Modifica di Biblioteca:Seneca, Fedra

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Avanti, circondate quel bosco fitto e quella vetta, [[Ateniesi]]! Perlustrate a passo veloce, sparpagliandovi, le terre sotto il petroso Parnete e quelle investite dal fiume che si affretta alle valli di Tria. Arrampicatevi su quei monti sempre bianchi di neve come le vette della [[Scizia]]. Di là, voi, in quell'alta foresta che s'infoltisce di ontani, di là voialtri, verso quei prati che [[Zefiro (1)|Zefiro]], suscitando morbide erbe, carezza d'un soffio rugiadoso. E voi di là, dove, tra campi sparuti, come fa il [[Meandro]], pigro scorre l'esile [[Ilisso]] che sfiora sterili arene col suo flutto avaro. E Voi per di là, a sinistra, sul sentiero dove [[Maratona]] apre i suoi anfratti: là le femmine sgravate, coi loro piccoli, cercano pascoli notturni. E voi laggiù, dove il duro [[Acarneo]], ai tepidi venti, tempera i suoi rigori. Qualcuno scali l'[[Imetto]] ricco di miele, batta un altro la piccola [[Afidna]]. Ma c'è una terra che non tocchiamo da tempo: il Sunio sovrasta il suo golfo. C'è un cacciatore in cerca di gloria? File lo attende. Là scorrazza, flagello dei contadini, un cinghiale già famoso per le sue ferite. Allentate il guinzaglio, voi, ai cani silenziosi. Teneteli stretti, quei furiosi molossi. Lasciate che tendano il collare quegli ardenti cretesi dal pelo logoro sul collo. Gli spartani (è una razza ardita, sente il sangue) teneteli più forte, e vicini. Quando sarà il momento, faranno risuonare di latrati le cavità delle rocce; adesso buoni, a fiutar l'aria con le narici sagaci, a cercar le tane a muso basso, mentre la luce è ancora incerta e la terra bagnata conserva le impronte. Si affretti, qualcuno, a caricarsi sulle spalle robuste le reti a maglia larga, un altro i lacci ritorti. Lo spauracchio di penne rosse farà cadere in trappola le belve col suo vano terrore. Tu scaglierai il giavellotto, tu punterai a due mani lo spiedo di ferro pesante, tu starai in agguato e metterai in fuga, con le tue grida, le fiere. Tu, vittorioso, strapperai le viscere; alla preda col tuo coltello ricurvo. [[Artemide|Diana]], divina cacciatrice, sii propizia al tuo fedele, tu che regni sui segreti recessi della terra e raggiungi con infallibili colpi, le belve, sì, quelle che si dissetano al gelido Arasse, quelle che giocano sul ghiaccio del Danubio. Leoni di Getulia, cerve di [[Creta (1)|Creta]], l'insegue la tua mano che trafigge, più leggera, le agili gazzelle. Il ventre le tigri striate, il dorso ti offrono i bisonti villosi e gli uri selvaggi dalle lunghe corna. Il tuo arco, [[Artemide|Diana]], lo teme ogni animale che pascola in terre deserte, lo nascondano i gioghi selvaggi di Pirene o le gole selvagge dell'Ircania, lo conosca il povero Africano o l'Arabo ricco dei suoi boschi o il Sarmata nomade per lande sterminate. Non mollano la preda, le reti, non strappa i lacci il piede delle belve se tu, divina, assisti i tuoi devoti, ma geme sotto la preda il carro, drizzano il muso insanguinato i cani ed è un lungo trionfo il ritorno del rustico corteo. Sì, tu sei propizia, divina. Ecco, i cani lanciano il segnale, acutamente. La foresta mi chiama. Presto, di qui, per questa scorciatoia.
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Avanti, circondate quel bosco fitto e quella vetta, [[Ateniesi]]! Perlustrate a passo veloce, sparpagliandovi, le terre sotto il petroso Parnete e quelle investite dal fiume che si affretta alle valli di Tria. Arrampicatevi su quei monti sempre bianchi di neve come le vette della [[Scizia]]. Di là, voi, in quell'alta foresta che s'infoltisce di ontani, di là voialtri, verso quei prati che [[Zefiro (1)|Zefiro]], suscitando morbide erbe, carezza d'un soffio rugiadoso. E voi di là, dove, tra campi sparuti, come fa il [[Meandro]], pigro scorre l'esile [[Ilisso]] che sfiora sterili arene col suo flutto avaro. E Voi per di là, a sinistra, sul sentiero dove [[Maratona]] apre i suoi anfratti: là le femmine sgravate, coi loro piccoli, cercano pascoli notturni. E voi laggiù, dove il duro Acarneo, ai tepidi venti, tempera i suoi rigori. Qualcuno scali l'Imetto ricco di miele, batta un altro la piccola [[Afidna]]. Ma c'è una terra che non tocchiamo da tempo: il Sunio sovrasta il suo golfo. C'è un cacciatore in cerca di gloria? File lo attende. Là scorrazza, flagello dei contadini, un cinghiale già famoso per le sue ferite. Allentate il guinzaglio, voi, ai cani silenziosi. Teneteli stretti, quei furiosi molossi. Lasciate che tendano il collare quegli ardenti cretesi dal pelo logoro sul collo. Gli spartani (è una razza ardita, sente il sangue) teneteli più forte, e vicini. Quando sarà il momento, faranno risuonare di latrati le cavità delle rocce; adesso buoni, a fiutar l'aria con le narici sagaci, a cercar le tane a muso basso, mentre la luce è ancora incerta e la terra bagnata conserva le impronte. Si affretti, qualcuno, a caricarsi sulle spalle robuste le reti a maglia larga, un altro i lacci ritorti. Lo spauracchio di penne rosse farà cadere in trappola le belve col suo vano terrore. Tu scaglierai il giavellotto, tu punterai a due mani lo spiedo di ferro pesante, tu starai in agguato e metterai in fuga, con le tue grida, le fiere. Tu, vittorioso, strapperai le viscere; alla preda col tuo coltello ricurvo. [[Artemide|Diana]], divina cacciatrice, sii propizia al tuo fedele, tu che regni sui segreti recessi della terra e raggiungi con infallibili colpi, le belve, sì, quelle che si dissetano al gelido Arasse, quelle che giocano sul ghiaccio del Danubio. Leoni di Getulia, cerve di [[Creta (1)|Creta]], l'insegue la tua mano che trafigge, più leggera, le agili gazzelle. Il ventre le tigri striate, il dorso ti offrono i bisonti villosi e gli uri selvaggi dalle lunghe corna. Il tuo arco, [[Artemide|Diana]], lo teme ogni animale che pascola in terre deserte, lo nascondano i gioghi selvaggi di Pirene o le gole selvagge dell'Ircania, lo conosca il povero Africano o l'Arabo ricco dei suoi boschi o il Sarmata nomade per lande sterminate. Non mollano la preda, le reti, non strappa i lacci il piede delle belve se tu, divina, assisti i tuoi devoti, ma geme sotto la preda il carro, drizzano il muso insanguinato i cani ed è un lungo trionfo il ritorno del rustico corteo. Sì, tu sei propizia, divina. Ecco, i cani lanciano il segnale, acutamente. La foresta mi chiama. Presto, di qui, per questa scorciatoia.
  
