Letteratura:I vecchi di Ceo

SCHEDA
Poemiconviviali.jpg
Titolo orig.: -
Autore: Pascoli, Giovanni
Nazione: Italia
Sezione: Mitologia Greca
Anno: 1904
Tipo: Letteratura
Genere: Canti/Inni/Poesie
Subgenere: {{{subgenere}}}
Lingua orig.: Italiano
In Biblioteca: Si
Traduzione: -

I - I due atleti
Nella rocciosa Euxantide, sul monte
tra la splendida Iulide e l’antica
sacra Carthaia, cauto errava in cerca
non so se d’erbe contro un male insonne
o di fiori per florido banchetto,
Panthide atleta: atleta già, ma ora
medico, di salubri erbe ministro.
E coglieva, più certo, erbe salubri,
chè il capo bianco non chiedea più fiori.
Partito già da Iulide pietrosa
era su l’alba. Or l’affocava il sole;
sì che saliva al vertice del monte
folto di quercie cui nel mezzo è l’ara
del Dio che manda all’arsa Ceo le pioggie
tra un bombir lieto. E giunse tra le quercie
sul ventilato vertice. E gli occorse
uno ascendente per la balza opposta.
E riconobbe un vecchio ospite, atleta
anch’esso: Lachon, che vedeasi in casa
molte corone, il secco appio dell’Istmo,
il Nemèo verde, non ormai già verde,
e l’alloro e l’olivo: altri germogli
no; non di cari figli altra corona.
Ché solo egli era. E per la via selvaggia
coglieva anch’esso erbe salubri o fiori,
per morbo insonne o florido convito:
ma, più certo, salubri erbe, ché un cespo
svelgendo allora da un sassoso poggio,
le vecchie rughe egli facea più tante.

Ora gli stette agli omeri Panthide,
non anco visto, immobile, col fascio
dei lunghi steli dietro il dorso; e l’altro
sentì che un’ombra gli pungea la nuca;
e si voltò celando la mannella
della sua messe. Ma con un sorriso
a lui mostrò la sua Panthide, e disse:
«Oh!» disse «vedo. Non è crespo aneto,
Lachon, per un convito; non è mirto;
né cumino né molle appio palustre...»
Erano cauli con, nel gambo, rosse
chiazze e con bianchi fiorellini, in cima.
E Lachon interruppe: «Ospite, il Tempo,
che viene scalzo, all’uno e all’altro è giunto,
della cicuta; come è patria legge:
— chi non può bene, male in ceo non viva — »
Disse Panthide: «Ricordiamo il detto
dell’usignolo che di miele ha il canto,
dell’isolana ape canora: Il cielo
alto non si corrompe, non marcisce
l’acqua del mare... L’uomo oltre passare
non può vecchiezza e ritrovare il fiore
di gioventù. «Noi ritroviamo il fiore
della cicuta!» con un riso amaro
Lachon riprese, e poi soggiunse: «Un fascio
coglierne, tutto in un sol dì, per vecchi,
ospite, è grave. Oh! non ha senno l’uomo!
Sin dalla lieta gioventù va colto,
un gambo al giorno, il fiore della morte!»


II - L’inno eterno
E sederono all’ombra d’una quercia
l’un presso l’altro. Sotto la lor vista
tra bei colli vitati era una valle
già bionda di maturo orzo; e le donne
mietean cantando, e risonava al canto
l’aspro citareggiar delle cicale
su per le vigne solatìe dei colli.
E nella pura cavità del cielo,
di qua di là si rispondean due voci
parlando di lor genti che lontane
tenea Corinto dove è un tempio dove
sono fanciulle ch’hanno ospiti tanti...
E nel mezzo alla valle era Carthaia
simile a bianco gregge addormentato
da quell’uguale canto di cicale.
Il mare in fondo, qualche vela in mare,
come in un campo cerulo di lino
un portentoso biancheggiar di gigli.
Tra mare e cielo, sopra un’erta roccia,
la Scuola era del coro; era, di marmo
candido, la ronzante arnia degl’inni.
Ivi le frigie tibie, ivi le cetre
doriche insieme confondean la voce
simile ad un gorgheggio alto d’uccelli
tra l’infinito murmure del bosco.
Ivi sonava, dolce al cuor, la lode
del giovinetto corridore e il vanto
del lottatore; e per sue cento strade
l’inno cercava le memorie antiche,
volava in cielo, si tuffava in mare,
incontrava sotterra ombre di morti,
tornando, ebbro di gioia ebbro di pianto,
con due fogliuzze a coronar l’atleta.

