Biblioteca:Teocrito, Idilli, XXV - Eracle uccisore del leone

ERACLE E IL CONTADINO
E, facendo una pausa alla fatica
che aveva in mano, gli rispose il vecchio
aratore e custode delle mandrie:
"Ti dirò volentieri ciò che chiedi,
straniero, nel timore che mi colga
il castigo terribile di Ermes
che protegge le strade; questo dio
più di tutti i celesti, a quanto dicono,
va in furia se qualcuno si rifiuta
di dare una risposta al viaggiatore
che domanda la strada. Non è uno
il luogo dove vanno a pascolare
i greggi dal bel vello del re Augìa,
ma alcuni son condotti sulle sponde
intorno all'Elisunte, al corso sacro
vanno altri dell'Alfeo, fiume divino,
ed altri sul Buprasio, dove i grappoli
sono copiosi, ed altri pure qui.
E vi sono recinti per ciascuno
costruiti in disparte, e per i buoi
benché siano le mandrie numerose,
qui sono sempre pascoli per tutti
ben rigogliosi nella gran palude
del Menio, poiché un'erba come il miele
è fiorente nei prati rugiadosi
e nelle conche irrigue in abbondanza
e dà forza alle bestie con le corna.
La loro stalla è quella che si scorge
alla tua destra molto chiaramente
oltre il corso del fiume, dove crescono
i platani perenni e l'oleastro
verde pallido. Il luogo è consacrato
ad Apollo, straniero, il dio dei pascoli,
perfettissimo dio. Vaste dimore
vi sono state fabbricate accanto
per noi della campagna che facciamo
fedelmente la guardia, per il re,
all'immensa fortuna inesauribile;
getteranno la semenza nei maggesi
tre volte arati ed anche quattro volte.
Conoscono i confini i piantatori
molto solerti e quando è piena estate
arrivano per far la pigiatura.
È di Augìa dal buon senno tutta intera
questa pianura e i campi con le messi
e i poderi con gli alberi in gran numero
fino alla punta estrema di Acrorea
ricca di fonti. E noi per tutto il giorno
ci facciamo i lavori ed è la regola
per i servi che vivono in campagna.
Ma dimmi tu - potrebbe convenirti -
chi sei giunto a cercare. Cerchi Augìa
o uno dei suoi servi? Io voglio dirti
ciò che so con chiarezza apertamente:
io affermo che non sei di bassa origine
e non somigli a chi è di bassa origine,
tanto spicca in grandezza la tua immagine,
e tra i mortali certamente i figli
degli immortali sono come te".
E rispose di Zeus il forte figlio:
"Vecchio, è così: vorrei vedere Augìa,
il capo degli Epèi. Mi portò qui
il bisogno di lui, ma se si trova
a occuparsi del popolo in città
con i suoi cittadini che amministrano
i decreti di legge, tu indirizzami,
dal servo che per grande anzianità
sia capo eletto in questi campi, vecchio,
perché possa parlargli di qualcosa
da parte mia e sapere d'altro canto
ciò che dice in risposta: ciascun uomo
bisognoso dell'altro fece un dio".
Ed a sua volta rispondeva il vecchio,
il divino aratore: "Per volere
di uno degli immortali tu qui giungi,
straniero, poiché tutto ciò che vuoi
si è compiuto all'istante; Augìa sta qui,
diletto figlio d'Eliso e con lui Fìleo,
il figlio suo di splendido vigore.
Ieri dalla città se n'è venuto,
ad occuparsi delle sue sostanze,
che sono innumerevoli, nei campi,
per molti giorni. Pure i re lo sanno
dentro di sé che è meglio custodito
il patrimonio quando se ne ha cura.
Ma rechiamoci sùbito da lui,
ti guiderò alla nostra stalla,
dove ci potremo incontrare col signore".
Così dicendo gli faceva strada
e vedendo la pelle della fiera
e la clava di enormi proporzioni
volgeva nella mente molte ipotesi
da dove provenisse lo straniero
e di continuo aveva una gran voglia
di interrogarlo, ma nell'incertezza
di parlare a sproposito con uno
che aveva fretta, ricacciava indietro
la parola che aveva sulle labbra.
