Heroides

Versione del 3 giu 2012 alle 13:27 di Ilcrepuscolo (discussione | contributi) (1. Penelope ad Ulisse)

Opera di Ovidio, è una raccolta di lettere di donne abbandonate dai loro amanti o mariti, per tradimenti o cause esterne, e lettere di seduzione maschile (Paride, Aconzio), ma anche femminile (Fedra verso Ippolito). Sono storie d’amore che traggono spunto dall’epica (Penelope, Didone, Elena, ecc.) o dalla tragedia (Fedra, Medea), che Ovidio trascodifica nell’elegia: un nuovo filone dell’elegia d’amore latina, inventato da Ovidio (come lui stesso vanta).

Il testo

1. Penelope ad Ulisse

Questa lettera te la invia la tua Penelope, o Ulisse che indugi a tornare. Ma non rispondermi, vieni di persona! Troia, odiata dalle donne greche, di certo è abbattuta; Priamo e Troia tutta a malapena valevano tanto! Oh se allora, quando con la nave si dirigeva verso Lacedemone, l'adultero fosse stato sommerso dal furore delle acque! Io non sarei rimasta nel gelo di un letto vuoto e, abbandonata, non mi sarei lamentata dell'interminabile trascorrere dei giorni, né, mentre cercavo di ingannare il grande spazio della notte, la tela ricadente avrebbe stancato le mie mani, prive di te. Quando non ebbi a temere pericoli più spaventosi di quelli reali? L'amore è un sentimento permeato di paure angosciose.
Immaginavo i Troiani che stavano per scagliarsi con violenza contro di te; all'udire il nome di Ettore impallidivo sempre; se qualcuno raccontava che Antiloco era stato vinto da Ettore, era Antiloco la causa della mia paura; se si raccontava che il figlio di Menezio era caduto mentre indossava armi non sue, lamentavo che gli inganni potessero non avere buon esito. Con il suo sangue Tlepolemo aveva intiepidito l'asta licia: la mia angoscia fu rinnovata dalla morte di Tlepolemo. Alla fine, chiunque venisse sgozzato in campo Acheo, il mio cuore di innamorata diventava più freddo del ghiaccio. Ma un dio di giustizia venne in aiuto al mio casto amore: Troia è ridotta in cenere, mio marito è salvo. I capi argolici sono ritornati, gli altari fumano, il bottino dei barbari viene offerto agli dèi dei nostri padri; le giovani spose portano doni di ringraziamento per la salvezza dei mariti, ed essi cantano i destini di Troia, vinti dai loro destini. I vecchi saggi e le fanciulle trepidanti sono in ammirazione, la sposa pende dalle labbra del marito che racconta. E qualcuno, sulla tavola apparecchiata, illustra gli aspri combattimenti e dipinge con una piccola quantità di vino Pergamo tutta: "Di qua scorreva il Simoenta, questa è la zona del Sigeo, qui si ergeva, una volta, la superba reggia del vecchio Priamo; là era attendato il figlio di Eaco, là Ulisse, qui il cadavere straziato di Ettore atterrì i cavalli lanciati nella corsa". Il vecchio Nestore, infatti, aveva riferito ogni cosa a tuo figlio, inviato a cercarti e lui a me. Mi raccontò di Reso e di Dolone, massacrati col ferro, e come uno fosse stato colto nel sonno, l'altro con l'inganno. Hai avuto il coraggio, troppo, troppo dimentico dei tuoi, di entrare nell'accampamento dei Traci con un agguato notturno e, di trucidare con l'aiuto di un solo compagno tanti guerrieri. Eri davvero prudente e ti preoccupavi anzitutto di me! Per la paura il cuore mi palpitava di continuo finché si seppe che, vittorioso, avevi attraversato il campo alleato sui destrieri traci. Ma che giova a me che Ilio sia stata distrutta dalle vostre braccia e che sia nuda terra quello che prima era muro, se resto nella stessa condizione di quando Troia era ancora in piedi e se devo sentire la mancanza dello sposo, che è sempre assente?