 
([[Fedra]], nutrice)
 
([[Fedra]], nutrice)
  
 
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O grande [[Creta (1)|Creta]], dominatrice del mare, che tieni di riva in riva con le tue navi innumeri, che solchi ovunque si apra ai rostri, sino all'[[Assiria]], perché mi hai data in ostaggio a un focolare odioso? Perché mi hai sposata ad un nemico? Perché mi costringi ad una vita di dolori e lacrime? Ecco, il mio sposo è lontano. Sì, [[Teseo]] offre alla moglie la sua consueta fedeltà. Lui, il grande soldato, s'inoltra nelle tenebre profonde della palude da cui non si ritorna, in aiuto di quel temerario che vuol rapire la sposa del re degli Inferi. Complice di una passione sfrenata, va [[Teseo]], va sempre avanti, non lo ferma timore o vergogna. Stupri e adulteri, il padre di [[Ippolito (2)|Ippolito]] li cerca sin laggiù nell'[[Acheronte]]. Povera me! Un altro dolore, più grande, mi perseguita. Né pace notturna né sonno pesante mi liberano dall'angoscia. Cresce il mio male, si nutre, mi brucia dentro come il vapore che erompe dal cratere dell'Etna. Trascuro le mie tele, il fuso mi scivola di mano. Non ho più desiderio, io, di onorare i templi con offerte, di unirmi al coro delle donne agitando, intorno agli altari, le torce iniziatiche dei riti segreti. No, e neanche di rivolgermi, con caste preghiere e atti devoti, alla dea che protegge questa terra, che a lei è consacrata. Vorrei, invece, stanare bestie selvagge, e inseguirle, e scagliare il giavellotto di ferro con questa debole mano. Dove vuoi arrivare, anima mia? Povera madre mia, riconosco il tuo male fatale. È nelle foreste che il nostro amore impara la colpa. Madre, ho pietà di te. Per la passione abietta che ti prese, tu amasti, temeraria, il bestiale re di un branco selvaggio. Era feroce, ribelle al giogo, quel tuo amante che guidava un'indomita mandria... Però amava. C'è un dio, c'è un [[Dedalo]] che possa aiutarla, nel suo delirio, la sventurata che sono? No, soccorso alle mie disgrazie non lo potrebbe dare, se tornasse, nemmeno quel maestro di stratagemmi che rinchiuse nel labirinto il [[Minotauro]]. [[Afrodite|Venere]] odia la stirpe del [[Elios|Sole]]. Si vendica su di noi delle catene che strinsero lei e il suo [[Ares|Marte]]. Ci copre tutti d'infamia, noi figli di [[Apollo|Febo]]. Amore casto, a donna nata da [[Minosse]] non fu mai concesso. C'è sempre entrato qualcosa di mostruoso.
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O grande [[Creta (1)|Creta]], dominatrice del mare, che tieni di riva in riva con le tue navi innumeri, che solchi ovunque si apra ai rostri, sino all'Assiria, perché mi hai data in ostaggio a un focolare odioso? Perché mi hai sposata ad un nemico? Perché mi costringi ad una vita di dolori e lacrime? Ecco, il mio sposo è lontano. Sì, [[Teseo]] offre alla moglie la sua consueta fedeltà. Lui, il grande soldato, s'inoltra nelle tenebre profonde della palude da cui non si ritorna, in aiuto di quel temerario che vuol rapire la sposa del re degli Inferi. Complice di una passione sfrenata, va [[Teseo]], va sempre avanti, non lo ferma timore o vergogna. Stupri e adulteri, il padre di [[Ippolito (2)|Ippolito]] li cerca sin laggiù nell'Acheronte. Povera me! Un altro dolore, più grande, mi perseguita. Né pace notturna né sonno pesante mi liberano dall'angoscia. Cresce il mio male, si nutre, mi brucia dentro come il vapore che erompe dal cratere dell'Etna. Trascuro le mie tele, il fuso mi scivola di mano. Non ho più desiderio, io, di onorare i templi con offerte, di unirmi al coro delle donne agitando, intorno agli altari, le torce iniziatiche dei riti segreti. No, e neanche di rivolgermi, con caste preghiere e atti devoti, alla dea che protegge questa terra, che a lei è consacrata. Vorrei, invece, stanare bestie selvagge, e inseguirle, e scagliare il giavellotto di ferro con questa debole mano. Dove vuoi arrivare, anima mia? Povera madre mia, riconosco il tuo male fatale. È nelle foreste che il nostro amore impara la colpa. Madre, ho pietà di te. Per la passione abietta che ti prese, tu amasti, temeraria, il bestiale re di un branco selvaggio. Era feroce, ribelle al giogo, quel tuo amante che guidava un'indomita mandria... Però amava. C'è un dio, c'è un [[Dedalo]] che possa aiutarla, nel suo delirio, la sventurata che sono? No, soccorso alle mie disgrazie non lo potrebbe dare, se tornasse, nemmeno quel maestro di stratagemmi che rinchiuse nel labirinto il [[Minotauro]]. Venere odia la stirpe del Sole. Si vendica su di noi delle catene che strinsero lei e il suo Marte. Ci copre tutti d'infamia, noi figli di Febo. Amore casto, a donna nata da [[Minosse]] non fu mai concesso. C'è sempre entrato qualcosa di mostruoso.
  
