Differenze tra le versioni di "Lo Scudo di Eracle"

 
(13 versioni intermedie di uno stesso utente non sono mostrate)
Riga 1: Riga 1:
==Trama==
+
{{SchedaBiblioteca
L'opera comincia con la nascita dell'eroe da Zeus e Alcmena. Zeus, per ingannare Alcmena, si era presentato sotto le sembianze di Anfitrione, suo marito. Eracle aveva un gemello, il vero figlio di Anfitrione. Iolao, figlio di questo, gli faceva da scudiero. Eracle e Iolao incontrarono Cicno col padre Ares in un bosco dedicato ad Apollo. Si preparano a combattere. Qui Esiodo descrive in maniera estremamente particolareggiata le armi di Eracle. Atena interviene dicendo ad Eracle che gli concede di uccidere Cicno; Eracle si avvicina a Cicno e gli dice di lasciarlo passare perchè deve andare dal re Ceice e gli ricorda che aveva già ferito gravemente Ares alla coscia e che se non lo lascia passare morirà.
+
|anagrafica=LO SCUDO DI ERACLE
 +
|immagine=[[Immagine:Scudoeracle.jpeg|200px]]
 +
|titolo=Ἀσπὶς Ἡρακλέους
 +
|autore=Anonimo
 +
|tipo=Fonti Antiche
 +
|datazione=-
 +
|sezione=Mitologia Greca
 +
|genere=Opere Epiche
 +
|lingua=Greco antico
 +
|biblioteca=Si
 +
|traduzione=italiano
 +
}}
 +
 
 +
Lo scudo di Eracle (Ἀσπὶς Ἡρακλέους, Aspis Hērakleous) è un poemetto greco arcaico di 480 versi esametri, dapprima ritenuto di Esiodo ma già da Aristofane di Bisanzio non attribuito a lui. Nel poemetto si imita la descrizione omerica dello scudo di [[Achille]].
 +
 
 +
==TRAMA==
 +
L'opera comincia con la nascita dell'eroe da [[Zeus]] e Alcmena. Zeus, per ingannare Alcmena, si era presentato sotto le sembianze di Anfitrione, suo marito. Eracle aveva un gemello, il vero figlio di Anfitrione. Iolao, figlio di questo, gli faceva da scudiero. Eracle e Iolao incontrarono Cicno col padre Ares in un bosco dedicato ad Apollo. Si preparano a combattere. Qui Esiodo descrive in maniera estremamente particolareggiata le armi di Eracle. Atena interviene dicendo ad Eracle che gli concede di uccidere Cicno; Eracle si avvicina a Cicno e gli dice di lasciarlo passare perchè deve andare dal re Ceice e gli ricorda che aveva già ferito gravemente Ares alla coscia e che se non lo lascia passare morirà.
 
<br>Eracle prima combatte contro Cicno, che gli scaglia contro una lancia che colpisce lo scudo di Eracle ma non lo scalfisce; dopo Eracle scaglia a sua volta la lancia e colpisce mortalmente Cicno al collo.
 
<br>Eracle prima combatte contro Cicno, che gli scaglia contro una lancia che colpisce lo scudo di Eracle ma non lo scalfisce; dopo Eracle scaglia a sua volta la lancia e colpisce mortalmente Cicno al collo.
 
<br>Atena si avvicina ad Ares e gli intima di andarsene.Ares non la ascolta e getta la sua lancia contro lo scudo di Eracle ma Atena dal suo cocchio devia la lancia e lo colpisce ad un fianco. Poi Eracle con la lancia lo ferisce a sua volta. Dopo averli spogliati delle armi Eracle e Iolao vanno dal re Ceice che provveda a seppellirlo. Ma il fiume Anauro straripando porta via la tomba: così aveva stabilito Apollo perchè Cicno ed Ares spogliavano coloro che avrebbero offerto a Pito ricche ecatombi.
 
<br>Atena si avvicina ad Ares e gli intima di andarsene.Ares non la ascolta e getta la sua lancia contro lo scudo di Eracle ma Atena dal suo cocchio devia la lancia e lo colpisce ad un fianco. Poi Eracle con la lancia lo ferisce a sua volta. Dopo averli spogliati delle armi Eracle e Iolao vanno dal re Ceice che provveda a seppellirlo. Ma il fiume Anauro straripando porta via la tomba: così aveva stabilito Apollo perchè Cicno ed Ares spogliavano coloro che avrebbero offerto a Pito ricche ecatombi.
  
==Il Testo==
+
==IL TESTO==
<poem>
+
{{vedi anche|Biblioteca:Lo Scudo di Eracle}}
O come, abbandonate le case e la terra paterna,
 
seguendo Anfitrïóne possente guerriero, la figlia
 
d'Elettrïóne venne, pastore di popoli, a Tebe.
 
Essa brillava su tutta la molle feminea stirpe,
 
di forma, di statura: fra quante mortali ai Celesti
 
diedero figlie, nessuna con lei contendeva di senno:
 
a lei dal capo giú, dalla chioma cerulëa bruna,
 
spirava un'aura, come da Cípride, l'aurëa Diva.
 