Distrutta per gli altri, per me sola resti ancora in piedi, Pergamo che, il colono vincitore ara con i buoi catturati. Dove una volta sorgeva Troia, ora c'è il grano e il terreno da mietere con la falce è in pieno rigoglio, reso fecondo dal sangue troiano; le ossa affioranti dei guerrieri sono colpite dalle lame ricurve degli aratri, l'erba ricopre le rovine delle case. Tu, che pure sei vincitore, te ne stai lontano e non mi è dato sapere quale sia la causa del ritardo o in quale parte del mondo tu, crudele, te ne stia nascosto. Chiunque diriga la sua nave straniera a questi lidi, riparte solo dopo che l'ho interrogato a lungo su di te e gli viene affidata una lettera scritta di mio pugno per consegnartela, se mai ti vedesse in qualche luogo. Ho mandato a Pilo, terra del vecchio Nestore, figlio di Neleo: da Pilo mi sono tornate notizie incerte. Ho mandato anche a Sparta, anche Sparta non sa nulla di vero. In quali terre vivi, o dove indugi lontano? Sarebbe meglio che fossero ancora in piedi le mura di Febo - mi adiro, ahimè, incoerente, contro i miei stessi desideri! -: saprei dove combatti e avrei timore solo della guerra ed il mio lamento si unirebbe a molti altri. Non so di cosa ho paura, ma, da insensata, ho paura di tutto e vasto spazio si offre alle mie angosce. Qualunque pericolo del mare e della terra sospetto che sia la causa di un ritardo così prolungato. Mentre sono in preda a sciocchi timori, tu puoi essere preso dall'amore per una straniera - tale è l'indole vogliosa di voi uomini! Forse le racconti anche quanto è zotica tua moglie, buona soltanto a cardare la lana. Possa io ingannarmi e questo sospetto svanisca nell'aria leggera, e non avvenga che tu, libero di tornare, voglia restare lontano! Il padre Icario mi spinge ad abbandonare il letto vuoto e continua a rimproverare la mia interminabile attesa. Continui pure a rimproverare! Sono tua, devo essere considerata tua: io, Penelope, sarò sempre la sposa di Ulisse. Ma alla fine mio padre si lascia commuovere dalla mia devozione e dalle mie caste preghiere e modera le sue pressioni. I pretendenti di Dulichio, di Samo e quelli nati nella rocciosa Zacinto mi assalgono, moltitudine dissoluta, e fanno da padroni nella tua reggia, senza che nessuno gli si opponga: nostro figlio, i tuoi beni si divorano! Perché raccontarti di Pisandro, di Polibo e del crudele Medonte, delle mani rapaci di Eurimaco e Antinoo e di tutti gli altri che tu stesso, con la tua vergognosa assenza, alimenti con i beni che hai conquistato col sangue? Iro, il mendicante e Melanto che guida il gregge destinato ai banchetti, sono l'onta suprema che si aggiunge alla tua rovina. Siamo tre di numero, indifesi: una donna senza forze, un vecchio, Laerte, un ragazzo, Telemaco. Quest'ultimo, di recente, per poco non mi è stato strappato con un tranello, mentre si preparava a recarsi a Pilo, contro il volere di tutti. Vogliano gli dèi, li imploro, che secondo il corso naturale del destino, sia lui a chiudere i miei occhi, sia lui a chiudere i tuoi! Sono con noi il custode delle mandrie, l'anziana nutrice, e come terzo il fedele guardiano dell'immondo porcile. Ma Laerte, inabile alle armi, non può mantenere il regno in mezzo ai nemici - giungerà per Telemaco, purché sopravviva, un'età più vigorosa: ora la sua giovinezza doveva essere protetta dall'aiuto del padre - e io non posseggo le forze per scacciare i nemici dalla reggia; vieni tu, al più presto, porto e rifugio per i tuoi! Tu hai, e prego che tu possa continuare ad avere, un figlio che doveva essere istruito in tenera età nelle conoscenze paterne. Pensa a Laerte: egli prolunga l'ultimo giorno destinato alla sua vita, perché tu possa finalmente chiudere i suoi occhi. Io, che alla tua partenza ero una giovane donna, per quanto presto tu possa tornare, di certo ti sembrerò diventata una vecchia.