 
NUTRICE
 
NUTRICE
Via dal tuo animo casto ogni pensiero impuro. Spegnilo, questo fuoco, sposa di [[Teseo]], nobile discendente di Giove. Non abbandonarti a una speranza sinistra. L'amore, chi si ribella e lo respinge subito è sicuro di vincerlo. Se invece lo nutri di blandizie, questo dolce male, è tardi per sottrarsi a un giogo che hai accettato. Sì, lo so che l'orgoglio regale è ostinato, che non sopporta la verità, che non vuole piegarsi alla ragione, ma io sono pronta a subire tutto ciò che la sorte mi riserva. O vecchiaia la libertà vicina ti fa forte. È onesto, anzitutto, seguire il bene senza deviare dalla retta via, e, poi, riconoscere la gravità della nostra colpa. Dove vuoi finire, sventurata? Vuoi rendere più infame la tua casa? Superare tua madre? L'amore incestuoso è peggio di quello mostruoso. Sì, il mostruoso è colpa del destino, l'incesto della coscienza. Ti sbagli se credi che resti celata, la tua colpa, e senza pericolo, perché tuo marito, adesso, non vede il mondo di quassù. Mettiamo che [[Teseo]] sia sepolto nell'abisso del [[Lete]] e condannato a restarci per sempre: forse che il signore del grande regno del mare, colui che dà legge a cento popoli, tuo padre [[Minosse]], lo lascerebbe nascosto un delitto così? È occhiuta l'attenzione dei genitori. Ma mettiamo che noi, con frode e raggiro, si riesca a coprirlo. E il padre di tua madre, il [[Elios|Sole]] che dà la sua luce a tutte le cose? E il padre degli dèi che scuote l'universo vibrando con la sua mano corrusca la folgore etnea? Credi di poter fuggire a parenti che vedono tutto? E poi, anche se il capriccio degli dèi li nascondesse, i vergognosi abbracci, anche se toccasse, all'incesto, quel favore che mai è concesso ai delitti, non ci sarebbe lo stesso, e subito, il castigo? Nel cuore il rimorso, nell'animo un senso di colpa, e paura di sé... Per qualcuna rimane nascosta, la colpa, per nessuna impunita. Soffoca dunque, ti prego, la fiamma di questo desiderio infame, di questo delitto che mai neppure un barbaro ha compiuto, vagante Geta o inospitale Tauro o nomade Scita. Via dal tuo animo casto quest'orribile pensiero! Ricordati di tua madre. Devi aver paura, tu, di un amplesso proibito. Vuoi mischiare il seme del padre con quello del figlio? Vuoi concepire una promiscua prole in un sacrilego grembo? Avanti, allora, sovverti la natura con questa abietta passione... Mostri, non ne nascono più? Il labirinto di tuo fratello è deserto? Dovrà vedere prodigi mai veduti, il mondo, cadranno infrante le tue leggi, natura, ogni volta che una cretese sarà presa d'amore?
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Via dal tuo animo casto ogni pensiero impuro. Spegnilo, questo fuoco, sposa di [[Teseo]], nobile discendente di Giove. Non abbandonarti a una speranza sinistra. L'amore, chi si ribella e lo respinge subito è sicuro di vincerlo. Se invece lo nutri di blandizie, questo dolce male, è tardi per sottrarsi a un giogo che hai accettato. Sì, lo so che l'orgoglio regale è ostinato, che non sopporta la verità, che non vuole piegarsi alla ragione, ma io sono pronta a subire tutto ciò che la sorte mi riserva. O vecchiaia la libertà vicina ti fa forte. È onesto, anzitutto, seguire il bene senza deviare dalla retta via, e, poi, riconoscere la gravità della nostra colpa. Dove vuoi finire, sventurata? Vuoi rendere più infame la tua casa? Superare tua madre? L'amore incestuoso è peggio di quello mostruoso. Sì, il mostruoso è colpa del destino, l'incesto della coscienza. Ti sbagli se credi che resti celata, la tua colpa, e senza pericolo, perché tuo marito, adesso, non vede il mondo di quassù. Mettiamo che [[Teseo]] sia sepolto nell'abisso del [[Lete]] e condannato a restarci per sempre: forse che il signore del grande regno del mare, colui che dà legge a cento popoli, tuo padre [[Minosse]], lo lascerebbe nascosto un delitto così? È occhiuta l'attenzione dei genitori. Ma mettiamo che noi, con frode e raggiro, si riesca a coprirlo. E il padre di tua madre, il Sole che dà la sua luce a tutte le cose? E il padre degli dèi che scuote l'universo vibrando con la sua mano corrusca la folgore etnea? Credi di poter fuggire a parenti che vedono tutto? E poi, anche se il capriccio degli dèi li nascondesse, i vergognosi abbracci, anche se toccasse, all'incesto, quel favore che mai è concesso ai delitti, non ci sarebbe lo stesso, e subito, il castigo? Nel cuore il rimorso, nell'animo un senso di colpa, e paura di sé... Per qualcuna rimane nascosta, la colpa, per nessuna impunita. Soffoca dunque, ti prego, la fiamma di questo desiderio infame, di questo delitto che mai neppure un barbaro ha compiuto, vagante Geta o inospitale Tauro o nomade Scita. Via dal tuo animo casto quest'orribile pensiero! Ricordati di tua madre. Devi aver paura, tu, di un amplesso proibito. Vuoi mischiare il seme del padre con quello del figlio? Vuoi concepire una promiscua prole in un sacrilego grembo? Avanti, allora, sovverti la natura con questa abietta passione... Mostri, non ne nascono più? Il labirinto di tuo fratello è deserto? Dovrà vedere prodigi mai veduti, il mondo, cadranno infrante le tue leggi, natura, ogni volta che una cretese sarà presa d'amore?
  
