Biblioteca:Omero, Odissea, Libro IX

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"Alcinoo Rege, che ai mortali tutti
Di grandezza e di gloria innanzi vai,
Bello è l'udir", gli replicava Ulisse,
"Cantor, come DemOdoco, di cui
Pari a quella d'un dio suona la voce: 5
Né spettacol più grato havvi, che quando
Tutta una gente si dissolve in gioia,
Quando alla mensa, che il cantor rallegra,
Molti siedono in ordine, e le lanci
Colme di cibo son, di vino l'urne, 10
Donde coppier nell'auree tazze il versi,
E ai convitati assisi il porga in giro.
Ma tu la storia de' miei guai domandi,
Perch'io rinnovi ed inacerbi il duolo.
Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo 15
Racconto serberò delle sventure,
Che gravi e molte m'invïAro i numi?
Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno,
Mi si concede riposata e ferma,
Dell'ospitalità ci unisca il nodo, 20
Benché quinci lontan sorga il mio tetto.
Ulisse, il figlio di Laerte, io sono,
Per tutti accorgimenti al mondo in pregio,
E già noto per fama in sino agli astri.
Abito la serena Itaca, dove 25
Lo scotifronde Nérito si leva
Superbo in vista, ed a cui giaccion molte
Non lontane tra loro isole intorno,
Dulichio, Samo, e la di selve bruna
Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste, 30
Itaca al polo si rivolge, e meno
Dal continente fugge: aspra di scogli,
Ma di gagliarda gioventù nutrice.
Deh qual giammai l'uom può della natìa
Sua contrada veder cosa più dolce? 35
Calipso, inclita diva, in cave grotte
Mi ritenea, mi ritenea con arte
Nelle sue case la dedalea Circe,
Desïando d'avermi entrambe a sposo.
Ma né Calipso a me, né Circe il core 40
Piegava mai; ché di dolcezza tutto
La patria avanza, e nulla giova un ricco
Splendido albergo a chi, da' suoi disgiunto,
Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi
Quel che da Troia prescriveami Zeus 45
Lacrimabil ritorno; ed io tel narro.

Ad Ismaro, de' Ciconi alla sede,
Me, che lasciava Troia, il vento spinse.
Saccheggiai la città, strage menai
Degli abitanti; e sì le molte robe 50
Dividemmo e le donne, che alla preda
Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava
Partir subito e in fretta; e i forsennati,
Dispregiando il mio dir, pecore pingui,
Pingui a scannar tortocornuti tori, 55
E larghi nappi ad asciugar sul lido.
S'allontanaro in questo mezzo, e voce
Diero i Ciconi ai Ciconi vicini,
Che più addentro abitavano. Costoro,
Che in numero vincean gli altri, ed in forza, 60
E battagliare a piè, come dal carro,
Sapean del pari, mattutini, e tanti,
Quante son fronde a primavera e fiori,
Vennero; e allor di cielo a noi meschini
Riversò addosso un gran sinistro Zeus. 65
Stabile accanto alle veloci navi
Pugna si commettea: d'ambo le parti
Volavan le pungenti aste omicide.
Finché il mattin durava, e il sacro sole
Acquistava del ciel, benché più scarsi, 70
Sostenevam della battaglia il nembo.
Ma come il sol, calandosi all'Occaso,
L'ora menò, che dal pesante giogo
Si disciolgono i buoi, l'achiva forza
Fu dall'aste de' Ciconi respinta. 75
Sei de' compagni agli schinieri egregi
Perdé ogni nave: io mi salvai col resto.

Lieti nel cor della schivata morte,
E de' compagni nella pugna uccisi
Dolenti in un, ci allargavam dal lido; 80
Ma le ondìvaghe navi il lor cammino
Non proseguian, che tre fïate in prima,
Non si fosse da noi chiamato a nome
Ciascun di quei che giacean freddi addietro.
L'adunator de' nembi olimpio Zeus 85
Contro ci svegliò intanto una feroce
Tempesta boreal, che d'atre nubi
La terra a un tempo ricoverse e il mare,
E la notte di cielo a piombo scese.
Le vele ai legni, che moveansi obbliqui, 90
Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo.
Noi del timore ammainammo, e ratto
I navigli affrettammo in vêr la spiaggia,
Ove due giorni interi, e tante notti,
Posavam lassi, e addolorati e muti. 95