2. Fillide a Demofoonte

Io, la tua Fillide nata nella terra del Rodope, io che ti accolsi, o Demofoonte, lamento che tu stia lontano più del tempo avevi promesso. Avevi convenuto di tornare a gettare le ancore alle mie sponde quando le corna della luna si fossero riunite una prima volta a formare il disco completo. Per quattro volte la luna si è nascosta e per quattro volte ha completato nuovamente il suo disco, ma l'onda sitonia non porta con sé navi attiche. Se fai con precisione conto del tempo, che noi innamorati sappiamo calcolare bene, il mio lamento non giunge troppo presto. Anche la speranza è stata tarda a lasciarmi; non ci affrettiamo a credere alle cose che, se credute, ci procurano dolore; ma ora mi fanno male perché mio malgrado le credo, e continuo ad amarti. Spesso ho ingannato me stessa a tuo favore, spesso ho creduto che i venti tempestosi respingessero le tue bianche vele. Ho maledetto Teseo, perché non voleva lasciarti partire, ma forse non fu lui a ritardare il tuo viaggio. Talvolta ho temuto che mentre ti dirigevi verso le acque dell'Ebro, la tua nave naufragasse, sommersa dai flutti spumeggianti. Spesso con preghiere e sacrifici fumanti d'incenso ho supplicato gli dèi che tu, scellerato, fossi salvo. Spesso vedendo i venti favorevoli in cielo e sul mare mi sono detta: "Se sta bene, ritorna". Insomma il mio amore fedele ha immaginato qualunque ostacolo si può opporre a chi si affretta, e fui abile ad escogitare pretesti. Ma tu ti attardi lontano, non ti riportano indietro i giuramenti fatti sugli dèi e il nostro amore non ti sprona a tornare. Demofoonte, tu hai sciolto ai venti le vele e le tue promesse: lamento che le vele non abbiano ritorno e le parole sincerità. Dimmi, che cosa ho fatto se non amarti dissennatamente? Con la mia colpa, avrei potuto guadagnarmi la tua benevolenza? Mi si può accusare di un solo misfatto, di averti accolto, malvagio, ma questo misfatto ha assunto il peso ed il valore di un merito. Dove sono adesso i giuramenti, la fedeltà e la destra unita alla destra e quel dio più volte invocato dalla tua bocca menzognera? Dov'è ora Imeneo, promesso per gli anni di vita comune, che era per me garanzia e pegno di matrimonio? Mi hai giurato sul mare sconvolto dai venti e dalle onde, che spesso hai attraversato e che avevi l'intenzione di attraversare ancora, e su tuo nonno, se anch'egli non è frutto di invenzione, che placa le acque sconvolte dai venti, e su Venere e sulle armi anche troppo efficaci su di me, l'arma dell'arco e l'arma delle torce, e su Giunone che benigna protegge i talami nuziali e sui sacri misteri della dea che porta la fiaccola. Se di tanti che hai offeso, ciascun dio vendicasse la sua maestà oltraggiata, tu da solo non basterai per i loro castighi. E dire che io, folle, ho riparato le navi squarciate, affinché fosse solido lo scafo col quale tu potessi abbandonarmi e ti ho dato remi perché ti allontanassi, pronto a fuggire. Ahimè, soffro per le ferite inferte dalle mie stesse armi. Ho creduto alle tue parole carezzevoli, delle quali sei prodigo; ho creduto alla tua stirpe e ai tuoi avi illustri; ho creduto alle lacrime, o anche a queste si insegna a fingere? Anch'esse conoscono gli artifici e sgorgano a comando? Ho creduto anche agli dèi.
Perché tante garanzie per me? Una qualsiasi parte di esse sarebbe stata sufficiente a conquistarmi. E non rimpiango di averti aiutato concedendoti approdo e rifugio: ma questo avrebbe dovuto essere il limite massimo della mia generosità. Mi pento di aver aggiunto alla mia ospitalità il letto coniugale, coprendomi di vergogna, e di aver unito il mio fianco al tuo. Preferirei che la notte precedente a quella fosse stata l'ultima per me, quando io, Fillide, potevo morire ancora onorata. Ho sperato in meglio, perché credevo di averlo meritato: è legittima ogni speranza che deriva dal merito. Non è gloria conseguita faticosamente ingannare una fanciulla fiduciosa: la mia ingenuità avrebbe meritato riguardo. Sono stata ingannata dalle tue parole e come donna e come amante: concedano gli dèi che questo sia il tuo merito più alto! Ti si innalzi una statua nel centro della città, fra i discendenti di Egeo e ti stia dinanzi tuo padre, celebrato da iscrizioni onorifiche. E dopo aver letto di Scirone e del bieco Procuste e di Sini e dell'essere dalle fattezze di toro e insieme di uomo e di Tebe sottomessa in guerra e della sconfitta dei centauri bimembri e della violazione della cupa reggia del re delle tenebre, la tua statua, collocata dopo quelle con tante scritte