errando van, d’ispide pelli D’uccise fiere orribilmente involti.

Or ritornando a te, se il gregge nutri Per raccoglierne lana, i troppo grassi Pascoli devi, e gli spinosi dumi 610 Fuggir del pari, e dapprincipio bianche, E di morbido pel sceglier le madri. Ma sovra tutto il capro, a cui nereggi La lingua sotto l’umido palato, Fosse ei pur candidissimo qual neve, 615 Cauto rigetta, onde macchiati i figli Non nascan poscia, ed un miglior ne cerca. E in bianco capro trasformato un giorno L’amante arcade Pan, se creder lice, Te, Dïana, ingannò, nel folto bosco 620 Da la lana bianchissima sedotta Allettandoti a scendere; nè isdegno Mostrasti tu del frodolento invito.

Ma chi di latte è più bramoso, al gregge E loro porga, e citiso fiorito, 625 Ed erbe salse, onde maggior la sete In lor si desta, e più bevendo gonfie Han più le poppe, e da gli occulti sali Un più grato sapor risente il latte. Molti vi sono che i crescenti figli 630 Da le madri allontanano, ed al muso Pongon pungente ostacolo di ferro. Quel latte che il pastor munge al mattino, E ne l’ore del giorno a tarda notte Il guaglia e preme, e quello poi che munto 635 Ha ne la sera al tramontar del sole, O a la cittade in candide fiscelle Su l’alba il porta, o parcamente asperso Di sale il serba pel futuro inverno.

Nè de le cure tue restino i cani 640 L’ultima, o la minor: di pingue siero Lo spartan velocissimo, e il feroce Molosso nutrirai. Finchè custodi Saran questi a l’ovil, notturni ladri Temer non devi, o di voraci lupi 645 Insidïoso assalto, o che a le spalle Stuol ti sorprenda di vaganti Iberi. E con essi potrai sovente al corso Gli onagri päurosi, e le orecchiute Lepri inseguire, e le veloci damme; 650 E co i latrati lor fuor de le macchie I cignali stanar, e giù da i monti Cacciar gridando ne la rete i cervi.

D’ardere innoltre l’odoroso cedro Entro i presepii avverti, e l’atre bisce 655 Snidarne fuor col galbano fumoso. Sovente avvien, che timida fuggendo Dal chiaro giorno ne le immonde stalle La velenosa vipera s’asconda; O che serpente a ricovrarsi avvezzo 660 De i tetti a l’ombra, insidïosa peste De la greggia e de’ buoi, giacciavi occulto In riposto covil: tu greve sasso, O nodoso baston rapido afferra, E lui che n’esce minaccioso in vista, 665 Ed alza e gonfia sibilando il collo, Percuoti e schiaccia: egli fuggendo il capo Dai colpi asconderà, tu incalza e il batti Finchè slombato e lacero le attorte Spire disciolga, dimenando appena 670 Con lento moto la strisciante coda.

Ma ne le selve di Calabria un angue Annidasi peggior: squammoso ha il tergo, Sublime il petto, erta la cresta, e lungo E a grandi macchie colorato il ventre. 675 Ei finchè piene son le fonti, e inonda L’umida primavera e il torbid’austro Di pioggia il suolo, a i paludosi stagni Aggirasi d’intorno, o in riva a i fiumi Abita, e ingordo predator la gola 680 S’empie di pesci e di loquaci rane. Ma quando asciutta è la palude, e s’apre Fessa dal sol la terra, esce dal secco Letto, e pe i campi inferocito smania Di sete e di calor, e l’arse fauci 685 Spalanca e gira l’infiammate luci. Guardimi il Ciel che a periglioso sonno Ne l’aria aperta io m’abbandoni allora, O che nel bosco, o sul pendìo del colle Io mi ponga a giacer, quand’ei le antiche 690 Squame deposte, di novelle spoglie Ringiovenito mostrasi, o nel nido L’ova lasciando, o la digiuna prole Va strisciando pe i campi, e contro al sole Alzasi, e vibra la trisulca lingua. 695