Era lontano, e non vedean che il bianco
dei marmi al sole, i due pensosi vecchi.
Eppur di là l’alterna eco d’un inno
giungeva al cuore, o forse era nel cuore.
Da destra il giorno si movea col sole,
portando il canto e l’opere di vita,
verso sinistra, al mesto occaso, donde
co’ suoi pianeti si volgea la notte
tornando all’alba e conducendo i sogni,
echi e fantasmi d’opere canore.
Fluiva il giorno, rifluìa la notte.
Sotto il giorno e la notte, e la vicenda
di luce e d’ombra, di speranza e sogno,
stava la terra immobile. Ma il coro
era più rapido. Arrivava un’onda
dal mare, un’altra ritornava al mare.
Era la vita. Dopo il moto alterno
d’un’onda sola che salìa cantando
scendea scrosciando, mormorava il mare
immobilmente. E molte vite in fila
salìan dal mare riscendean nel mare:
quindi l’eterno. E dall’eterno altre onde:
i figli. Altre onde dall’eterno: i figli
dei figli. E onde e onde, e onde e onde...


III - Efimeri
Disse Panthide: «Ospite, ho cinque figli
molto lodati, come sai: Zelòto
il primo: Argeo, buono alla lotta, eppure
fiorito appena di peluria il labbro,
l’ultimo: è questi ora su l’Istmo, ai giochi.
Lachon, ascolta. Ieri udii, su l’alba,
un grido in casa, un fievole vagito
che mi chiamava al talamo del figlio
più grande. Andai. Vidi una luce: un uomo
novo fiammante! E con le sue manine
egli annaspava come a dire — O vedi
ch’io l’ho pur qui la lampada di vita
accesa a quella ch’alla tua s’accese!
Più non è danno se la tua si spenge:
Son io Panthide. Puoi partire, o nonno! —
Parlato ch’ebbe, egli movea le labbra
come assetato... E io dovrei tutt’ora
tener le labbra al pispino del fonte,
vietando io vecchio al mio novello il bere?
gli dovrei forse intorbidar la polla?
Io parto. E, come io sono lui, non muoio».
E Lachon disse: «Oh! io vorrei che un poco
la piccoletta fiaccola negli occhi
miei balenasse! Oh! io vorrei per poco
con la mia mano ripararle il vento!
vorrei, seduto per qualche anno al fonte
di vita, senza berne più che un sorso,
vorrei vedere quella rosea bocca
arrotondarsi sul bocciuol materno!
Ospite, io credo, più di me tu muori».

Tacquero intenti a udirsi, dentro, l’inno
del lor respiro, onda che viene e onda
che va, seguite da un pensiero immoto.
Le mietitrici avean ripreso il canto
tra l’orzo biondo, e risonava al canto
l’aspro citareggiar delle cicale.
E disse Lachon: «Troppo bella, o sacra
isola Ceo! Chi nacque in te, che volle
morire altrove? Ma sei poca a tanti!»
A cui Panthide: «Poca sì... ma Delo
appena morti i figli suoi bandisce.
Partono i morti dalla sacra Delo
sopra la nave nera, esuli, e vanno
mirabilmente pallidi, sul mare,
alla Rhenèa dove non son che morti;
e sole capre e pecore selvaggie
belano errando sopra il lor sepolcro.»
Lachon pensava e su la palma il capo
reggea dubbioso. «Io mi ricordo» ei disse
«un inno udito, ora è molt’anni, in Delfi,
lungo l’Alfeo: Siamo d’un dì! Che, uno?
che, niuno? Sogno d’ombra, l’uomo!»
L’ombra di lui teneva su la palma il capo:
pensava, a piè dell’albero; e vicine
stridere udiva l’ombre delle foglie.


IV - L’inno antico
Poi raccolti i lor fasci di cicute
sorsero entrambi, e dissero: Va sano!...
Va sano!... E ritornavano cogliendo
ancor pei greppi i fiori della morte.
Esalava il canùciolo e il serpillo
odor di cera e dolce odor di miele.
Ronzavano api e scarabei de’ fiori.
E Lachon giunse al prònao d’Apollo,
alla Scuola del coro. Era già sera,
una sera odorosa; ed il suo nome
udì gridare a voci di fanciulli.
Eran fanciulli che, in lor giochi, un inno
volean cantare a mo’ dei grandi, un inno
vecchio, che ognuno aveva, in Ceo, nel cuore.
Presto un impube corifeo la schiera
ebbe ordinata, e già da destra il coro
movea cantando per la via del sole,
verso la sera, con gridìo d’uccelli.