E tanto ella in cuor suo venerava lo sposo diletto,
 
quanto nessuna mai l'onorò delle tenere donne,
 
sebbene ucciso il padre le aveva, ché in pugna lo vinse,
 
ch'era adirato pei bovi. Fuggiasco dal suolo paterno,
 
a Tebe venne, e volse la prece ai Cadmèi valorosi.
 
E con la casta sposa quivi egli abitava, ma privo
 
del genïale amore: ché ascendere il letto d'Alcmèna
 
dai bei malleoli, gli era conteso, se pria non avesse
 
tratta vendetta dello sterminio dei prodi fratelli
 
della sua sposa, ed arse, col fuoco che tutto distrugge,
 
dei Telebòi, dei Tasi, prodissimi eroi, le borgate.
 
Tale il destino suo: ne furon gli Dei testimoni.
 
Ed ei, l'ira dei Numi temendo, a compir s'affrettava,
 
quanto poteva piú, la gran gesta prescritta da Giove.
 
Ed i Beoti con lui, bramosi di pugne e di zuffe,
 
usi a sferzare cavalli, terribili sotto i palvesi,
 
e i Locri, usi a combatter da presso, ed i prodi Focesi,
 
seguiano: era signore di questi il figliuolo d'Alcèo,
 
fiero dei popoli suoi. Ma degli uomini il padre e dei Numi
 
altro consiglio volgeva: volea generar contro il male,
 
pei Numi e pei mortali che cibano pane, uno schermo.
 
E dall'Olimpo balzò, macchinando nel cuore un inganno,
 
di notte, ché bramava l'amor della donna elegante.
 
A Tifaóne presto pervenne, ed ancora movendo,
 
giunse alla vetta piú alta del Ficio il saggissimo Giove.
 
E quivi stette, e volse la mente a un'impresa divina:
 
ché, nella stessa notte, d'Alcmena dall'agil caviglia
 
il letto ascese Giove, l'amò, sazïò la sua brama.
 
Ed anche Anfitrïóne, l'eroe condottiero di turbe,
 
compiuta la gran gesta, tornò quella sera al suo tetto.
 
Né tra i famigli andò, non andò fra i pastori nei campi,
 
ma pria della sua sposa nel talamo venne l'eroe:
 
tal desiderio ardeva nel cuore al pastore di genti.
 
Come allorquando un uomo sfuggito a un malanno s'allegra,
 
quando abbia un grave morbo fuggito, o una dura prigione,
 
Anfitrïóne cosí, compiuta la dura sua gesta,
 
alla sua casa giunse con cuore giocondo e felice.
 
E giacque con la casta consorte per tutta la notte,
 
le gioie d'Afrodite godendo, dell'aurëa Diva.
 
E da un Celeste amata la donna, e da un uomo perfetto,
 
nella settemplice Tebe die' a luce due gemini figli.
 
Ma l'uno uguale all'altro non eran, sebbene fratelli:
 
ché l'uno era da meno, di molto migliore era l'altro
 
figliuolo: Ercole esso era, gagliardo, terribile, invitto.
 
Questo la donna al figlio di Crono dai nuvoli negri
 
concetto aveva; ad Anfitrïóne signore di genti
 
Ificle: ben diversi rampolli: ché l'uno a un mortale,
 
e l'altro avea la donna concetto al Signor dei Celesti.
 
E questi Cigno uccise, di Marte il magnanimo figlio,
 
ché lo trovò nel bosco d'Apollo che lungi saetta,
 
lui con suo padre Marte, che mai non è sazio di guerre,
 
chiusi nell'armi, come barbagli di fiamma che arda,
 
ritti sul carro ambedue: scalpitavano i ratti corsieri,
 
l'unghie battevano, e intorno bruciava la polvere ad essi,
 
percossa sotto il carro massiccio ed il pie' dei cavalli.
 
Il ben costrutto cocchio squillava, squillavan le ruote,
 
correndo i due corsieri. Lieto era il fortissimo Cigno,
 
perché sperava il figlio possente di Giove e l'auriga
 
uccidere col bronzo, vestirsi dell'armi sue belle.
 
Ma non l'udí Febo Apollo, mentr'egli pregava: ché invece
 
accrebbe contro lui la forza del figlio di Giove.
 
E tutto quanto il bosco d'Apollo Pegàso e l'altare
 
riscintillava per l'armi del Nume tremendo e di Cigno,
 
dagli occhi loro un fuoco fulgeva. Qual mai dei mortali
 
l'ardire avrebbe avuto di farsi a lui contro, se togli
 
Ercole, e il fido suo scudiero Iolào? Ma ben grande
 
era di quell'eroe la forza, ma invitte le braccia
 
sopra le membra massicce sporgevan dagli òmeri fuori.
 