sia contrassegnata da questo attestato d'onore: "Questi è colui che sedusse con l'inganno la donna che lo amava e che lo aveva ospitato". Delle tante imprese e gesta di tuo padre, solo l'abbandono della fanciulla cretese si è impresso nella tua mente; ammiri in lui quell'unico fatto, l'unico di cui dovrebbe scusarsi: tu ti comporti come erede dell'inganno di tuo padre, o traditore. Ma lei - non la invidio - gode di un marito migliore e siede in alto sul carro trainato dalle tigri aggiogate. Invece i Traci, che ho disdegnato, rifuggono dal matrimonio con me, perché si dice che ho anteposto uno straniero ai miei compatrioti. E qualcuno dice: "Se ne vada ormai alla dotta Atene; ci sarà un altro a governare la Tracia bellicosa: il risultato riconosce la validità delle azioni". Mi auguro che non abbia successo chiunque ritenga che le azioni vadano giudicate dal loro risultato. Ma se il mio mare spumeggiasse sotto i colpi dei tuoi remi, allora solo si dirà che ho provveduto bene a me e ai miei. Ma io non ho provveduto bene e tu non ti darai pensiero della mia reggia e non laverai le stanche membra nell'acqua bistonia. Mi rimane fissa negli occhi l'immagine della tua partenza, quando la flotta, pronta a salpare, era assiepata nel mio porto.
Osasti abbracciarmi e, abbandonato sul collo di chi ti amava, unire strettamente a lungo le nostre bocche nei baci e confondere le mie lacrime con le tue e rammaricarti perché la brezza era favorevole alle vele e, sul punto di partire, dirmi con le tue ultime parole: "Fillide, ti raccomando, aspetta il tuo Demofoonte!". Dovrei aspettare te, che sei partito per mai più rivedermi? Dovrei aspettare delle vele alle quali è interdetto il mio mare? E tuttavia aspetto. Torna, anche se tardi, da chi ti ama, fa' in modo che la tua promessa sia stata solo rinviata nel tempo. Ma che cosa mi auguro, sventurata? Ormai forse ti trattiene un'altra sposa e Amore che ci è stato avverso. Da quando la mia immagine ti è sfuggita dalla mente, tu non conosci più, credo, nessuna Fillide, se chiedi, ahimè, chi sia Fillide e da dove venga! Sono quella che offrì un porto in Tracia e ospitalità a te, Demofoonte, provato dal lungo errare; io che ho accresciuto i tuoi beni con i miei e che da ricca offrii molti doni a te nel bisogno, e molti te ne avrei ancora dati; sono colei che mise ai tuoi piedi l'immenso regno di Licurgo, poco adatto ad essere governato da una donna, dove il Rodope coperto di ghiacci si estende fino all'Emo ombroso e il sacro Ebro riversa nel mare le sue acque che scorrono impetuose; a te sacrificai sotto funesti presagi la mia verginità e la casta cintura fu sciolta dalla tua mano infida. Tisifone presiedette alle nozze e fece risuonare il suo ululato in quel talamo, e un uccello solitario intonò un lugubre canto; era presente Alletto, con il collo cinto di piccoli serpenti, e una torcia funebre spandeva la sua luce. In pena mi aggiro tra gli scogli e gli arbusti della marina e, sia che la terra si schiuda al calore del giorno, sia che brillino le gelide stelle, spingo innanzi il mio sguardo, là dove si apre alla mia vista l'ampia distesa del mare, per veder quale vento muova le onde. E ogni vela che vedo avvicinarsi da lontano, subito mi auguro che siano i miei dei. Vado di corsa verso il mare, trattenuta a stento dalle onde, là dove il mare frangendosi protende le sue acque, e quanto più le vele si avvicinano, tanto meno sono padrona di me, mi sento mancare e cado fra le braccia delle mie ancelle, pronte a sorreggermi. C'è un'insenatura che si incurva leggermente come un arco teso, alle sue estreme propaggini si ergono rocce scoscese. Ho avuto il pensiero di gettarmi nelle acque sottostanti, e, poiché continui ad ingannarmi, così sarà. Le onde sospingano il mio cadavere ai tuoi lidi e il mio corpo si presenti insepolto al tuo sguardo! Anche se superi in durezza il ferro, l'acciaio e te stesso, dirai: "Non in questo modo, Fillide, dovevi seguirmi!". Spesso ho sete di veleni, spesso vorrei finire la mia vita con una morte sanguinosa, trapassata da una spada; vorrei anche stringermi un laccio attorno al collo, perché si è offerto alla stretta delle tue braccia infide. Ho deciso di riscattare il mio pudore giovanile, con una morte opportuna. Indugerò ben poco nella scelta della morte. Tu sarai indicato sulla mia tomba come l'odioso responsabile e sarai ricordato per questo epitaffio o per uno simile: "Demofoonte causò la morte di Fillide, lui, suo ospite, fece morire lei che lo amava; egli fornì la causa della morte, lei la mano".