 
FEDRA
 
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Le so, queste cose, nutrice, e sono vere, ma la passione mi spinge al peggio. Il mio cuore corre verso l'abisso, e lo sa, e con nostalgia si rivolge, ma invano, ai buoni consigli. Quando l'onda contraria investe una nave troppo carica, il nocchiero si prodiga, ma è inutile, e la nave è trascinata via, alla deriva... Che cosa conta la ragione? È la passione che vince, che comanda. Un dio troppo potente sta dominando il mio cuore. Regna su tutta la terra, questo dio alato, non risparmia neppure Giove, lo brucia con l'indomita fiamma. E [[Ares|Marte]], il guerriero? Le ha provate anche lui, quelle fiamme. E persino Vulcano si scotta a quel piccolo fuoco, lui che forgia il fulmine tripunte e attizza nei gioghi dell'Etna le fucine sempre furenti. E Febo stesso, il dio che scaglia le frecce, è trafitto da quella, più sicura, lanciata dal divino fanciullo che volteggia nell'aria ed è temuto sia in terra che in cielo.
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Le so, queste cose, nutrice, e sono vere, ma la passione mi spinge al peggio. Il mio cuore corre verso l'abisso, e lo sa, e con nostalgia si rivolge, ma invano, ai buoni consigli. Quando l'onda contraria investe una nave troppo carica, il nocchiero si prodiga, ma è inutile, e la nave è trascinata via, alla deriva... Che cosa conta la ragione? È la passione che vince, che comanda. Un dio troppo potente sta dominando il mio cuore. Regna su tutta la terra, questo dio alato, non risparmia neppure Giove, lo brucia con l'indomita fiamma. E Marte, il guerriero? Le ha provate anche lui, quelle fiamme. E persino Vulcano si scotta a quel piccolo fuoco, lui che forgia il fulmine tripunte e attizza nei gioghi dell'Etna le fucine sempre furenti. E Febo stesso, il dio che scaglia le frecce, è trafitto da quella, più sicura, lanciata dal divino fanciullo che volteggia nell'aria ed è temuto sia in terra che in cielo.
  
 
NUTRICE
 
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L'amore è un dio? Questo lo dice la libidine, che è turpe e complice del vizio. Per essere più libera ha dato il nome di un dio alle sue voglie... Ma certo! [[Afrodite|Venere]] manda qua e là suo figlio, per tutto il mondo, e lui, svolazzando, con la sua tenera manina lancia dardi crudeli. Tra gli dèi, dunque, il più piccolo ha il potere più grande... Tutto questo è assurdo! Il potere di [[Afrodite|Venere]] e l'arco di Cupido se li è inventati una mente delirante. Quando il benessere è troppo e si nuota nell'opulenza, nasce la cupidigia del nuovo. È allora che s'insinua la libidine, questa crudele compagna della buona fortuna. Il solito cibo, una casa di giusta modestia, un comune boccale non bastano più. Nelle famiglie degli umili, perché si insinua di rado questa lue che sceglie invece le case altolocate? Perché sotto umile tetto vive casto l'amore, perché la gente modesta ha desideri sani, e sa frenarli? Perché ricchi e potenti, invece, bramano più di quel che è lecito? Chi troppo può, vuol potere quel che non si può. Ma tu pensa ai doveri di una donna che è assurta agli onori del trono. Devi temerlo e onorarlo, lo scettro del tuo sposo, che ritornerà.
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L'amore è un dio? Questo lo dice la libidine, che è turpe e complice del vizio. Per essere più libera ha dato il nome di un dio alle sue voglie... Ma certo! Venere manda qua e là suo figlio, per tutto il mondo, e lui, svolazzando, con la sua tenera manina lancia dardi crudeli. Tra gli dèi, dunque, il più piccolo ha il potere più grande... Tutto questo è assurdo! Il potere di Venere e l'arco di Cupido se li è inventati una mente delirante. Quando il benessere è troppo e si nuota nell'opulenza, nasce la cupidigia del nuovo. È allora che s'insinua la libidine, questa crudele compagna della buona fortuna. Il solito cibo, una casa di giusta modestia, un comune boccale non bastano più. Nelle famiglie degli umili, perché si insinua di rado questa lue che sceglie invece le case altolocate? Perché sotto umile tetto vive casto l'amore, perché la gente modesta ha desideri sani, e sa frenarli? Perché ricchi e potenti, invece, bramano più di quel che è lecito? Chi troppo può, vuol potere quel che non si può. Ma tu pensa ai doveri di una donna che è assurta agli onori del trono. Devi temerlo e onorarlo, lo scettro del tuo sposo, che ritornerà.
  