Ma come l'Alba dai capelli d'oro
Il dì terzo recò, gli alberi alzati,
E dispiegate le candide vele,
Entro i navigli sedevam, la cura
Al timonier lasciandone ed al vento. 100
Tempo era quello da toccar le amate
Sponde natìe: se non che Borea e un'aspra
Corrente me, che la Malèa girava,
Respinse indietro ed a Citera volse.
Per nove infausti dì sul mar pescoso 105
I venti rei mi trasportâro. Al fine
Nel decimo sbarcammo in su le rive
De' Lotofàgi, un popolo, a cui cibo
È d'una pianta il florido germoglio.
Entrammo nella terra, acqua attignemmo, 110
E pasteggiammo appo le navi. Estinti
Della fame i desiri e della sete,
Io due scelgo de' nostri, a cui per terzo
Giungo un araldo, e a investigar li mando,
Quai mortali il paese alberghi e nutra. 115
Partiro e s'affrontaro a quella gente,
Che, lunge dal voler la vita loro,
Il dolce loto a savorar lor porse.
Chïunque l'esca dilettosa e nuova
Gustato avea, con le novelle indietro 120
Non bramava tornar: colà bramava
Starsi, e, mangiando del soave loto,
La contrada natìa sbandir dal petto.
È ver ch'io lagrimosi al mar per forza
Li ricondussi, entro i cavati legni 125
Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi:
E agli altri risalir con gran prestezza
Le negre navi comandai, non forse
Ponesse alcun nel dolce loto il dente,
E la patria cadessegli dal core. 130
Quei le navi saliano, e sovra i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co' pareggiati remi il mar canuto.

Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri,
Che vivon senza leggi, a vista fummo. 135
Questi, lasciando ai numi ogni pensiero,
Né ramo o seme por, né soglion gleba
Col vomero spezzar; ma il tutto viene
Non seminato, non piantato o arato:
L'orzo, il frumento e la gioconda vite, 140
Che si carca di grosse uva, e cui Zeus
Con pioggia tempestiva educa e cresce.
Leggi non han, non radunanze, in cui
Si consulti tra lor: de' monti eccelsi
Dimoran per le cime, o in antri cavi; 145
Su la moglie ciascun regna e su i figli,
Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda.
Ai Ciclopi di contra, e né vicino
Troppo, né lunge, un'isoletta siede
Di foreste ombreggiata, ed abitata 150
Da un'infinita nazïon di capre
Silvestri, onde la pace alcun non turba;
Che il cacciator, che per burroni e boschi
Si consuma la vita, ivi non entra,
Non aratore o mandrïan v'alberga. 155
Manca d'umani totalmente, e solo
Le belanti caprette, inculta, pasce.
Però che navi dalle rosse guance
Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno
Cerchi fabbro di nave a saldi banchi, 160
Su cui passare i golfi, e le straniere
Città trovar, qual delle genti è usanza,
Che spesso van l'una dall'altra ai lidi,
E all'isola deserta addur coloni.
Malvagia non è certo, e in sua stagione 165
Tutto darebbe. Molli e irrigui prati
Spiegansi in riva del canuto mare.
Si vestirìan di grappi ognor le viti,
E così un pingue suolo il vomer curvo
Riceverìa, che altissima troncarvi 170
Potrìasi al tempo la bramata messe.
Che del porto dirò? Non v'ha di fune
Ne d'àncora mestieri; e chi già entrovvi,
Tanto vi può indugiar, che de' nocchieri
Le voglie si raccendano, e secondi 175
Spirino i venti. Ma del porto in cima
S'apre una grotta, sotto cui zampilla
L'argentina onda d'una fonte, e a cui
Fan verdissimi pioppi ombra e corona.
Là smontavamo, e per l'oscura notte, 180
Noi, spenta ogni veduta, un dio scorgea:
Ché una densa caligine alle navi
Stava d'intorno, né splendea dal cielo
La luna, che d'un nembo era coverta.
Quindi nessun l'isola vide, e i vasti 185
Flutti al lido volventisi, che prima
Approdati non fossimo. Approdati,
Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo
Sul lido, e l'Alba dalle rosee dita,
Nel sonno disciogliendoci, aspettammo. 190