Al suo possente auriga, cosí disse allora, a Iolao:
 
«Iolào, campione a me diletto fra gli uomini tutti,
 
molto di certo peccò contro i Numi signori d'Olimpo,
 
Anfitrïóne, quel dí che a Tebe dal fulgido serto
 
venne, che avea Tirinto lasciata, la solida rocca,
 
poscia ch'Elettrïóne, pei bovi cornigeri, uccise.
 
Lieti lo accolsero quelli, gli diedero quanto era d'uopo,
 
quanto a un fuggiasco offrire si deve, e gli resero onore.
 
E lieto egli vivea con Alcmena sua sposa, dal vago
 
malleolo. E a luce noi, dopo un breve trascorrere d'anni,
 
tuo padre ed io venimmo, che d'indole pari e di senno
 
non eravamo punto: ché il senno a lui tolse il Croníde,
 
sicché, la casa sua lasciata ed i suoi genitori,
 
partí, ché volle un uomo ribaldo onorare, Euristèo.
 
Lo sciagurato poi dové farne gran pianto, e pentirsi
 
del fallo suo; ma piú revocarlo, possibil non era.
 
Gravi travagli a me un Démone invece prescrisse.
 
O mio caro, su via, stringi or tu le purpuree briglie
 
dei rapidi corsieri, moltiplica in seno l'ardire,
 
il carro e dei veloci corsieri la forza diritto
 
avventa, e non temere di Marte omicida il frastuono,
 
che con acute grida va or furïando pel bosco
 
sacro d'Apollo Febo, del Dio che lontano saetta.
 
Sazio dovrà dichiararsi, per quanto sia forte, di guerra».
 
E questo a lui Iolao, rispose, l'eroe senza pecca:
 
«O caro, assai, di certo degli uomini il padre e dei Numi,
 
assai l'Enosigèo t'onora, che vago è di tori,
 
che l'alte mura e la rocca di Tebe possiede e protegge:
 
tale un mortale, cosí gigante, cosí valoroso,
 
sotto le mani tue conducon, ché gloria tu n'abbia.
 
Su' dunque, indossa l'armi di guerra, ché, senza indugiare,
 
l'uno su l'altro i carri lanciando, di Marte ed il nostro,
 
si pugni; ei non potrà spaventare il figliuolo di Giove
 
senza paura, né d'Ificle il figlio; ma penso che invece
 
egli fuggire dovrà dai figli del figlio d'Alcéo
 
che sono presso a lui, che cupidi sono di guerra,
 
cupidi della zuffa, che a lor grata è piú del banchetto».
 
Disse cosí. Sorrise, ché in cuore godeva, la forza
 
d'Ercole: tanto a lui tornarono grati quei detti.
 
E gli rispose, e a lui parlò queste alate parole:
 
«Iolào, saldo campione nutrito da Giove, non lungi
 
è l'aspra pugna, e tu, come fosti sin qui valoroso,
 
Aríone, il gran cavallo dai ceruli crini, anche adesso
 
in giro spingi, e piú che puoi, dammi aiuto alla pugna».
 
E, cosí detto, alle gambe d'attorno legò gli schinieri
 
di lucido oricalco, d'Efèsto bellissimo dono,
 
i fianchi cinse poi tutto in giro col bel corsaletto
 
istorïato, foggiato nell'oro: l'aveva donato
 
a lui Pàllade Atèna, la figlia di Giove, quand'egli
 
dovea la prima volta provarsi nei duri cimenti.
 
Poi quel tremendo, il ferro che tiene lontana la morte,
 
sugli omeri adattò: fissandolo al petto, il turcasso
 
concavo, dietro le spalle gittò: dentro v'erano molte
 
frecce, di muta morte ministre, di brividi orrendi.
 
In punta avevano esse la morte, stillavano pianto,
 
erano levigate nel mezzo, lunghissime, e dietro
 
velate con le piume dell'aquila fulvida negra.
 
La lancia indi impugnò, con la punta di lucido bronzo,
 
orrida, sopra il capo gagliardo una gàlea pose,
 
istorïata di fregi, infrangibile, adatta alle tempie:
 
d'Ercole il capo questa schermiva, del fig lio di Giove.
 
Poscia lo scudo, vario d'agèmine, prese; né alcuno
 
franto lo avrebbe, ammaccato di colpi: stupore a vederlo.
 
Ché tutto quanto in giro, di smalto e di candido avorio
 
riscintillava, e d'oro fulgea tutto quanto e d'elettro.
 
Un drago, poi dal centro spirava indicibile orrore,
 
che con pupille oblique fissava, e brillava di fuoco;
 
e nella bocca una fila correva di candide zanne,
 
terribili, funeste. Sovr'essa l'orribil sua fronte,
 
Contesa svolazzava, che gli uomini a guerra schierava,
 
funerëa, che il cuore, che il senno rapiva ai mortali
 
che faccia a faccia, contro pugnassero al figlio di Giove.
 
Erano ancora qui figurati l'Attacco e la Fuga,
 
la Strage quivi ardea, lo Strepito ardea, l'Omicidio,
 
vi furïava il Tumulto, la Rissa, la Parca funesta,
 
che un uomo or or ferito stringeva, uno illeso, ed un altro
 
morto, e lo trascinava, ghermitolo al piè, tra la zuffa.
 