 
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CORO
 
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Nata dal mare inclemente, [[Afrodite|Venere]], ti chiama madre l'ambiguo Cupido, che è armato di frecce e di fiamme, il fanciulletto lascivo e maligno che infallibile ha l'arco! Penetra, il suo delirio, sin nel midollo delle ossa, con quel suo fuoco segreto che consuma le vene. È una ferita da nulla, a guardarla, ma dentro brucia profonda. Non si dà tregua, il fanciulletto, che fulmineo per tutto il mondo sparge le sue frecce. Chi non lo conosce, il suo fuoco? La riva che vede nascere il Sole, la terra che giace verso i confini di Esperia, quella che è sotto il torrido Cancro e quella che, sotto il gelo dell'Orsa maggiore, è corsa da nomadi genti... Attizza, dei giovani, il fuoco violento, ravviva le braci già spente dei vecchi, di fiamme ignote ferisce il cuore delle vergini. Gli dèi stessi, li costringe a lasciare il cielo per vivere, sotto finte spoglie, tra gli uomini. Fu pastore in [[Tessaglia]] e guidò l'armento Febo [[Apollo]]; lasciato il plettro per la zampogna diseguale, lanciò ai tori il richiamo.Forme più umili assunse, e quante volte, colui che il cielo guida e le nubi. Batté candide ali, come uccello, più soave che del cigno morente la sua voce, poi offrì, come giovenco irrequieto dalla fronte fiera, il suo dorso al gioco delle vergini. Attraverso i flutti (nuovissimo regno) del fratello, con le zampe imitando lenti remi, oppose il suo petto al mare alto e lo vinse, trepidando per la fanciulla che seco rapiva. La chiara dea del mondo oscuro, [[Artemide|Diana]], si accese d'amore, abbandonò la notte, affidò al fratello il suo lucente carro, così diverso da guidare. Impara a dirigerla, Febo, la biga notturna, e la volge in orbita più stre tta, ma le notti riescono più lunghe, spunta in ritardo il giorno, mentre tremano gli assi delle ruote poi che il peso è più grave. L'orrida pelle di leone depose il figlio di [[Alcmena]], sì Ercole depose la faretra, fece acconciare i suoi capelli incolti, le sue dita ornare di smeraldi. Calzò sandali preziosi, cinse le gambe d'ornamenti d'oro, la sua mano passò dalla clava al fuso dal rapido filo. La Persia lo vide, e la [[Lidia]] dal regno ferace, mentre gettava la spoglia del leone. Tessuto a Tiro, un delicato manto ricopre le spalle che avevano sorretto l'universo. Troppo potente, divino, è questo fuoco, e lo dice chi ne fu ferito. Su ogni terra cinta dal mare, nel cielo percorso dalle stelle, regna inclemente il fanciulletto, e anche nel mare profondo le sue frecce colgono il segno. Le [[Nereidi]], cerulo stuolo, cercano invano di lenire la sua fiamma con l'acque. Ardono del suo fuoco anche gli uccelli. E se [[Afrodite|Venere]] lo eccita si fa audace il giovenco e muove guerra per primeggiare sulla mandria. Persino il timido cervo, ove tema per la sua compagna, ricerca la lotta e dà segno del suo furore coi bramiti. L'India abbronzata inorridisce dinanzi alle tigri striate, digrigna i denti aguzzi il cinghiale e schiuma dalla bocca; squassa il collo il leone africano, se Amore lo spinge, e geme allora la foresta al ruggito crudele. Amano i mostri marini, gli elefanti amano. Tutto nella natura ti appartiene, nulla ti si sottrae, Amore, e al tuo cenno l'odio perisce, cedono collere antiche... Debbo dire di più nel mio canto? Crudeli matrigne, tu le vinci, Amore.
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Nata dal mare inclemente, Venere, ti chiama madre l'ambiguo Cupido, che è armato di frecce e di fiamme, il fanciulletto lascivo e maligno che infallibile ha l'arco! Penetra, il suo delirio, sin nel midollo delle ossa, con quel suo fuoco segreto che consuma le vene. È una ferita da nulla, a guardarla, ma dentro brucia profonda. Non si dà tregua, il fanciulletto, che fulmineo per tutto il mondo sparge le sue frecce. Chi non lo conosce, il suo fuoco? La riva che vede nascere il Sole, la terra che giace verso i confini di Esperia, quella che è sotto il torrido Cancro e quella che, sotto il gelo dell'Orsa maggiore, è corsa da nomadi genti... Attizza, dei giovani, il fuoco violento, ravviva le braci già spente dei vecchi, di fiamme ignote ferisce il cuore delle vergini. Gli dèi stessi, li costringe a lasciare il cielo per vivere, sotto finte spoglie, tra gli uomini. Fu pastore in [[Tessaglia]] e guidò l'armento Febo [[Apollo]]; lasciato il plettro per la zampogna diseguale, lanciò ai tori il richiamo.Forme più umili assunse, e quante volte, colui che il cielo guida e le nubi. Batté candide ali, come uccello, più soave che del cigno morente la sua voce, poi offrì, come giovenco irrequieto dalla fronte fiera, il suo dorso al gioco delle vergini. Attraverso i flutti (nuovissimo regno) del fratello, con le zampe imitando lenti remi, oppose il suo petto al mare alto e lo vinse, trepidando per la fanciulla che seco rapiva. La chiara dea del mondo oscuro, [[Artemide|Diana]], si accese d'amore, abbandonò la notte, affidò al fratello il suo lucente carro, così diverso da guidare. Impara a dirigerla, Febo, la biga notturna, e la volge in orbita più stre tta, ma le notti riescono più lunghe, spunta in ritardo il giorno, mentre tremano gli assi delle ruote poi che il peso è più grave. L'orrida pelle di leone depose il figlio di [[Alcmena]], sì Ercole depose la faretra, fece acconciare i suoi capelli incolti, le sue dita ornare di smeraldi. Calzò sandali preziosi, cinse le gambe d'ornamenti d'oro, la sua mano passò dalla clava al fuso dal rapido filo. La Persia lo vide, e la [[Lidia]] dal regno ferace, mentre gettava la spoglia del leone. Tessuto a Tiro, un delicato manto ricopre le spalle che avevano sorretto l'universo. Troppo potente, divino, è questo fuoco, e lo dice chi ne fu ferito. Su ogni terra cinta dal mare, nel cielo percorso dalle stelle, regna inclemente il fanciulletto, e anche nel mare profondo le sue frecce colgono il segno. Le [[Nereidi]], cerulo stuolo, cercano invano di lenire la sua fiamma con l'acque. Ardono del suo fuoco anche gli uccelli. E se Venere lo eccita si fa audace il giovenco e muove guerra per primeggiare sulla mandria. Persino il timido cervo, ove tema per la sua compagna, ricerca la lotta e dà segno del suo furore coi bramiti. L'India abbronzata inorridisce dinanzi alle tigri striate, digrigna i denti aguzzi il cinghiale e schiuma dalla bocca; squassa il collo il leone africano, se Amore lo spinge, e geme allora la foresta al ruggito crudele. Amano i mostri marini, gli elefanti amano. Tutto nella natura ti appartiene, nulla ti si sottrae, Amore, e al tuo cenno l'odio perisce, cedono collere antiche... Debbo dire di più nel mio canto? Crudeli matrigne, tu le vinci, Amore.
  