Sorta la figlia del mattino appena,
L'isoletta, che in noi gran maraviglia
Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe,
Prole cortese dell'egïoco Zeus,
Per fornir di convito i miei compagni, 195
Quelle capre levaro. E noi repente,
Presi i curvi archi e le asticciuole acute,
E tre schiere di noi fatte, in tal guisa
Il monte fulminammo e il bosco tutto,
Ch'io non so, se dai numi in sì brev'ora 200
Fu concessa giammai caccia sì ricca.
Dodici navi mi seguìano, e nove
Capre ottenne ciascuna: io dieci n'ebbi.
Tutto quel giorno sedevamo a mensa
Tra carni immense e prezïoso vino: 205
Poiché restava su le navi ancora
Del licore, onde molte anfore e molte
Rïempiuto avevam, quando la sacra
Dispogliammo de' Ciconi cittade.
E de' Ciclopi nel vicin paese 210
Levate intanto tenevam le ciglia,
E salir vedevamo il fumo, e miste
Col belo dell'agnelle e delle capre
Raccoglievam le voci. Il sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra 215
Sul marin lido a riposar gettammo.
Ma come del mattin la figlia sorse,
Tutti chiamati a parlamento: "Amici",
Dissi, vi piaccia rimaner, mentr'io
Della gente a spïar vo' col mio legno, 220
Se ingiusta, soperchievole, selvaggia,
O di core ospital siasi, ed a cui
Timor de' numi si racchiuda in petto".
Detto, io montai la nave, e ai remiganti
Montarla ingiunsi, e liberar la fune. 225
E quei ratto ubbidiro, e già su i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e gìan battendo
Co' pareggiati remi il mar canuto.

Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte,
Spelonca eccelsa nell'estremo fianco 230
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi.
Entro giaceavi innumerabil greggia,
Pecore e capre, e di recise pietre
Composto, e di gran pini e querce ombrose
Alto recinto vi correa d'intorno. 235
Uom gigantesco abita qui, che lunge
Pasturava le pecore solingo.
In disparte costui vivea da tutti,
E cose inique nella mente cruda
Covava: orrendo mostro, né sembiante 240
Punto alla stirpe che di pan si nutre,
Ma più presto al cucuzzolo selvoso
D'una montagna smisurata, dove
Non gli s'alzi da presso altro cacume.
Lascio i compagni della nave a guardia, 245
E con dodici sol, che i più robusti
Mi pareano e più arditi, in via mi pongo,
Meco in otre caprin recando un negro
Licor nettàreo, che ci diè Marone
D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo, 250
Cui d'Ismaro le torri erano in cura.
Soggiornava del dio nel verde bosco,
E noi, di santa riverenza tocchi,
Con la moglie il salvammo e con la prole.
Quindi ei mi porse incliti doni: sette 255
Talenti d'or ben lavorato, un'urna
D'argento tutta, e dodici d'un vino
Soave, incorruttibile, celeste,
Anfore colme; un vin ch'egli, la casta
Moglie e la fida dispensiera solo, 260
Non donzelli sapeanlo, e non ancelle.
Quandunque ne bevean, chi empiea la tazza,
Venti metri infondea d'acqua di fonte,
E tal dall'urna scoverchiata odore
Spirava, e sì divin, che somma noia 265
Stato sarìa non confortarne il petto.
Io dell'alma bevanda un otre adunque
Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo:
Ché ben diceami il cor, quale di strana
Forza dotato le gran membra, e insieme 270
Debil conoscitor di leggi e dritti,
Salvatic'uom mi si farebbe incontra.

Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava. 275
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena, 280
Tutti, come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte 285
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse: 290
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che rïuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
Racceso il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo, e assaggiammo del rappreso latte: 295
Indi l'attendevam nell'antro assisi.

Venne, pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo non lieve di risecca selva
Che la cena cocessegli, portando.
Davanti all'antro gittò il carco, e tale 300
Levòssene un romor, che sbigottiti
Nel più interno di quel ci ritraemmo.
Ei dentro mise le feconde madri,
E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella corte lasciò. Poscia una vasta 305
Sollevò in alto ponderosa pietra,
Che ventidue da quattro ruote e forti
Carri di loco non avrìano smossa,
E l'ingresso acciecò della spelonca.
Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti 310
Capre mugnea, tutto serbando il rito,
E a questa i parti mettea sotto, e a quella.
Mezzo il candido latte insieme strinse,
E su i canestri d'intrecciato vinco
Collocollo ammontato; e l'altro mezzo, 315
Che dovea della cena esser bevanda,
Il ricevero i pastorecci vasi.

