Biblioteca:Esiodo, Teogonia - 32 La guerra tra Cronidi e Titani

Dunque con Briareo, con Cotto, con Gia, primamente
arse di collera il padre, li strinse con saldi legami,
ché ne temea la grandezza, la forza stragrande, l'aspetto:
tutti li spinse sotto la terra dall'ampie contrade.
E stavano essi sotto la terra, fra doglie, fra crucci,
in un'estrema contrada, del mondo ai remoti confini,
da lungo, torturati, col lutto funesto nel cuore.
Ma poi, di Crono il figlio con gli altri Beati d'Olimpo
figli di Rea chiomabella, che a Crono si strinse d'amore,
per i consigli di Gea, di nuovo li addussero a luce.
Punto per punto quella predisse gli eventi futuri:
che avrebber la vittoria con quelli e la fulgida gloria.
Ché già da lungo tempo pugnavan, con pene, con doglie,
di fronte gli uni agli altri, nell'urto di pugne crudeli,
gli Dei Titani, e quanti Numi erano nati da Crono:
dalle scoscese vette dell'Otro i minaci Titani,
e dalle cime d'Olimpo i Numi datori di beni,
cui diede a luce Rea chiomabella, la sposa di Crono.
Di fronte gli uni agli altri, con animi gravi di bile,
stati eran senza posa, dieci anni continui in lotta;
né della dura contesa mai fine, mai termine c'era,
per questi o quelli: uguale volgea della guerra la sorte. -
Ora, quando ebbero ad essi profferta ogni cosa a dovere,
il nettare e l'ambrosia cui ciban gli stessi Celesti,
e a tutti divampò nel seno l'intrepido cuore,
tali parole disse degli uomini il padre e dei Numi:
«Datemi ascolto, o figli fulgenti d'Urano e di Gea,
sí ch'io vi dica quello che il cuore mi detta nel seno.
Da troppo tempo già combattendo noi stiam faccia a faccia
per il potere, per la vittoria, le intere giornate,
noi, quanti siamo nati da Crono, ed i Numi Titani.
Or voi l'immane vostro vigor, le invincibili mani,
contro i Titani, nella tenzone funesta mostrate,
grati alla nostra amicizia, per cui, dopo tanto cordoglio,
siete di nuovo alla luce tornati, dall'aspre catene,
dalla caligine fosca terrestre, pel nostro volere».
Disse cosí: rispose cosí l'impeccabile Cotto:
«Ignoto a noi non è quanto dici, o divino: sappiamo
da noi quanto sugli altri sovrasti di senno e di cuore,
ché tu dal crudo fato schermisci i Beati Immortali.
Ed or, cambiata sorte, di nuovo dai duri legami,
figlio di Crono, qui, contro ogni speranza venimmo.
Con inflessibile cuore, perciò, con sagace consiglio,
difenderemo il vostro poter nella guerra crudele,
pugnando coi Titani, nel duro furor delle pugne».
Disse; e assentirono i Numi datori di beni, all'udire
quelle parole; e assai piú di prima agognava la zuffa
il cuor d'ognuno; e tutti destaron la pugna crudele,
quel dí, femmine e maschi, Titani, e figliuoli di Crono,
e quei che Zeus aveva dall'Erebo tratti alla luce,
terribili, gagliardi, dotati d'immenso vigore:
ché cento mani ad essi balzavano fuor da le spalle,
similemente a tutti, sugli omeri a ognuno cinquanta
capi crescevano sopra le fulgide membra. E ai Titani
stettero a fronte a fronte, quel dí nella dura battaglia,
nelle massicce mani stringendo gran picchi di monti.
Dall'altra parte, i Titani solleciti empievan le schiere,
e gli uni e gli altri mostra facean della possa del braccio,
con gesta grandi. Echeggiò terribile il pelago immenso,
die' gran rimbombo la terra, squassato gemé l'ampio cielo,
dalle radici fu scrollato l'Olimpo infinito,
sotto la furia dei Numi, del Tartaro ai baratri oscuri
giunse l'orribile crollo, dei piedi l'acuto frastuono
e del tumulto, che mai non cessava, dei colpi gagliardi.
Cosí gli uni sugli altri lanciavano i colpi dogliosi;
e perveniano al cielo le grida di questi e di quelli,
e gli uni sopra gli altri piombavan con impeto grande.
E Zeus non frenò la sua furia, ma subito il cuore
a lui di negra bile fu colmo; e di tutta la forza
sua fece mostra: giú da l'Olimpo e dal cielo ad un tempo,
senza mai posa, lanciava baleni; ed i folgori a furia
con le saette insieme, coi tuon', dalle mani gagliarde
volavan fitti, il fuoco celeste agitavano in giro.
Arsa rombava intorno la Terra datrice di vita,
alto strideva, cinta del fuoco, la selva infinita;
la terra tutta quanta, d'Oceano il gorgo estuava,
l'inseminato Ponto: cingeva i terrestri Titani
caligine rovente, per l'ètra divino una fiamma
si diffondeva: per quanto gagliardi, le loro pupille
l'abbarbagliante guizzo dei lampi e dei folgori ardeva.
Avviluppava il Caos un incendio infinito: sembrava,
se le pupille a vedere, le orecchie ad udire porgevi,
come se, giú la Terra, su alto l'illimite Cielo
si mescolassero: tanto suonava tremendo il frastuono:
ché giú franava quella, ché il Cielo dall'alto crollava.
Tale frastuono sorgeva dall'urto guerresco dei Numi.
E scatenavano i venti tremuoto e polvere a nembi,
col tuono, coi baleni, col folgore fuligginoso,
dardi del sacro Zeus, portavano l'ululo e i gridi
in mezzo agli uni e agli altri: sorgeva clamore incessante
dalla terribile zuffa, parea della gesta l'orrore.
Da un lato infin piegò la pugna: ché prima alla pari
stavano gli uni e gli altri di fronte, nel cozzo gagliardo.
Ma tra le prime schiere destarono l'acre battaglia
Cotto con Briareo, con Gia non mai sazio di guerra,
che ben trecento massi lanciavan dai pugni gagliardi,
sempre via via piú fitti, copriano i Titani con l'ombra
dei colpi; e infine, sotto la Terra dall'ampie contrade
giú li cacciarono, stretti li avvinsero in dure catene -
ché li domaron col braccio, per quanto fortissimi - tanto
sotto la terra giú, quanto è il cielo lontan dalla terra,
che dalla terra è tanto lontano il Tartaro ombroso.
Ché nove dí, nove notti piombando, un'incude di bronzo
giú dalla Terra, sarebbe nel decimo al Tartaro giunta.
Tutto d'intorno un recinto di bronzo lo stringe; e la notte
con tre giri d'intorno s'effonde al suo collo: ivi sopra
son della Terra, del Mare che mèsse non dà, le radici.
Vivono immersi in questa caligine oscura i Titani,
nascosti, pel volere di Zeus che i nuvoli aduna,
in una squallida plaga, dov'ha l'ampia terra i confini.
Né uscita hanno di qui, ché porte di bronzo v'impose
Poseidone, e d'intorno vi gira una grande muraglia.
E quivi abita Gia, con Cotto, con Briareo
magnanimo, fedeli custodi, all'Egioco Zeus.