Or qui de’ morbi le cagion diverse, E i segni indicherò. Lurida scabbia Suol le agnelle infettar, quando o la pioggia Soffrono, o il freddo lungamente, o quando Seccasi in croste sul tosato dorso 700 Non lavato il sudor, o irsute spine Insanguinando sfregiano la pelle. Sogliono quindi i provvidi pastori Spesso lavar di limpid’onda il gregge, E in rio corrente spingono, e a seconda 705 Sforzano il capro a gir, che n’esce poi Rigando il suol con la grondante lana. E a le tosate pecore son molti, Che ungono il corpo d’olëosa morchia, E pece d’Ida, e vivo zolfo, e spume 710 Vi mischiano d’argento, e squilla, e pingue Vergine cera, elleboro e bitume. Ma il più sicuro ed opportun rimedio E’ de la piaga il velenoso labbro Col ferro risecar: nutresi, e chiusa 715 L’ulcere cresce, non sanabil poi, Se la medica man pigro ricusi Di prestarvi il pastor, e inerte sieda Chiedendo al Ciel con vane preci aita. Che se ne l’ossa de le inferme agnelle 720 Passi il dolore, e le consumi acuta Arida febbre, gioverà col ferro Aprir del piè la zampillante vena; Come i Bisalti sogliono, e i Geloni O sul Rodope erranti, o pe i deserti 725 Getici, usar co i lor cavalli, e caldo Beverne il sangue mescolato al latte.

Se pecora vedrai lungi da l’altre Errar divisa, e ricovrarsi a l’ombra Spesso, o svogliata mordere de l’erbe 730 La cima appena, e a lenti passi il gregge Ultima seguitar, o in mezzo al campo Coricarsi pascendo, e a tarda notte Sola partirne, ah tu la via col ferro Tronca al nascente mal, prima che tutta 735 L’incauta greggia serpeggiando infetti. Non così spesso il turbine sul mare Agita e mesce i tempestosi flutti, Come frequenti nel lanuto armento Regnano i morbi: e non a poche agnelle 740 E’ il contagio fatal, tutte sovente Le madri, e i capri, e la crescente speme, E intero suole devastar l’ovile.

E ben convinto ne sarà, chi l’Alpi, E i montüosi norici castelli 745 Visiti, e i campi del Timavo, e dopo Sì lungo tempo ancor vegga d’intorno Deserti i regni de’ pastori, e vôti D’armento i boschi, e desolati i paschi.

In questi luoghi orribile già nacque 750 Da l’äer guasto contagiosa peste, Che incrudelì nel caldo autunno, e tutte Infettò l’acque, e i pascoli corruppe, E armenti, e gregge, e fin le belve uccise. Nè conosciuto, o naturale il modo 755 Era in lor di morir: chè ove ignea sete, Dentro le vene penetrando, attratte E inaridite avea le membra, un nuovo Quindi umor generavasi che pregno D’acre veleno in putrida sciogliea 760 Liquida tabe le midolle e l’ossa. Spesso appiè de l’altar, mentre a le corna Le sacre s’avvolgean candide bende Per offrirla a gli dei; l’ostia si vide Fra le man de gli attoniti ministri 765 Moribonda cader; o se taluna Il sacerdote ne uccidea col ferro, Nè le viscere imposte ardean su l’ara, Nè il consultato aruspice risposta Trarne incerto potea: di sangue appena 770 Eran tinti i coltelli, e poche stille D’atra tabe macchiavano il terreno. Presi dal morbo rio su i paschi erbosi, E ne i presepii, e ne gli ovili a torme Muoiono agnelli e buoi; mordace rabbia 775 Assale i cani, e vïolenta tosse Agita e strozza soffocando i porci. Langue il destrier già vincitore, e i fonti Sdegna e l’erbe svogliato, e raspa e batte Con piè frequente il suol, chine ha le orecchie, 780 E un interrotto, e ne i vicini a morte Freddo sudor gronda dal corpo, ed aspra Resiste al tatto l’indurita pelle. Questi ne i primi dì precoci segni Di morte si palesano, e se poi 785 Segue il morbo a inasprir, ardenti allora Son gli occhi, e grave, e dal profondo petto Tratto a stento il respir: teso è da i lunghi Singulti il fianco palpitante, un nero Sangue giù cola da le nari, e chiude 790 L’asciutte fauci l’ingrossata lingua. Dapprincipio giovò l’arida gola D’infuso vino ristorare, e parve Questo lo scampo sol, ma poi del male Fu il rimedio peggior; poichè, riprese 795 Quindi le forze, da feroce rabbia Ardevano invasi, e nel morir (ah lungi Da i buoni, a i soli rei serbate, o numi Tanto furor) contro di se volgendo I nudi denti, in sanguinosi brani 800 Lacerando mordevansi le membra.