Di queste sciolto cotidiane cure,
Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:
"Forestieri, chi siete? E da quai lidi 320
Prendeste a frequentar l'umide strade?
Siete voi trafficanti? O errando andate,
Come corsari che la vita in forse,
Per danno altrui recar, metton su i flutti?"
Della voce al rimbombo, ed all'orrenda 325
Faccia del mostro, ci s'infranse il core.
Pure io così gli rispondea: Siam Greci
Che di Troia partiti e trabalzati
Su pel ceruleo mar da molti venti
Cercando il suol natìo, per altre vie, 330
E con vïaggi non pensati, a queste
(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo
Quell'Atrìde Agamennone che il mondo
Empièo della sua fama, ei che distrusse 335
Città sì grande, e tante genti ancise.
Ed or, prostesi alle ginocchia tue,
Averci ti preghiam d'ospiti in grado,
E d'un tuo dono rimandarci lieti.
Ah! temi, o potentissimo, gli dèi: 340
Che tuoi supplici siam, pensa, e che Zeus
Il supplicante vendica, e l'estrano,
Zeus ospital, che l'accompagna e il rende
Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.

Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce 345
Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,
Che vuoi che i numi io riverisca e tema.
L'Egidarmato di Crono figlio
Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:
Ché di loro siam noi molto più forti. 350
Né perché Zeus inimicarmi io debba,
A te concederò perdono, e a questi
Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.
Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo
Di questa terra, o a più propinquo lido?" 355
Così egli tastommi; ed io, che molto
D'esperïenza ricettai nel petto,
Ravvìstomi del tratto, incontanente
Arte in tal modo gli rendei per arte:
"Poseidone là, 've termina e s'avanza 360
La vostra terra con gran punta in mare,
Spinse la nave mia contra uno scoglio,
E le spezzate tavole per l'onda
Sen portò il vento. Dall'estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena". 365
Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
La man ponea sovra i compagni, e due
Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,
Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano 370
Dilacerolli, e s'imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che in monte alberga,
Carni ed interïora, ossa e midolle,
Tutto vorò, consumò tutto. E noi
A Zeus ambo le man tra il pianto alzammo, 375
Spettacol miserabile scorgendo
Con gli occhi nostri, e disperando scampo.

Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,
Pasteggiando dell'uomo, e puro latte
Tracannandovi sopra, in fra le agnelle 380
Tutto quant'era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Fàrmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La coràta dal fegato si cinge, 385
Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa
Morte noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non era da noi tôr dall'immenso
Vano dell'antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v'impose. 390
Però, gemendo, attendevam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto,
E i parti a questa mettea sotto e a quella. 395
Né appena fu delle sue cure uscito,
Che altri due mi ghermì de' cari amici,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso, 400
Che dell'antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su pel monte si mandava il pingue
Gregge davanti, alto per via fischiando.

Ed io tutti a raccolta i miei pensieri 405
Chiamai, per iscoprir come di lui
Vendicarmi io potessi, e un'immortale
Gloria comprarmi col favor di Pallade.
Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse 410
Di terra, onde fermar con quello i passi,
Entro la stalla a inaridir giacea.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l'onde brune
Con venti remi a valicare usata: 415
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io l'affilai,
L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo, 420
Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adusto palo conficcar nell'occhio,
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno. 425
Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Che la sua greggia di lucenti lane
Tutta introdusse nel capace speco: 430
O di noi sospettasse, o prescrivesse
Così il Saturnio. Novamente imposto
Quel, che rimosso avea, disconcio masso,
Pecore e capre alla tremola voce
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto, 435
E a questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo
Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi: 440
"Poiché cibasti umana carne, vino
Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Se mai, compunto di nuova pietade, 445
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl'infiniti uomini in terra
Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".

La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo 450
Del soave licor prese diletto,
E un'altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospital dono che ti metta in festa. 455
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Zeus le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nettare celeste".

Un'altra volta io gli stendea la coppa. 460
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m'accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome 465
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io 470
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale".

Disse, diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell'antro con la gran cervice
Ripiegata su l'omero: e dal sonno, 475
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell'ulivo il palo 480
Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M'abbandonasse nel miglior dell'opra.
Come, verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi 485
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
Con intorno i compagni: un dio per fermo
D'insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo
Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra, 490
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d'ambo i lati le corregge, e attorno 495
L'instancabile trapano si volve:
Sì nell'ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio 500
Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell'onda fredda
Attuffò un'ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale, 505
L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.