L'anime loro, poi, s'immergono sotto la terra,
 
entro nell'Ade, l'ossa d'intorno alla madida pelle
 
si putrefanno sul negro terreno alla vampa di Sirio.
 
Bruna di sangue umano sugli òmeri aveva una veste,
 
terribilmente guatava, gridava, strillava a gran voce.
 
E, piú che non si dica, terribili, teste di serpi
 
v'erano, dodici; e in seno spiravan terrore ai mortali
 
che a faccia a faccia contro movessero al figlio di Giove.
 
Alto suonava dei denti lo strepito, quando pugnava
 
d'Anfitrïóne il figlio, mandavano fiamme le insegne.
 
Eran varïegati di punti gli orribili draghi:
 
azzurri sopra il dorso, ma negre parean le mascelle.
 
E branchi c'eran poi di cinghiali selvaggi e leoni,
 
che gli uni sopra gli altri gittavano gli occhi furenti,
 
cupidi, e andavan fitte le loro falangi; né questi
 
tremavano, né quelli: sul collo, irti i crini ad entrambi.
 
Ché già spento un immane leone giaceva, ed intorno,
 
privi di vita due cinghiali, e di sotto stillava
 
a terra il negro sangue. Cosí, le cervici stroncate,
 
giacevan dove uccisi li avevan gli orrendi leoni.
 
E piú crescea di zuffe la furia e l'émpito, in questi
 
e in quelli, apri selvaggi, leoni dagli occhi di fuoco.
 
C'era la zuffa poi dei Lapíti maestri di lancia,
 
col re Cenèo, Drianta, Pirítoo, Pròloco, Oplèo,
 
Falèro, Esòdio, Mopso d'Ampíco figliuol, Titarèsio
 
prole di Marte, Tesèo figliuolo d'Egèo, pari ai Numi:
 
essi d'argento, l'armi che ai fianchi cingevano, d'oro.
 
Eran dall'a ltra parte raccolti i Centauri, alla pugna,
 
intorno al gran Petraio, ad +sbolo vate d'augelli,
 
ad Arto, a Urèo dai negri capelli, a Mimante, a Driàlo,
 
ai due Peucídi, a Perimedèo: tutti quanti foggiati
 
eran d'argento, e abeti stringevano d'oro fulgente.
 
E, fatto impeto insieme, cosí come fossero vivi,
 
con l'aste e con gli abeti da presso veniano alla pugna.
 
Ed eran qui di Marte terribile i ratti corsieri,
 
d'oro; e lo stesso Marte funesto s'ergea tutto in arme,
 
che un giavellotto in pugno stringeva, eccitava le turbe,
 
di sangue tutto brutto, che agli uomini, ritto sul carro,
 
togliea la vita; e presso gli stavan Terrore e Sgomento,
 
ch'erano tutti brama d'irrompere in mezzo alla pugna.
 
La Tritogenia figlia di Giove, la vaga di prede,
 
v'era, e sembrava come volesse apprestare la pugna:
 
ché l'asta e l'elmo d'oro dal triplice ciuffo reggendo,
 
l'ègida su le spalle, moveva alla cruda battaglia.
 
Ed una danza v'era di Súperi, sacra: nel mezzo,
 
soavemente il figlio di Lato e di Giove cantava
 
sopra la cetera d'oro. Dei Numi la sede, l'Olimpo
 
v'era, e una piazza, e attorno, corona di Numi infinita
 
a contemplare una gara. Le Muse Pïèridi, al canto
 
davan principio, e voci di femmina avevano, acute.
 
Di buon ormeggio un porto, nel pelago senza riparo
 
effigïato v'era, di stagno purissimo, tondo,
 
e che ondeggiasse pareva. Nel mezzo, parecchi delfini
 
guizzavano qua e là correndo, alla caccia dei pesci.
 
E nuotatori v'eran: due d'essi sbuffavano l'acqua;
 
e innanzi a loro, i pesci fuggivan, foggiati nel bronzo.
 
Un pescatore sedea su la spiaggia, e spiava, e una rete
 
da pesci aveva in mano, parea che volesse gittarla.
 
Di Dànae chioma bella poi v'era, scolpito nell'oro,
 
il figlio Pèrseo, e ai piedi cingeva gli alati calzari.
 
E non toccava coi pie' lo scudo, né pur n'era lungi:
 
gran meraviglia a vederlo, ché punto non v'era poggiato:
 
con le sue mani cosí lo costrusse l'insigne Ambidestro.
 
Dal bàlteo, su le spalle pendeva una spada di bronzo
 
dai negri fregi: a volo movea, come vanno i pensieri,
 
l'eroe. Tutta la schiena copria della Gòrgone il capo,
 
del mostro orrido; e tutta, stupore a veder, la cingeva
 
una bisaccia d'argento, svolavano lucide frange
 
d'oro; e, tremendo, il casco d'Averno stringeva al signore
 
la fronte; e lo cingeva notturna caligine fosca.
 
