Differenze tra le versioni di "Biblioteca:Pindaro, Istmiche, VIII"
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ad [[Ares]] per forza di mano sarà, per il piede a la folgore. | ad [[Ares]] per forza di mano sarà, per il piede a la folgore. | ||
Se udir mi volete, sia sposa, sia premio divino | Se udir mi volete, sia sposa, sia premio divino | ||
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ma dicon che i Numi concesser le nozze | ma dicon che i Numi concesser le nozze | ||
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Versione attuale delle 18:44, 14 gen 2024
PER OLEANDRO D’EGINA. VINCITORE NEL PANCRAZIO SULL’ ISTMO
I
Per Oleandro e per gli anni suoi floridi,
o giovani, un canto leviamo,
egregio compenso ai travagli, venendo al vestibolo fulgido di Telesarco:
cli’ei vinse su l’Istmo; ed in Neme
riscosse nei membri la forza che vinse l’agone.
Onde or, sebben cruccio
mi siede nel cuore, m’invitan che invochi
la Musa dall’aureo canto. Dai gravi travagli alfin liberi,
non devesi orbati restar di ghirlande,
né schiavi chinarsi alla doglia. Fin posto al disutile pianto,
passate le pene, si goda la pubblica festa,
poiché qualche Nume
a noi dalla fronte distolse la pietra di Tantalo,
II
l’insoffribil supplizio de l’Ellade.
Già fine alla grave mia cura
poneva il terrore che fugge. Val meglio, in qualsiasi evento,
badare al presente:
ché il tempo ingannevole incombe
sugli uomini, e il tramite volge di vita. Per tali
sciagure, può il farmaco
agli uomini dar Libertà. La speranza
conviene al mortale. A chi crebbe in Tebe settemplice, addicesi
che il fior delle Cariti porga ad Egina.
Ché Tebe ed Egina, le gèmine, le più giovinette figliuole
fur d’Asopo; e piacquero a Giove possente, che rese
la prima signora
d’equestre città su la bella sorgente di Dirce;
III
e ne l’isola Enòpia te addusse,
Egina, a giacere; ove al padre
che tuona profondo, il divino Eaco, il più grande fra gli
uomini,
tu desti a la luce.
Ed ei, fin dei Numi le liti
partiva; e i suoi figli divini, e i figli dei figli
guerrieri fur primi
a reggere, prodi, la furia e il frastuono
del bronzo guerriero; e fùr saggi, prudenti ne l’animo furono.
Dei Numi il consesso ben prova ne diede,
il di che per Teti contesero Zeus e il fulgente Poseidone,
ché amore spingevali, e ognuno voleva la bella,
che fosse sua sposa.
Ma i Superi saggi contesero ad essi le nozze.
IV
come udiron l’oracolo. Temi,
accorta al consiglio, a lor disse
che un pargolo avrebbe la Diva del pelago dato alla luce
più forte del padre;
che un dardo più fiero del folgore
avrebbe scagliato, e invincibile più del tridente,
se a Zeus o ai fratelli
di Zeus ella univasi d’amore. «Su via,
cessate! Essa il talamo ascenda d’ un uomo mortale; ed in guerra
cader veda Achille, suo figlio, che simile
ad Ares per forza di mano sarà, per il piede a la folgore.
Se udir mi volete, sia sposa, sia premio divino
a Peleo, che, dicono,
è l’uomo più pio che dimori nei campi di losco.
V
Vadan sùbito dunque i messaggi
all’antro immortai di Chirone;
né più sfogli il fior di contesa fra noi la figliuola di Nereo;
ma nel plenilunio,
calando già vespro, disciolga
l’amabile fren delle vergini sue membra all’eroe ».
Cosi favellò
la Diva ai Cronidi. Chinarono quelli
le ciglia immortali, assentirono. Né il frutto marci di quei detti;
ma dicon che i Numi concesser le nozze
di Teti; e il labbro dei vati cantò poi d’Achille la giovine
prodezza agl’ignari: com’ei la pianura di Misia
ferace di vini
col negro stillante di Telefo sangue bagnò,
VI
e agli Atridi gittò del ritorno
il ponte, ed Elena redense,
fiaccando con l’asta le forze che lui respingean da la strage
di guerra, quand’egli
nel piano istruiva la zuffa,
e Memnone, ed Ettore saldo, e ogni altro più valido.
Ad essi la strada
mostrò di Persefone Achille, l’Eacide
pilastro, d’onore coprendo Egina e il suo ceppo. Né morto
lui tacquero i canti; ma presso al suo rogo,
ma presso al sepolcro, le vergini cantar d’Elicona, e levarono
il lugubre canto di gloria: ché vollero i Superi
anch’essi il gagliardo
mortale, anche spento, ai cantici dar delle Muse.
VII
E ancor vige il costume: onde già
già lanciano il cocchio le Muse,
a dire del pugile Nicocle la gloria. Cantatelo I Presso
la valle de l’Istmo
fu cinto da l’apio dorico;
e vinse i finitimi prodi, pur egli premendoli
col braccio invincibile.
Né macchia la fama che nacque dal suo
fratello germano. Su via, dei giovani alcuno a Oleandro
intrecci la florida corona di mirto:
perché con evento felice l’accolse l’agone d’Alcatoo,
e già tra i fanciulli, Epidauro. È facile ai buoni
per lui tesser lodi;
ché torpida inerzia non strugge la sua gioventù.