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esprima la lingua da mente profonda.
 
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Con Zeus e Nemea, Timasarco, che vinse la lotta
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dirò nel proemio de l’inno;
 
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dei figli d’Eaco alla sede
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turrita, ch’è luce del giusto per gli ospiti tutti.
 
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d’Atene fulgente;
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e in Tebe l’eptàpila, pronte
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le genti Cadmee, d’Anfitrione vicino alla tomba
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fulgente di fiori, lo cinsero, a gloria
 
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all’ospite rocca
 
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pervenne, alla reggia beata d’Alcide.
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le mura di Troia, ed i Meropi,
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e a Cipro. Ivi Teucro, figliuol di Telamone
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gli avea ne l’insidia
 
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Araldo sollecito io venni per dire ai Teandridi
 
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m’astringono, e Olimpia, ove, quando
 
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e l’inno per l’opere egregie
 
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fa l’uom pari in sorte ai Sovrani. Or ei che dimora
 
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sul fiume d’Averno, ben oda il mio canto,
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sul fiume d’[[Ade|Averno]], ben oda il mio canto,
 
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Versione attuale delle 19:16, 14 gen 2024

PER TIMASARCO DA EGINA. VINCITORE NELLE GARE ATLETICHE DEI FANCIULLI A NEMEA

I
Cuore ilare è medico sommo di gesta sudate:
e i canti ch’àn madri le Muse,
molciscono l’anima
degli uomini a cui si fan presso:
né tepida linfa per rendere sciolte le membra
vai quanto l’elogio sposato alla celerà;
e più che le gesta, longeva è parola,
cui grata alle Cariti
esprima la lingua da mente profonda.

II
Con Zeus e Nemea, Timasarco, che vinse la lotta
dirò nel proemio de l’inno;
e grato riesca
dei figli d’Eaco alla sede
turrita, ch’è luce del giusto per gli ospiti tutti.
Se il sole tuttora scaldasse Timocrito
suo padre, la tinnula cetera, docile
seguace al mio canto,
farebbe nell’inno suonar la vittoria

III
di lui, che l’intreccio dei serti mandò da l’agone
Cleonio, e dal fertile suolo
d’Atene fulgente;
e in Tebe l’eptàpila, pronte
le genti Cadmee, d’Anfitrione vicino alla tomba
fulgente di fiori, lo cinsero, a gloria
d’Egina: ché amico giungendo ad amici,
all’ospite rocca
pervenne, alla reggia beata d’Alcide.

IV
D’Alcide, con cui Telamone distrusse una volta
le mura di Troia, ed i Meropi,
e Alcione, l’immane,
l’orrendo flagello di guerra,
non senza ch’ei pria con un masso ben dodici cocchi
e due volte tanti guerrieri prostrasse,
che su vi pugnavano. Di guerre inesperto
bene è chi stupisce
di ciò: ché chi offende sovente anche è offeso.

V
Ma il freno dell’arte mi vieta ch’io dica più a lungo,
e l’ore m’incalzano: e il cuore
mi strugge desio
ch’io dica la luna novella.
Quand’anche t’avvolga del pelago la furia profonda,
rifletti e resisti: ché noi nella luce,
calcando i nemici, moviamo; ma l’invido
si pasce di vani
disegni, che a terra, nel buio, rovinano.

VI
Per me, la virtude qualsiasi che il Fato sovrano
mi diede, ben so che il futuro
rependo a me contro,
a fin l’addurrà, che si compia.
O cetera dolce, e tu sùbito con lidia melode
intessi quest’inno diletto ad Enona
e a Cipro. Ivi Teucro, figliuol di Telamone
fu sire: riposo
offri Salamina sua patria, ad Aiace:

VII
è Achille ne l’isola fulgida del Ponto ospitale:
è Teti sovrana di Ftia:
fu re Neottolemo
de l’ampia contrada d’Epiro,
là dove i pianori ed i pascoli dei buoi, da Dodona
si spiccano, e giungono al valico Ionio:
e ai piedi del Pelio, Peleo stese al suolo
le mura di Jolco,
la diede agli Emoni, che schiava lor fosse,

VIII
pòi ch’ebbe d’Ippolita, sposa d’Acasto, provate
le frodi. Ed Acasto, tramata
gli avea ne l’insidia
la morte, col ferro dedaleo.
Ma lui fece salvo Chirone, che a termine addusse
il fato di Zeus. Poi ch’egli ebbe doma
la furia invincibile del fuoco, le branche
aguzze, le zanne
immani dai fieri selvaggi leoni,

IX
sposa ebbe una figlia di Nereo. E vide l’Olimpo
che in giro distendesi, dove
seduti, i Signori
del cielo e del pelago, a lui
diér doni e potenza, che fossero retaggio ai nepoti.
Ma gire oltre il buio di Gade si vieta:
rivolgi all’Europa lo scafo del legno;
ché tutte io non posso
narrar le leggende dei figli d’esco.

X
Araldo sollecito io venni per dire ai Teandridi
gli agoni che assodan le membra;
ché l’Istmo e Nemea
m’astringono, e Olimpia, ove, quando
affrontali la prova, non riedono senza l’onore
dei serti alla patria, dov’è, Timasarco,
tua gente, sollecita dei carmi epinici.
Desideri forse
che pure per Callide, german di tua madre

XI
Io levi una stele più candida che il marmo di Paro?
Rifolgora tutta la luce
dall’oro che fuse;
e l’inno per l’opere egregie
fa l’uom pari in sorte ai Sovrani. Or ei che dimora
sul fiume d’Averno, ben oda il mio canto,
il prode che cinto dell’apio corinzio,
fu già nell’agone
del Re del tridente dall’ululo lungo.

XII
E a lui con spontanea cura cantava, o fanciullo,
Eufane, tuo prisco antenato.
Sono altri compagni
ad altri d’età. Ciò che ognuno
mirò, nutre speme che meglio ridirlo saprebbe.
E chi per lodare Melesia lottasse,
parole intrecciando, nessuno atterrarlo
potrebbe: benigno
pei buoni: agli ostili ben aspro vicino.