Difficile è conoscere i pensieri
d'un altro uomo. Ma quando si accostarono,
dall'odore del corpo e dal rumore
dei loro passi, prontamente i cani
si accorsero di entrambi da lontano
e contro Eracle figlio di Anfitrione
da un lato si avventarono e dall'altro
con acuti ululati, ma al contrario
uggiolando agitavano la coda
dalla parte del vecchio, a tempo perso.
Quello li spaventò e li mise in fuga
sollevando da terra alcune pietre
e con grandi minacce a voce grossa,
rivolte a tutti, soffocò i latrati,
dentro di sé contento per la guardia
fatta alla stalla mentre stava fuori
e parlò in questo modo:"Ahi, che animale
precipitoso è questo che crearono,
perché vivesse in compagnia degli uomini,
gli dèi signori. Se dentro di sé
fosse pure capace di discernere
e sapere con chi fare il feroce
e con chi no, nessuna delle bestie
sarebbe più apprezzabile di lui;
ora è troppo rabbioso ed aggressivo".
Così detto, ripresero il cammino
e a passo svelto giunsero alla stalla.

LA RIVISTA
Il sole dunque volse i suoi cavalli
ad occidente e portò avanti il vespro,
i grassi greggi vennero dal pascolo
alle stalle e ai recinti e quindi giunsero
molte migliaia di vacche una sull'altra:
sembravano le nubi gonfie d'acqua
che Noto o il trace Borea con violenza
spingono avanti in cielo: senza numero
e senza fine sono quelle nuvole
che passano nell'aria: quante nuvole
fa rotolare con la forza il vento
dopo le prime e ancora ne solleva,
l'una sull'altra, tanto numerosi
e senza sosta, l'uno dietro l'altro,
i bovini tornavano alle stalle.
Ne fu sùbito colmo tutto il piano,
colmi tutti i sentieri del bestiame
in cammino e il muggito si espandeva
per i campi opulenti. In poco tempo
si riempirono i chiusi della mandria
che trascina le zampe e negli ovili
sostavano le pecore e non c'era
nessuno tra i presenti numerosi
che se ne stava lì senza far nulla
accanto ai buoi, ma si metteva a posto
uno ai piedi, per mungere vicino,
gli zoccoli, con stringhe ben tagliate,
sotto le madri un altro sospingeva
i nuovi nati, pieni di gran voglia
di bere il latte tiepido, portava
un altro il secchio per la mungitura,
un altro condensava un grasso cacio,
un altro trasportava dentro i tori
divisi dalle manze. Augìa, recandosi
stalla per stalla, stava ad osservare
quale cura prendessero i pastori
dei beni suoi. Col re che visitava
la sua gran proprietà veniva il figlio
ed Eracle possente e grave d'indole.
E allora, pur avendo dentro il petto
un animo non fragile e ben solido
in ogni istante si stupiva assai
il figlio di Anfitrione, nel vedere
il dono incalcolabile d'un dio.
Nessuno avrebbe detto né supposto
che una tale abbondanza di bovini
fosse di un uomo solo, ma neppure
di altri dieci, i più ricchi di bestiame
tra tutti i re. Concesse al figlio suo
Elios un dono superiore a ogni altro,
di possedere più di tutti gli uomini
greggi abbondanti e tutte le sue bestie
egli stesso accresceva senza sosta
fino alla fine. E mai sulle sue mandrie
si abbatteva qualcuno di quei morbi
che distruggono l'opera ai pastori,
ma le mucche cornute d'anno in anno e
rano sempre più, sempre più belle,
tutte feconde in modo eccezionale
e facevano femmine. Con loro
trecento tori dalle zampe bianche
e di colore scuro procedevano
e altri duecento rossi, tutti al punto
di far la monta. E inoltre pascolavano
altri dodici tori sacri ad Elios,
candidi nel pelame come cigni.
Spiccavano tra tutti nella mandria
che trascina le zampe e pascolavano,
in disparte dal gregge, l'erba folta,
tanto incredibilmente insuperbivano.
E quando provenivano veloci
gli animali dal folto della selva
dietro le agresti mucche fino al piano,
per primi ne avvertivano l'odore
e con muggiti orribili lottavano
minacciando la morte con lo sguardo.
Per forza, per vigore e per orgoglio
primeggiava tra loro il gran Fetonte
che i bovari accostavano a una stella,
perché splendeva in mezzo agli altri buoi
con gran risalto. E quando questo scorse
la pelle disseccata del leone
dagli occhi accesi, caricò di corsa
sfiorando i fianchi d'Eracle ben vigile
con la testa e la fronte poderosa.