Urlo il Ciclope sì tremendo mise,
E tanto l'antro rimbombò, che noi
Qua e là ci spargemmo impauriti.
Ei fuor cavossi dall'occhiaia il trave, 510
E da sé lo scagliò di sangue lordo,
Furïando per doglia: indi i Ciclopi,
Che non lontani le ventose cime
Abitavan de' monti in cave grotte,
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi 515
Quinci e quindi accorrean, la voce udita
E soffermando alla spelonca il passo,
Della cagione il richiedean del duolo:
"Per quale offesa, o Polifemo, tanto
Gridàstu mai? Perché così ci turbi 520
La balsamica notte e i dolci sonni?
Fùrati alcun la greggià? o uccider forse
Con inganno ti vuole, o a forza aperta?"
E Polifemo dal profondo speco:
"Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno, 525
Non già colla virtude". "Or se nessuno
Ti nuoce", rispondeano, "e solo alberghi,
Da Zeus è il morbo, e non v'ha scampo. Al padre
Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi".
Dopo ciò, ritornâr su i lor vestigi: 530
Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome
Tutta si fosse la mia frode ordita.

Polifemo da duoli aspri crucciato,
Sospirando altamente, e brancolando
Con le mani il pietron di loco tolse. 535
Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso
Stavasi con le braccia aperte e stese,
Se alcun di noi, che tra le agnelle uscisse,
Giungesse ad aggrappar: tanta ei credeo
Semplicitade in me. Ma io gli amici 540
E me studiava riscattar, correndo
Per molte strade con la mente astuta:
Ché la vita ne andava, e già pendea
Su le teste il disastro. Al fine in questa,
Dopo molto girar, fraude io m'arresto. 545
Montoni di gran mole e pingui e belli,
Di folta carchi porporina lana,
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta
Prendeane, e in un gli unìa tacitamente
Co' vinchi attorti, sovra cui solea 550
Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo,
Portava sotto il ventre un de' compagni,
Cui fean riparo i due ch'ivan da lato,
E così un uomo conducean tre bruti.
Indi afferrai pel tergo un arïete 555
Maggior di tutti, e della greggia il fiore;
Mi rivoltai sotto il lanoso ventre,
E, le mani avolgendo entro ai gran velli,
Con fermo cor mi v'attenea sospeso.
Così, gemendo, aspettavam l'aurora. 560

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Fuor della grotta i maschi alla pastura
Gittavansi; e le femmine non munte,
Che gravi molto si sentìan le poppe,
Rïempìan di belati i lor serragli. 565
Il padron, cui ferìan continue doglie,
D'ogni montone, che diritto stava,
Palpava il tergo, e non s'avvide il folle
Che dalle pance del velluto gregge
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscìa 570
De' suoi velli bellissimi gravato
L'arïete, e di me, cui molte cose
S'aggiravan per l'alma. Polifemo
Tai detti, brancicandolo, gli volse:
"Arïete dappoco, e perché fuori 575
Così da sezzo per la grotta m'esci?
Già non solevi dell'agnelle addietro
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli
Fiori del prato a lacerar correvi
Con lunghi passi; degli argentei fiumi 580
Primo giungevi alle correnti; primo
Ritornavi da sera al tuo presepe:
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse
L'occhio del tuo signor? L'occhio che un tristo
Mortal mi svelse co' suoi rei compagni, 585
Poiché doma col vin m'ebbe la mente,
Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora.
Oh! se a parte venir de' miei pensieri
Potessi, e, voci articolando, dirmi,
Dove dalla mia forza ei si ricovra, 590
Ti giuro che il cervel, dalla percossa
Testa schizzato, scorrerìa per l'antro,
Ed io qualche riposo avrei da' mali
Che Nessuno recommi, un uom da nulla".
Disse: e da sé lo spingea fuori al pasco. 595

Tosto che dietro a noi l'infame speco
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto,
Tardo a sciormi io non fui dall'arïete,
E poi gli altri a slegar, che, ragunate
Molte in gran fretta piedilunghe agnelle, 600
Cacciavansele avanti in sino al mare.
Desïati apparimmo, e come usciti
Dalle fauci di morte, a quei che in guardia
Rimaser della nave, e che i compagni,
Che non vedeano, a lagrimar si diero. 605
Ma io non consentìalo, e con le ciglia
Cenno lor fea di ritenere il pianto,
E comandava lor che, messe in nave
Le molte in pria vellosplendenti agnelle,
Si fendessero i flutti. E già il naviglio 610
Salìan, sedean su i banchi, e percotendo
Gìan co' remi concordi il bianco mare.
Ma come fummo un gridar d'uom lontani
Così il Ciclope io motteggiai: "Ciclope,
Color che nel tuo cavo antro, le grandi 615
Forze abusando, divorasti, amici
Non eran dunque d'un mortal da nulla,
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio!
Che la carne cenar nelle tue case
Non temevi degli ospiti. Nemesi 620
Però Zeus ne prese e gli altri numi".