Ed il figliuol di Dànae, com'uomo che abbrivida e fugge,
 
si distendeva al corso. Si precipitavan su lui,
 
insazïabili quanto nessuno può dir, le Gorgòni,
 
bramose di ghermirlo. Squillava dal pallido ferro,
 
sottessi i passi loro, lo scudo con alto fracasso,
 
tinnulo acuto; e sopra la cintola a ognuna di loro
 
si svincolavano due dragoni, inarcando le teste.
 
E lingueggiavano entrambi, nell'ira aguzzavano i denti,
 
terribilmente guatando. Sovresse le orrende cervici
 
delle Gorgòni, orrore torcevasi immane. - Al disopra,
 
uomini, d'armi guerriere coperti, pugnavano: questi
 
che dalla strage schermo facevano ai proprî parenti,
 
alla città: quegli altri tentavan di metterla a sacco.
 
Molti giacevano: i piú, capaci tuttor di pugnare,
 
pugnavano; e sovresse le torri di bronzo, le donne
 
si laceravan le gote, levavano acute le grida,
 
simili a donne vive: ch'Efesto le aveva scolpite.
 
E gli uomini d'età, che avea già ghermiti vecchiaia,
 
stavano fuor dalla porta raccolti, ed alzavan le mani
 
verso i Beati Celesti, temendo pei loro figliuoli.
 
Ed alla pugna questi badavano intanto. E le Parche
 
livide, dietro ad essi, dai candidi denti stridendo,
 
torve, terribili, tutte coperte di sangue, implacate,
 
rissa d'intorno ai caduti facevano, cupide tutte
 
di bere il negro sangue. E quei che ghermissero prima
 
già spento, oppur caduto ferito di fresco, su quello
 
l'immani unghie una d'esse gittava, e lo spirito all'Ade,
 
al Tartaro cruento scendeva. E quand'eran poi sazie
 
di sangue umano, dietro di sé lo gittavano, e ancora,
 
novellamente, correndo, moveano alla strage, al tumulto.
 
Cloto e Lachèsi innanzi movevano a tutte. Piú fiacca
 
+tropo, e di statura piú bassa, ma d'anni piú grave
 
era di tutte l'altre, ché prima venuta era al giorno.
 
Tutte pugnavano a un uomo d'intorno una zuffa crudele,
 
e l'una contro l'altra volgevano gli occhi furenti,
 
l'unghie provavano l'una su l'altra, e le mani rapaci.
 
E presso a loro stava la querula Ambascia odïosa,
 
pallida, magra, cascante di fame, le gambe stecchite,
 
e l'unghie lunghe lunghe sporgean dalle dita: colava
 
dalle narici moccio, cadevano giú dalle guance
 
stille di sangue; ed essa, con grande stridore di denti,
 
stava, e sugli òmeri suoi si addensava la polvere fitta,
 
molle di pianto. - E presso, sorgeva una rocca turrita,
 
da sette porte d'oro difesa, connesse ben salde
 
dagli architravi. E dentro, le genti, in carole e in festini,
 
si sollazzavano. Alcuni, in un carro di rapide ruote,
 
guidavano allo sposo la sposa. Il sonoro imeneo
 
volava: in man le ancelle reggevan le fiaccole accese,
 
ed il fulgore lontano volava. Movevano innanzi
 
esse, di gioventú fiorenti: seguivano a schiere
 
i danzatori. Quelle, dai teneri labbri, al concento
 
delle sampogne acute levavano il canto, ed intorno
 
si rifrangeva l'eco. Guidavano al suon delle cetre
 
quelli l'amabile danza. - Poi giovani, altrove, in tripudio
 
al suon del flauto, questi godevan di balli e di canti,
 
quelli ridevano; e avanti movevano, ognuno seguendo
 
un suonator di flauto; e danze, piaceri, festini
 
empievan la città tutta quanta. - Dinanzi alla rocca,
 
genti ai cavalli in groppa correvano. - Intenti all'aratro
 
scalzavano i bifolchi, succinte le vesti, la terra
 
divina. E c'era un campo di biade, profondo; ed alcuni
 
con gli affilati falcetti mietevano i calami lunghi
 
gravi di spighe, onde poi si frange di Dèmetra il dono;
 
altri in covoni poi le stringevan, battevano l'aia.
 
E chi pei gran vigneti, dei vendemmiatori, alle ceste
 
grappoli bianchi e neri portava, di pampani gravi
 
tutti, e d'argentei viticci, chi colmi portava i canestri.
 
Ed una vigna d'oro quivi era, d'Efèsto lo scaltro
 
opera egregia; e scoteva le foglie sui pali d'argento,
 
carica tutta quanta di grappoli; e i grappoli, neri.
 