Ecco ahi! fumante di sudor sul campo, Mentre il vomero trae, cade gemendo L’esangue toro, ed a la spuma misto Vomita il sangue: l’arator dolente 805 Vassene, e lagrimando il bue compagno, Mesto lui pur de la fraterna morte, Dal timone distacca, e a mezzo il solco Confitto lascia e in abbandon l’aratro. Non l’ombra più de gli alti boschi, o l’erba 810 De i molli prati or possono, nè l’onda, Che scorre limpidissima qual ambra Di sasso in sasso a zampillar su i campi, L’egro armento allettar: ansa dimesso Il cavo fianco, istupiditi e immoti 815 Stan gli occhi in fronte, e dal suo peso tratta Chinasi al suol la languida cervice. Ahi! questo dunque de i sudori sparsi, Questo di tante a pro de l’uom fatiche E’ dunque il frutto? E che giovò la terra 820 Con assiduo lavor svolgere, e il collo Sotto il giogo incallir? Eppur fumosi Vini ad essi non nocquero, o mal sane Ricercate vivande: usato cibo Erano l’erbe semplici e le frondi, 825 Sola bevanda le scorrevoli acque Di fonte o fiume, e i placidi lor sonni Mai non ruppe, o turbò cura inquïeta.

Fama è, che in tutti quei contorni allora A i sagrificii di Giunone e i tori 830 Mancarono, e le solite giovenche, E i cocchi a trarne con le offerte al tempio Silvestri buoi si ritrovaro appena. Quindi la terra a lavorar costretti Fur quelle genti senz’aratro, e i solchi 835 Con zappe aprire, ed incastrarvi il seme Co l’unghie, e il collo sopponendo al giogo I carri a stento strascinar su i monti. Non più a la greggia insidïando, il lupo Notturno esplora il chiuso ovil, da cura 840 Più grave oppresso: e le fugaci damme E i päurosi cervi in mezzo a i cani Vanno ora errando, e a le capanne intorno. Nè il rio contagio a lo squammoso armento Del mar perdona; in su l’estremo lido 845 Quasi naufraghi corpi i pesci esangui Rigetta il fiotto, e dentro ai fiumi ignoti Corron le foche a ricovrarsi: invano Nel suo covil la vipera s’appiatta, E l’irte squame attonito drizzando 850 Spira il serpente; velenosa è pure L’aria a gli augelli, e a mezzo vol cadendo Sotto le nubi lasciano la vita.

Nulla giova il mutar pascoli, e spesso Nuoce i rimedi usar: cedono vinti 855 Il figliuol d’Amitaone e Chirone, Mäestri invano de la medic’arte. La pallida Tisifone, da l’ombre Stigie mandata ad infettare il giorno, Incrudelisce, e innanzi a se cacciando, 860 Crudo corteggio, lo spavento e i morbi, Ogni dì più l’avido capo estolle. Al belar de la greggia, al mesto e spesso Muggir de’ buoi tutti d’intorno i colli Suonano, e i fiumi, e le deserte rive. 865 Ampie cataste sovra i campi innalza L’orrida furia, e ne le piene stalle S’ammontano i cadaveri, stillanti Putrida marcia; onde a scavar profonde Fosse appresero alfine, e interi corpi 870 Sotterra a seppellir; chè di niun uso Erane il cuoio, nè purgar col foco Potevansi le viscere, o con l’onda Tergere, nè tosar le immonde lane Dal morbo infette, nè adoprar le tele: 875 E se talun le abbominande vesti Ardìa toccar, da l’ulcerosa pelle Infiammati carbonchi usciano, e un sozzo E fetido sudor, nè lungo tempo Tardava poi che le contatte carni 880 Il foco sacro divorando ardea.

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