 
(Nutrice, coro)
 
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Regina dei boschi, che sui monti vivi solitaria e sui solitari monti sei, sola dea, venerata, distogli da noi le minacce e i tristi presagi! Dei boschi sacri, delle foreste grande dea, del cielo astro luminoso, della notte ornamento, tu che puntuale ritornando fai rilucere il mondo, [[Ecate]] Triforme, vieni tu ad aiutarmi, ti prego, in ciò che sto per fare. Domalo tu, l'animo inflessibile dell'austero [[Ippolito (2)|Ippolito]]. Fa che mi ascolti. Addolcisci il suo cuore selvaggio. Fa che impari ad amare e a ricambiare l'amore. Sforza la sua volontà. Quest'uomo fiero, ostile, selvaggio, fa che si pieghi alle leggi di [[Afrodite|Venere]]. Aiutami tu con la tua potenza, e splendido sia sempre il tuo volto, le tue purissime falci squarcino le nubi, e mai, mai possano tessale maghe sviarti mentre reggi le briglie del carro notturno, mai, mai possa un pastore gloriarsi di averti sedotta. Ecco, io ti ho invocata e tu sei venuta, divina, ed esaudisci il mio voto. Sì, è lui, lui in persona, che viene a pregarti e venerarti, senza seguito alcuno... Perché esito? Il caso mi offre il tempo, il luogo. Astuzia, ci vuole. Sto tremando. No, non è facile osare... È un delitto, questo, ma te l'hanno comandato. Gli ordini! Ne hai paura, no? E allora lascialo perdere, l'onore, dimenticalo. Non è buon servo del potere chi ha rispetto di sé.
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Regina dei boschi, che sui monti vivi solitaria e sui solitari monti sei, sola dea, venerata, distogli da noi le minacce e i tristi presagi! Dei boschi sacri, delle foreste grande dea, del cielo astro luminoso, della notte ornamento, tu che puntuale ritornando fai rilucere il mondo, [[Ecate]] Triforme, vieni tu ad aiutarmi, ti prego, in ciò che sto per fare. Domalo tu, l'animo inflessibile dell'austero [[Ippolito (2)|Ippolito]]. Fa che mi ascolti. Addolcisci il suo cuore selvaggio. Fa che impari ad amare e a ricambiare l'amore. Sforza la sua volontà. Quest'uomo fiero, ostile, selvaggio, fa che si pieghi alle leggi di Venere. Aiutami tu con la tua potenza, e splendido sia sempre il tuo volto, le tue purissime falci squarcino le nubi, e mai, mai possano tessale maghe sviarti mentre reggi le briglie del carro notturno, mai, mai possa un pastore gloriarsi di averti sedotta. Ecco, io ti ho invocata e tu sei venuta, divina, ed esaudisci il mio voto. Sì, è lui, lui in persona, che viene a pregarti e venerarti, senza seguito alcuno... Perché esito? Il caso mi offre il tempo, il luogo. Astuzia, ci vuole. Sto tremando. No, non è facile osare... È un delitto, questo, ma te l'hanno comandato. Gli ordini! Ne hai paura, no? E allora lascialo perdere, l'onore, dimenticalo. Non è buon servo del potere chi ha rispetto di sé.
  