E chi pigiava, e chi beveva. - Coi pugni, alla lotta,
 
si misuravano altri. - Correvano dietro alla lepre
 
i cacciatori, e i cani dai denti crudeli dinanzi:
 
questi ghermirle, quelle fuggire anelavano. - E presso
 
avean cavalïeri contesa fatica e travaglio
 
per una gara: stavan sui solidi carri, gli aurighi,
 
lente lasciando le briglie, sferzando i veloci cavalli;
 
e con gran romba i carri massicci volavano, i mozzi
 
stridevano alto; e mai non cessava la loro fatica:
 
ché la vittoria a nessuno rideva, era incerta la gara.
 
E nella lizza era esposto il premio d'un tripode grande,
 
opra d'Efesto, l'artefice scaltro, foggiato nell'oro. -
 
Correva presso all'orlo l'Ocèano, pareva rigonfio,
 
e tutto quanto cingeva lo scudo scolpito. E su quello,
 
cigni per l'aria, con alto clamore volavano, a sommo
 
altri nuotavan dell'acque, d'intorno scherzavano pesci.
 
Era una meraviglia vederlo, sia pure per Giove
 
sire del tuono, pel cui comando lo scudo massiccio
 
grande, manevole, Efèsto costrusse. Il figliuolo di Giove
 
lo palleggiava con mano gagliarda.
 
Balzò sopra il carro,
 
che folgore sembrò lanciata dal padre tonante,
 
con salto agile; e accanto l'auriga gagliardo Iolào
 
a lui balzò, reggendo le briglie del carro ricurvo.
 
E venne presso a loro la Diva occhicerula Atèna,
 
infuse in essi fede, con queste veloci parole:
 
«O di Lincèo, l'eroe glorïoso progenie, salute.
 
Giove che impera sui Numi beati, gran gloria v'accorda,
 
che morte a Cigno diate, che l'armi sue belle indossiate.
 
E un'altra cosa, o prode fra tutti i mortali, ti dico:
 
allor che della vita sua dolce avrai Cigno privato,
 
lascialo, lascia l'armi sue belle ove cadde; e tu fissa
 
Marte omicida, mentre s'avanza, ove ignudo lo vegga,
 
sotto lo scudo ornato: qui vibra l'aguzzo tuo bronzo,
 
e indietro fatti, poi, ché fato non è che tu possa
 
predare né i cavalli del Nume, né l'armi sue belle.
 
Poi ch'ebbe detto cosí, sul cocchio la Dea fra le Dive,
 
che la vittoria e la gloria reggea nelle mani immortali,
 
balzò con un gran lancio. Iolao generato da Giove
 
die', con un grido orrendo, l'aíre ai corsieri; e a quell'urlo,
 
trassero, empiendo il piano di polvere, il cocchio veloce:
 
ché furia in essi infuse la Diva occhicerula Atèna,
 
che l'ègida scoteva: rombava dintorno la terra.
 
E a un tempo anche moveano, parevano fuoco o procella,
 
Cigno, l'equestre signore, con Marte mai sazio di pugne.
 
E, a fronte a fronte gli uni degli altri, d'entrambi i cavalli
 
nitriti alti levarono, e l'eco s'effuse d'intorno.
 
Ercole invitto disse fra loro le prime parole:
 
«Perché, stolido Cigno, spingete i veloci cavalli
 
contro di noi, cosí sperti di pene e travagli? Su via,
 
fatti in disparte col carro tuo ben levigato, il cammino
 
lasciami libero, cedi. Io sono diretto a Trachíine,
 
presso Ceíce sovrano. Ché questi, col senno e la forza,
 
regna in Trachíne, bene lo sai da te stesso: ché sposa
 
hai la sua figlia, tu, Temistònoe dai ceruli cigli.
 
O stolido, se mai dovessimo a pugna venire,
 
neppur Marte da te potrà tener lungi la morte.
 
Un'altra volta già, ti dico, dové fare prova
 
della mia lancia, quando, nei pressi di Pilo sabbiosa,
 
a fronte egli mi stette, per brama implacata di pugna.
 
Tre volte egli toccò la terra, tre volte colpito
 
dalla mia lancia, e forato lo scudo: la quarta, spingendo
 
di tutta forza, immersi nel femore il cuspide, ruppi
 
di gran squarcio le carni. Piombò nella palvere prono.
 
E stette quivi, e segno d'obbrobrio restò pei Celesti,
 
ché sotto le mie mani lasciò le sue spoglie cruente».
 
Disse cosí. Ma Cigno dall'asta di frassino, ligio
 
ai detti suoi non fu, rattenere non volle i corsieri;
 
e rimbombò, mentr'essi movevano, l'ampia terra.
 
Come allorché d'un monte gigante dal vertice estremo
 
balzano rupi giú, strapiombano l'una su l'altra,
 
e assai querce d'eccelso fogliame si spezzano, e pini,
 
e pioppi dall'eccelse radici, quando esse dall'alto
 
rotano impetuose, sinché non pervengono al piano:
 
cosí, con alte grida, piombarono l'uno su l'altro.
 