Il signore lo prese nello slancio
per il corno sinistro, con la mano
piena di forza, e il collo vigoroso
gli piegò fino a terra e quindi indietro
lo respinse di nuovo sulla spalla
facendo forza, e il muscolo sui nervi
nella tensione, diritto, in cima al braccio
si sollevò. La meraviglia colse
il re in persona e il figlio suo prudente,
Fìleo e i guardiani dei corouti buoi
quando videro, eccelso più di ogni arma,
il vigore del figlio di Anfitrione.
Se ne andarono dunque alla città
abbandonando i grassi campi Fìleo
ed Eracle campione di vigore
e non appena furono saliti
sulla strada maestra, terminato
a passo svelto il piccolo sentiero
che attraverso il vigneto dalle stalle
era tracciato e a stento si scorgeva
dentro la massa delle fronde verdi,
al discendente del supremo Zeus
che camminava dietro, disse il figlio
caro di Augìa, piegando un poco il capo
sopra la spalla destra: "Udii, straniero,
nel passato un racconto che senz'altro
ti riguardava (se di te si tratta)
e da un poco lo giro nella mente.
Un tale giunse qui venendo da Argo,
un uomo ancora giovane, un Acheo
di Ilice che si stende lungo il mare,
che narrava dinanzi a molti Epèi
come, alla sua presenza, un certo Argivo
avesse ucciso una tremenda belva,
un Leone, fenomeno funesto
per la gente dei campi, la cui tana
si apriva fonda presso il sacro bosco
di Zeus nemèo. 'Ma non saprei,' diceva,
'con certezza, se fosse di Argo sacra,
se abitasse a Tirinto, se a Micene',
ma la sua stirpe, se ricordo bene,
riconduceva a Perseo, ed io non credo
che vi sia un altro in mezzo agli Egialèi
capace di far questo, se non tu.
Parla chiaro la pelle della fiera
che porti arrotolata intorno ai fianchi
e l'opera potente delle mani.
Ora, prima di tutto dimmi, eroe,
perché dentro di me ne sia cosciente,
se è esatto oppure no ciò che indovino.
Se quello, di cui udimmo l'Acheo d'Elice
far parola, sei tu ed io ho ragione,
dimmi come tu proprio eliminasti
quella fiera funesta e come giunse
al paese di Nèmea, ricco d'acque.
Non potresti trovare, pur volendo,
nell'Apia un tale mostro, perché simili
non ne nutre, piuttosto orsi e cinghiali
e la specie mortifera dei lupi.
Anche per questo si meravigliavano
a sentire il racconto quella volta
e c'era chi diceva che il viandante
mentiva, compiacendo l'uditorio
con la sua parlantina menzognera".
Fìleo disse così e si fece indietro
dal centro della strada, perché a entrambi
vi fosse spazio per andare insieme
e per sentire le parole d'Eracle
più agevolmente. E questi accompagnandolo
così gli disse: Ciò che domandavi
in primo luogo tu l'indovinasti,
figlio di Augìa, senza sbagliare un punto,
con gran facilità, ma di quel mostro,
visto che hai molta voglia di sentire,
potrei narrarti nei particolari
il fatto come andò, tranne una cosa:
da dove giunse. Questo non può dirlo,
di quanti sono i cittadini d'Argo
con certezza nessuno. Supponiamo
che, scontento del culto, un immortale
lo mandò come pena ai Foronei.
Infatti, come un fiume che straripa,
senza tregua il leone devastava
tutti i campi irrigati e specialmente
quelli dei Bembinèi, che stando accanto
soffrivano di mali intollerabili.
Questa prova da compiere mi impose
prima d'ogni altra, Eurìsteo e mi mandava
a sterminare la tremenda fiera.
E con l'arco flessibile di corno
io me ne andavo e la faretra cava
piena di frecce, ma nell'altra mano
un robusto bastone d'oleastro
fronzuto con la scorza e col midollo
che trovai sotto l'Elicona sacro
io stesso e lo tirai fuori dal suolo
con le spesse radici tutto intero.