 
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Non temere, lo stato del regno è prospero, la tua casa fiorisce di forza e felicità. Tu, piuttosto, sii più clemente con te stesso. È il pensiero di te che mi dà pena, perché ti infliggi da solo gravi sofferenze. Chi è costretto dalla sorte, soffre e non ne ha colpa; chi si tormenta da solo, invece, e di sua volontà si infligge pene, merita di perdere quei beni di cui non sa godere. Sei giovane, non dimenticarlo, mitiga dunque il tuo rigore. Su, leva la fiaccola nelle notti di festa, e [[Dioniso|Bacco]] ti liberi dai pensieri molesti. Goditi la giovinezza, che fugge troppo veloce. [[Afrodite|Venere]] ti sorride, oggi che sei giovane, oggi che il tuo cuore è palpitante. Il tuo animo deve rallegrarsi. Perché è vedovo il tuo letto? Liberala dalla malinconia, la tua giovinezza, prendi la corsa, allenta le briglie, non lasciarti sfuggire i giorni migliori della vita. Un dio ha prescritto ad ogni stagione i suoi doveri, ad ogni esistenza le sue tappe: al giovane si addice la letizia, al vecchio il viso severo. Perché ti fai violenza, perché li reprimi, i tuoi istinti? Al contadino il frutto più ricco glielo dà la messe che, verde ancora, lussureggia da lieti seminati. Nel bosco si leva più alto, con la sua cima, albero che mano maligna non recide o mutila. Così una natura retta arriva alla gloria se libertà generosa ne alimenta il nobile sentire. Sdegnoso, selvatico, ignaro della vita, vuoi passarla così, una giovinezza triste e senza amore? Credi che l'uomo abbia soltanto il dovere di sopportare le fatiche, domare cavalli alla corsa, battersi crudelmente in guerre sanguinose? Sono rapaci le mani della morte, e il padre dell'universo, nella sua provvidenza, ha disposto che sempre le nascite riparino le perdite. Ma pensa! Che cosa sarebbe la terra se [[Afrodite|Venere]], che continuamente la ripopola, dovesse abbandonarla? Un'orribile distesa sarebbe, uno squallido mondo senza pesci nel mare, senza uccelli nel cielo e belve nelle foreste. Il vento, il vento soltanto, sarebbe padrone di tutto. Gli uomini, sono tante le cause che li conducono a morte, e in gran folla: il mare, la guerra, gli inganni! Ma supponi che manchino, queste. Il tetro Stige lo raggiungiamo presto da soli. Se una sterile giovinezza scegliesse una vita senza nozze, tutto questo che vedi, tutto quanto, durerebbe il tempo di una generazione e rovinerebbe su di sé. Seguila dunque, la natura, come guida della tua vita, frequenta la città, cerca la compagnia dei tuoi simili.
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Non temere, lo stato del regno è prospero, la tua casa fiorisce di forza e felicità. Tu, piuttosto, sii più clemente con te stesso. È il pensiero di te che mi dà pena, perché ti infliggi da solo gravi sofferenze. Chi è costretto dalla sorte, soffre e non ne ha colpa; chi si tormenta da solo, invece, e di sua volontà si infligge pene, merita di perdere quei beni di cui non sa godere. Sei giovane, non dimenticarlo, mitiga dunque il tuo rigore. Su, leva la fiaccola nelle notti di festa, e Bacco ti liberi dai pensieri molesti. Goditi la giovinezza, che fugge troppo veloce. Venere ti sorride, oggi che sei giovane, oggi che il tuo cuore è palpitante. Il tuo animo deve rallegrarsi. Perché è vedovo il tuo letto? Liberala dalla malinconia, la tua giovinezza, prendi la corsa, allenta le briglie, non lasciarti sfuggire i giorni migliori della vita. Un dio ha prescritto ad ogni stagione i suoi doveri, ad ogni esistenza le sue tappe: al giovane si addice la letizia, al vecchio il viso severo. Perché ti fai violenza, perché li reprimi, i tuoi istinti? Al contadino il frutto più ricco glielo dà la messe che, verde ancora, lussureggia da lieti seminati. Nel bosco si leva più alto, con la sua cima, albero che mano maligna non recide o mutila. Così una natura retta arriva alla gloria se libertà generosa ne alimenta il nobile sentire. Sdegnoso, selvatico, ignaro della vita, vuoi passarla così, una giovinezza triste e senza amore? Credi che l'uomo abbia soltanto il dovere di sopportare le fatiche, domare cavalli alla corsa, battersi crudelmente in guerre sanguinose? Sono rapaci le mani della morte, e il padre dell'universo, nella sua provvidenza, ha disposto che sempre le nascite riparino le perdite. Ma pensa! Che cosa sarebbe la terra se Venere, che continuamente la ripopola, dovesse abbandonarla? Un'orribile distesa sarebbe, uno squallido mondo senza pesci nel mare, senza uccelli nel cielo e belve nelle foreste. Il vento, il vento soltanto, sarebbe padrone di tutto. Gli uomini, sono tante le cause che li conducono a morte, e in gran folla: il mare, la guerra, gli inganni! Ma supponi che manchino, queste. Il tetro Stige lo raggiungiamo presto da soli. Se una sterile giovinezza scegliesse una vita senza nozze, tutto questo che vedi, tutto quanto, durerebbe il tempo di una generazione e rovinerebbe su di sé. Seguila dunque, la natura, come guida della tua vita, frequenta la città, cerca la compagnia dei tuoi simili.
  