E tutta la città di Mirmídone, e l'inclita Iolco,
 
ed Arne, con Antèa l'erbosa, o con Elica, un'eco
 
lunga a quel grido mandò. Piombarono l'uno su l'altro
 
con ululo infinito. Tuonò fieramente il sagace
 
figlio di Crono, e versò dal cielo sanguigna rugiada,
 
per inviare un segno di guerra al magnanimo figlio.
 
Come per valli alpestri selvose, terribile un apro,
 
con le sporgenti zanne compare, anelando la pugna,
 
piantato obliquamente: la bocca digrigna, la spuma
 
gocciola giú, le pupille somigliano a fuoco che arda,
 
irti sul dorso e su la criniera si drizzano i peli:
 
simile a questo, il figlio di Giove discese dal carro.
 
Erano i dí che la bruna canora cicala, sul ramo
 
tenero verde, a cantare comincia l'Estate ai mortali,
 
che solo ha per bevanda, per cibo, la molle rugiada,
 
e la sua voce effonde dall'alba, sinché dura il giorno,
 
nell'afa esosa, quando piú Sirio prosciuga la pelle:
 
i dí quando le reste compaion sui chicchi del miglio,
 
ch'è seminato l'està, quando invàiano i grappoli acerbi,
 
doni di Bromio che gioie comparte ai mortali e tormenti.
 
Pugnarono in quei dí, della pugna fu grande il fracasso.
 
E come due leoni, d'intorno ad un cervo abbattuto,
 
l'un contro l'altro, furore spirando, si avventano, e orrendo
 
suona il ruggito loro, lo strepito suona dei denti:
 
come avvoltoi dall'unghie rapaci, dal becco ricurvo
 
che sopra un'alta rupe si batton con fiero clangore,
 
per una capra alpestre, per una selvatica pingue
 
cervia, che un giovinetto, vibrando una freccia dall'arco,
 
trafisse; ed egli poi, dei luoghi inesperto, lontano
 
andò vagando: quelli la videro súbito, e intorno
 
impetuosamente le corsero, ad aspro conflitto:
 
cosí quelli, gridando, balzarono l'uno su l'altro.
 
E qui, Cigno, bramoso d'uccidere il figlio di Giove
 
onnipossente, vibrò sul suo scudo la lancia di bronzo;
 
né il bronzo si spezzò: ché schermo fe' l'opra del Nume.
 
Ercole, invece, il figlio possente d'Anfitrïóne,
 
gagliardamente immerse fra l'elmo e lo scudo la lancia,
 
nel collo, ov'esso ignudo pareva, al disotto del mento.
 
Il frassino omicida recise l'un tèndine e l'altro,
 
ché grande era la forza del colpo. E piombò come quercia
 
piomba, o scoscesa rupe, colpita dal folgor di Giove.
 
Cosí piombò: su lui suonarono l'armi di bronzo.
 
E allora lo lasciò di Giove l'impavido figlio,
 
ed aspettò guardingo l'arrivo di Marte omicida,
 
fissandolo con occhi terribili, al par d'un leone
 
che in una preda s'imbatte, la pelle con l'unghie possenti
 
cupidamente gli fende, ne sazia l'ingorda sua brama,
 
e, sfavillando tremendo negli occhi, le spalle ed i fianchi
 
coi pié gli scava, e sferza la coda, e nessuno che veda
 
farglisi contro ardisce, combatter con lui faccia a faccia.
 
D'Anfitrïóne il figlio mai sazio di zuffe, di fronte
 
stette a Marte cosí, crescendogli in cuore il coraggio,
 
impetuoso; e quegli, crucciato, si fece a lui presso;
 
e con orrende grida, piombarono l'uno su l'altro.
 
Come allorquando una rupe si stacca da un vertice eccelso,
 
e con immensi balzi giú rotola, e irrompe furente
 
con gran fragore; ed ecco, si oppone al suo corso un gran poggio:
 
quivi essa cozza; e il poggio l'arresta: con simile romba
 
balzò, gridando, Marte, flagello dei carri. Ma quello
 
súbito contro gli stette. E Atèna, figliuola di Giove,
 
contro si fece a Marte, schermita dall'égida fosca,
 
e bieco lo guardò, gli volse cosí la parola:
 
«Marte, trattieni il cuore furente e l'invitto tuo braccio:
 
perché fato non è che tu Ercole stermini, il figlio
 
dal temerario cuore di Giove, e che l'armi ne indossi.
 
Via, dalla zuffa desisti, né starmi di contro a battaglia».
 
Cosí disse; né il cuore superbo di Marte convinse;
 
ma con grandi urli, l'armi, che fuoco pareano, vibrando,
 
rapidamente balzò sopra Ercole forte, anelando
 
di dargli morte. E a furia - tant'ira l'ardeva pel figlio
 
spento - dal grande scudo vibrò la sua lancia di bronzo.
 