Pubertà,
fonte segreto che spiccia
senza un tremito e un gorgoglio,
ma che di tenero musco
veste insensibilmente lo scoglio:
a te dia Lachon l’erba del leone,
l’appio verde del bosco Nemèo.

Conobbe l’inno, il primo inno cantato
a lui quand’era il suo destino in boccia
tuttora, quanti anni passati? Tanti!
E da sinistra volsero i fanciulli,
come i notturni aurei pianeti, a destra.

Nulla sta!
Tutto nel mondo si muove,
corre, o giovinetto atleta,
come nell’inclito stadio
tu col piede di vento alla meta:
di che la prima delle tue corone
tu riporti all’Euxantide Ceo.

I fanciulli si volsero con gli occhi
al cielo e al mare, fermi su la terra
sacra, alzando le acute esili voci.

Ora è ora d’amare.
L’appio verde vuoi sol tu?
Corrano, un tempo, le gare,
dove Lachon non sia più,
giovani ch’ansino e rapidi sbuffino l’anima
tua, la tua, lungo l’Alfeo!

E nel cospetto dei fanciulli apparve
Lachon il vecchio con le sue cicute,
e intorno al vecchio corsero i fanciulli
gridando: «A noi, perché ci sia ghirlanda!
l’appio a noi! l’appio verde! l’appio verde!»


V - L’inno nuovo
E Panthide a quell’ora era pur giunto
sotto l’aerea Iulide natale.
E vide in mare una bireme, e vide
che ammainando entrava già nel porto.
E dall’aerea Iulide e dal grande
leon di pietra accovacciato in vetta,
il popolo scendea lungo l’Elixo,
scendea dall’alto in lunga fila al mare.
Veniano primi i giovinetti a corsa,
dando alla brezza i riccioli del capo;
poi le donne altocinte, ultimi i vecchi,
spartendo tra due passi una parola.
Poi che giungea dall’Istmo, la bireme,
portando alfine i buoni atleti a casa,
e quante niuno ancor sapea, ghirlande.
E trasse al lido anche Panthide, in seno
celando il fascio delle sue cicute.
Stava in disparte. Ed ecco dalla nave
scese una schiera di settanta capi
bruni, tutti fioriti di corimbi,
e su la spiaggia stettero. Un chiomato
citaredo sedé sopra un pilastro,
e presso lui gli auleti con le lunghe
tibie alla bocca. E il mare eterno, il mare
alterno, a spiaggia sospingea l’ondate,
le ricogliea, così tra il canto e il pianto.

Stridè la tibia, tintinnì la cetra,
e il coro alzò tra il sussurrìo del mare
un inno di Bacchylide. In disparte
era Panthide, e il vecchio cuor batteva
contro la manna delle sue cicute.
L’onda ascendeva, discendeva l’onda;
e il coro andò, poi ritornò sul lido.

O sacra Ceo!
mosse ver te la fulgida
Fama che in alto spazia,
a te recando un messo
pieno di grazia,
che nella lotta il pregio
fu del valido Argeo;

e noi la grande
gloria, sull’istmio vertice,
venuti dall’Euxanti-
d’isola dia, facemmo
chiara coi canti
nostri, noi coro adorno
di settanta ghirlande:

ed or la musa indigena
suscita il dolce strepito
di tibie lyde
per onorar d’un inno
il tuo figlio, o Panthide!

Udì Panthide, e il cuor batté più forte
contro la manna delle sue cicute.
Ora poteva sciogliere la vita
felicemente, come alcuno un fascio
d’erbe e di fiori che nel giorno colse,
sfa, su la sera, che ne fa ghirlanda,
tornato a casa. Ché dei cinque figli
niuno lasciava senza lode in terra.
Gli avea ben fatto il Sole, e dalle Grazie
avea sortito ciò che all’uomo è meglio.
Ammirato dagli uomini mortali
tornava a casa, per pestare, il saggio
medico, l’erbe nel mortaio di bronzo.
E la notte era dolce, aurea; tranquillo
era il suo cuore. Ché il Panthide nuovo
s’era acquetato sul materno petto,
e il forte Argeo, stanco di mare e gioia,
dormiva, già sognando altre corone.
Buona, la sorte! buona! Ché concesso
non gli era mica di salire al cielo!