A queste voci Polifemo in rabbia
Montò più alta, e con istrana possa
Scagliò d'un monte la divelta cima,
Che davanti alla prua càddemi: al tonfo 625
L'acqua levossi, ed innondò la nave,
Che alla terra crudel, dai rifluenti
Flutti portata, quasi a romper venne.
Ma io, dato di piglio a un lungo palo,
Ne la staccai, pontando; ed i compagni 630
D'incurvarsi sul remo, e in salvo addursi,
Più de' cenni pregai che della voce:
E quelli tutte ad inarcar le terga.
Scorso di mar due volte tanto, i detti
A Polifemo io rivolgea di nuovo, 635
Benché gli amici con parole blande
D'ambo i lati tenessermi: "Infelice!
Perché la fera irritar vuoi più ancora?
Così poc'anzi a saettar si mise,
Che tre dita mancò, che risospinto 640
Non percotesse al continente il legno.
Fa che gridare o favellar ci senta,
E volerà per l'aere un'altra rupe,
Che le nostre cervella, e in un la nave
Sfracellerà: tanto colui dardeggia". 645
L'alto mio cor non si piegava. Quindi:
"Ciclope", io dissi con lo sdegno in petto,
"Se della notte, in che or tu giaci, alcuno
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte, 650
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse".

Egli allora, ululando: "Ohimè!" rispose,
Da' prischi vaticinî eccomi côlto.
Indovino era qui, prode uomo e illustre,
Telemo figliuol d'Eurimo, che avea 655
Dell'arte il pregio, ed ai Ciclopi in mezzo
Profetando invecchiava. Ei queste cose
Mi presagì: mi presagì che il caro
Lume dell'occhio spegnerìami Ulisse.
Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello 660
E di forze invincibili dotato,
Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece
La pupilla smorzarmi un piccoletto
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse.
Ma qua, su via vientene, Ulisse, ch'io 665
Ti porga l'ospital dono, e Poseidone
Di fortunare il tuo ritorno prieghi.
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo
Voglial, mi sanerà; non altri, io credo,
Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i numi". 670

"Oh! così potess'io", ratto ripresi,
"Te spogliar della vita, e negli oscuri
Precipitar regni di Pluto, come
Né da Poseidone ti verrà salute".

Ed ei, le palme alla stellata volta 675
Levando, il supplicava: "O chiomazzurro,
Che la terra circondi, odi un mio voto.
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami,
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse,
D'Itaca abitator, figlio a Laerte 680
Struggitor di cittadi, unqua non rieda.
E dove il natìo suolo, e le paterne
Case il destin non gli negasse, almeno
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui,
Perduti in pria tutti i compagni, e nuove 685
Nell'avìta magion trovi sciagure".

Fatte le preci e da Poseidone accolte,
Sollevò un masso di più vasta mole,
E, rotandol nell'aria, e una più grande
Forza immensa imprimendovi, lanciollo. 690
Cadde dopo la poppa, e del timone
La punta rasentò: levossi al tonfo
L'onda, e il legno coprì, che all'isoletta,
Spinto dal mar, subitamente giunse.
Quivi eran l'altre navi in su l'arena, 695
E i compagni, che assisi ad esse intorno
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto.
Noi tosto in secco la veloce nave
Tirammo, e fuor n'uscimmo, e, del Ciclope
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa, 700
Che parte ugual n'ebbe ciascuno. È vero
Che voller che a me sol, partite l'agne,
Il superbo arïete anco toccasse.
Io di mia mano al Saturnìde, al cinto
D'oscure nubi Correttor del Mondo, 705
L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce.
Ma non curava i sacrifizi Zeus,
Che anzi tra sé volgea, com'io le navi
Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi.
L'intero dì sino al calar del Sole 710
Sedevam banchettando: il Sole ascoso,
Ed apparse le tenebre, le membra
Sul marin lido a riposar gettammo.

Ma come del mattin la figlia, l'Alba
Ditirosata in Orïente sorse, 715
I compagni esortai, comandai loro
Di rimbarcarsi, e liberar le funi.
E quei si rimbarcavano, e su i banchi
Sedean l'un dopo l'altro, e percotendo
Gìan co' remi concordi il bianco mare. 720
Così noi lieti per lo scampo nostro
E per l'altrui sventura in un dolenti,
Del mar di nuovo solcavam le spume.

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