Ma si protese dal carro la Diva dagli occhi azzurrini,
 
e volse altrove il colpo dell'asta. Ed acuto cordoglio
 
invase Marte. E fuori traendo l'aguzza sua spada,
 
contro Ercole balzò, dal cuore magnanimo. E il figlio
 
d'Anfitrïóne, che mai non fu sazio dell'orrida pugna,
 
sotto lo scudo bello, la coscia, ove ignuda appariva,
 
gagliardamente trafisse, le carni di squarcio profondo
 
aprí, colpendo, il Nume rovescio mandò per le terre.
 
Spinsero súbito presso Sgomento e Terrore il veloce
 
carro e i cavalli, il Dio sollevaron da terra, sul carro
 
lo posero, di fregi molteplici ornato, le sferze
 
vibraron sui cavalli, tornarono ai picchi d'Olimpo.
 
Ed il figliuolo d'Alcmèna, con Iolào coperto di gloria,
 
poscia che l'armi belle dagli omeri tolser di Cigno,
 
partirono; e sul carro veloce pervennero presto
 
alla città di Trechíne. E Atèna dagli occhi azzurrini
 
novellamente tornò del padre alla casa, in Olimpo.
 
E Cice a Cigno diede sepolcro, col popolo immenso
 
che, intorno alla città dell'illustre sovrano, abitava
 
Ante, con la città dei Mirmídoni insigne, e Iaòlco
 
Elide ed Arne. A onorare Ceíce diletto ai Celesti,
 
popolo molto s'accolse. Ma poscia invisibili rese
 
tumulo e tomba, gonfio di piogge invernali, l'Anàuro.
 
Febo volle cosí, perché Cigno, chiunque recasse
 
sacre ecatombi a Pito, tendeva l'insidia a predarle.
 
</poem>
 
  
 +
[[Categoria:Mitologia]]
 +
[[Categoria:Mitologia Classica]]
 
[[Categoria:Mitologia Greca]]
 
[[Categoria:Mitologia Greca]]
 
[[Categoria:Europa]]
 
[[Categoria:Europa]]
 
[[Categoria:Mediterraneo]]
 
[[Categoria:Mediterraneo]]
 
[[Categoria:Grecia]]
 
[[Categoria:Grecia]]
[[Categoria:Fonti della Mitologia Greca]]
 
 
[[Categoria:Biblioteca]]
 
[[Categoria:Biblioteca]]
[[Categoria:Tutte le Fonti]]
+
[[Categoria:Fonti]]
 +
[[Categoria:Fonti Antiche]]
 +
[[Categoria:Opere Epiche]]

Versione attuale delle 14:36, 29 gen 2023

LO SCUDO DI ERACLE
Scudoeracle.jpeg
Titolo orig.: Ἀσπὶς Ἡρακλέους
Autore: Anonimo
Nazione: {{{nazione}}}
Sezione: Mitologia Greca
Anno: -
Tipo: Fonti Antiche
Genere: Opere Epiche
Subgenere: {{{subgenere}}}
Lingua orig.: Greco antico
In Biblioteca: Si
Traduzione: italiano

Lo scudo di Eracle (Ἀσπὶς Ἡρακλέους, Aspis Hērakleous) è un poemetto greco arcaico di 480 versi esametri, dapprima ritenuto di Esiodo ma già da Aristofane di Bisanzio non attribuito a lui. Nel poemetto si imita la descrizione omerica dello scudo di Achille.

TRAMA[modifica]

L'opera comincia con la nascita dell'eroe da Zeus e Alcmena. Zeus, per ingannare Alcmena, si era presentato sotto le sembianze di Anfitrione, suo marito. Eracle aveva un gemello, il vero figlio di Anfitrione. Iolao, figlio di questo, gli faceva da scudiero. Eracle e Iolao incontrarono Cicno col padre Ares in un bosco dedicato ad Apollo. Si preparano a combattere. Qui Esiodo descrive in maniera estremamente particolareggiata le armi di Eracle. Atena interviene dicendo ad Eracle che gli concede di uccidere Cicno; Eracle si avvicina a Cicno e gli dice di lasciarlo passare perchè deve andare dal re Ceice e gli ricorda che aveva già ferito gravemente Ares alla coscia e che se non lo lascia passare morirà.
Eracle prima combatte contro Cicno, che gli scaglia contro una lancia che colpisce lo scudo di Eracle ma non lo scalfisce; dopo Eracle scaglia a sua volta la lancia e colpisce mortalmente Cicno al collo.
Atena si avvicina ad Ares e gli intima di andarsene.Ares non la ascolta e getta la sua lancia contro lo scudo di Eracle ma Atena dal suo cocchio devia la lancia e lo colpisce ad un fianco. Poi Eracle con la lancia lo ferisce a sua volta. Dopo averli spogliati delle armi Eracle e Iolao vanno dal re Ceice che provveda a seppellirlo. Ma il fiume Anauro straripando porta via la tomba: così aveva stabilito Apollo perchè Cicno ed Ares spogliavano coloro che avrebbero offerto a Pito ricche ecatombi.

IL TESTO[modifica]

Per visualizzare il testo integrale vai a Biblioteca:Lo Scudo di Eracle