Allora quando giunsi nella zona
dove stava il leone, preso l'arco,
nell'anello ricurvo spinsi il nervo
e la freccia che provoca il lamento
sùbito vi incoccai. Girando gli occhi
in ogni direzione, stavo all'erta
per scoprire la belva rovinosa
prima che mi avvistasse. La giornata
era nel mezzo e non riuscivo a scorgere
le tracce né a distinguere il ruggito
e neppure alcun uomo si vedeva,
intento alla fatica, con i buoi
o dentro il solco, al quale domandare,
ma il pallido timore tratteneva
ciascuno nella casa. Io non fermai,
ispezionando il monte fitto d'alberi,
il mio cammino, prima di vederlo
e di provare la mia forza sùbito.
Innanzi sera quello si diresse
alla sua tana, essendosi nutrito
di carni e sangue ed era tutto sporco
di strage intorno all'arida criniera
e al muso torvo e al petto e con la lingua
intorno si leccava la mascella.
Io mi nascosi all'ombra dei cespugli
in un tratto selvoso ad aspettare
quando giungesse e, appena fu vicino,
tirai al fianco sinistro inutilmente
poiché non penetrò dentro la carne
la freccia aguzza, ma ricadde indietro
sull'erba verde. Quello alzò da terra
stupito il capo rosso e in ogni parte
fissò gli occhi cercando di vedere
e a bocca spalancata mise in mostra
gli insaziabili denti. Un'altra freccia
io scagliavo dal nervo, contrariato
che mi fosse sfuggita dalla mano
quella di prima invano, e lo colpii
in mezzo al petto, dove sta il polmone.
Ma neppure così sotto la pelle
si conficcò la freccia dolorosa
e ricadde, ugualmente inefficace,
dinanzi ai piedi. Per la terza volta
mi preparavo a prendere la mira,
dentro di me adirato fortemente,
ma mi scorse la belva furibonda
roteando gli occhi e intorno alle ginocchia
volse la lunga coda e sul momento
meditò la battaglia. Tutto il collo
gli si gonfiò per l'ira, per la rabbia
si drizzò la criniera color fuoco,
si arcuò la schiena, mentre interamente
si piegavano sotto i fianchi e il ventre.
Come quando un artefice di carri
dalla lunga esperienza di lavoro,
dopo averli scaldati con il fuoco,
i rami di un flessuoso caprifico
piega a forma di ruote per un carro
posto sull'asse, ma curvato appena,
il caprifico dalla lieve scorza
gli sfugge dalle mani e scatta via,
con un sol balzo, nello stesso modo
da lontano saltò con tutto il corpo
verso, di me il terribile leone,
bramoso di mangiare la mia carne.
Le frecce in una mano ed il mantello
doppio reggevo, tolto dalle spalle,
e con l'altra, levando oltre la tempia
la secca clava, la calai sul capo
e il ruvido oleastro in due spezzai
sopra il villoso cranio della belva
inferocita. Quella cadde a terra
dall'alto prima di potermi cogliere
ed agitando il capo restò ferma
sulle zampe tremanti. Le discese
tenebra fitta sopra entrambi gli occhi
per il colpo violento del cervello
nella scatola cranica. Scorgendola
stordita sotto il peso del dolore,
prima che si riavesse, la prevenni
e la colpii, gettando a terra l'arco
e la faretra a doppia cucitura,
alla base del collo invulnerabile
e stringendo le mani vigorose
con energia, da dietro la strozzai,
per non farmi straziare dagli unghioni,
e, montandole sopra, contro il suolo
saldamente premevo coi calcagni
le zampe posteriori e con le cosce
le imprigionavo i fianchi fino al punto
in cui la riversai senza respiro
sollevandola ritta per le spalle
e l'Ade immane ne rapì la vita.
Allora avevo in mente come trarre
il vello irsuto della fiera morta
via dalle carni, una fatica impervia,
poiché non mi riusciva di intaccarla
né col ferro, e neppure con le pietre,
né con altra materia. Ma mi venne
da parte di qualcuno dei celesti
l'idea di lacerare coi suoi artigli
la pelle del leone. E senza indugio
io la scuoiai con quelli e me l'avvalsi
intorno al corpo come protezione
dal mortale tumulto della guerra.
Fu dunque questa, amico, l'uccisione
della belva nemèa, grande flagello,
prima d'allora, per i greggi e gli uomini.