 
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Non c'è vita più libera, più pura da vizi, più vicina ai costumi di un tempo, di quella che ama le foreste e rifugge dalla città. La febbre dell'avarizia non contagia chi dedica la sua innocenza alla vita sui monti, non lo toccano il favore della moltitudine, il volgo malfido per gli onesti, la mefitica invidia, il plauso incostante. Non è servo del potere né del potere assetato. Non va a caccia di onori e di ricchezze. È libero da speranza e paura. Non lo morde, col suo dente abietto, il nero e vorace livore. Nulla sa L dei delitti che nascono nella città, tra la folla. Nessun timore lo atterrisce, poiché non ha sensi di colpa, e non è costretto a mentire. Non desidera, come i ricchi, vedersi intorno mille colonne, e non riveste d'oro, come gli ambiziosi, le travi del soffitto. Gli altari, non li inonda di fiotti di sangue, né centinaia di candidi buoi, cosparsi del farro rituale, per lui piegano il collo al sacrificio. Ma sue sono le distese dei campi, sua l'aria aperta mentre va senza nuocere ad alcuno. Sa tendere insidie, ma soltanto alle belve, e quand'è provato dalle fatiche ristora il suo corpo nel limpido [[Ilisso]]. Un giorno costeggia la riva del rapido [[Alfeo (1)|Alfeo]], un altro percorre luoghi fitti di alte foreste in cui riluce, pura nei suoi guadi, la fonte gelida di [[Lerna]]. Ovunque è casa sua: là dove gorgheggiano queruli uccelli e fremono, da lievi soffi percossi, vecchi faggi e frassini. O dove è bello calpestare le rive sinuose di un torrente o cedere a sonno leggero sulla nuda zolla, mentre una fonte rigogliosa versa i suoi rapidi flutti o dolcemente sussurra un rivo che fugge tra fiori sboccianti. Placano la sua fame i frutti che scrolla dai rami, gli offrono facile cibo le fragole che coglie dai cespugli. Fugge d'istinto, lui, lontano dal fasto della reggia. Che cosa bevono i potenti in quelle coppe d'oro? Affanni. No, è meglio dissetarsi nel cavo della mano a una sorgente. Dorme più tranquillo chi si affida a un duro giaciglio. Non medita da malvagio, nel buio della sua stanza, amori furtivi, non si nasconde da vile nei recessi del palazzo. Cerca l'aria e la luce, il cielo è testimone della sua vita. Sono certo che vivevano così gli uomini che la prima età generò insieme agli dèi. Non conoscevano la cieca brama dell'oro, non avevano pietre maledette che dividessero, a capriccio, le terre tra le genti. Navi temerarie non solcavano i flutti, ciascuno conosceva soltanto il suo mare. Torri e bastioni non cingevano le città. Non c'erano soldati a brandire armi crudeli, né ordigni di guerra per abbattere, a colpi di macigno, le porte sbarrate. Non aveva padroni, la terra, né soffriva la servitù dell'aratro, poi che i campi, per se stessi fecondi, nutrivano genti senza pretese. I boschi offrivano ricchezze naturali, naturali rifugi le buie caverne. Quest'armonia, l'infranse la febbre sacrilega del lucro, e l'ira sfrenata, la libidine che accende e travolge le menti. Sopravvenne la sete del potere, che trasuda sangue, il debole fu preda del forte, la forza prese il posto del diritto. E allora fu la guerra, dapprima a mani nude, poi trasformando in armi pietre e rami grezzi. Ancora non c'erano l'agile giavellotto dalla punta di ferro, la spada dal lungo taglio appesa alla cintura, l'elmo chiomato dal vistoso pennacchio: l'odio serviva per arma. La furia di [[Ares|Marte]] creò nuove arti e mille strumenti di morte. Scorse il sangue, da allora, e impregnò la terra, arrossò il mare. E i delitti sconfinarono in tutte le case, nessun misfatto rimase senza esempio: il fratello fu ucciso dal fratello, il padre dal figlio, lo sposo è colpito dalla sposa, sacrileghe madri sopprimono i figli. Delle matrigne non parlo. Le belve sono più miti. Ma di ogni misfatto la donna è guida e maestra. Assedia gli uomini, questa artefice di delitti, e per i suoi turpi adulteri cento città vengono bruciate, si muovono guerra cento popoli, e le macerie dei regni cadono su di loro. Basta citarne una, una sola, [[Medea]], perché sia maledetta la razza delle donne.
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Non c'è vita più libera, più pura da vizi, più vicina ai costumi di un tempo, di quella che ama le foreste e rifugge dalla città. La febbre dell'avarizia non contagia chi dedica la sua innocenza alla vita sui monti, non lo toccano il favore della moltitudine, il volgo malfido per gli onesti, la mefitica invidia, il plauso incostante. Non è servo del potere né del potere assetato. Non va a caccia di onori e di ricchezze. È libero da speranza e paura. Non lo morde, col suo dente abietto, il nero e vorace livore. Nulla sa L dei delitti che nascono nella città, tra la folla. Nessun timore lo atterrisce, poiché non ha sensi di colpa, e non è costretto a mentire. Non desidera, come i ricchi, vedersi intorno mille colonne, e non riveste d'oro, come gli ambiziosi, le travi del soffitto. Gli altari, non li inonda di fiotti di sangue, né centinaia di candidi buoi, cosparsi del farro rituale, per lui piegano il collo al sacrificio. Ma sue sono le distese dei campi, sua l'aria aperta mentre va senza nuocere ad alcuno. Sa tendere insidie, ma soltanto alle belve, e quand'è provato dalle fatiche ristora il suo corpo nel limpido [[Ilisso]]. Un giorno costeggia la riva del rapido [[Alfeo (1)|Alfeo]], un altro percorre luoghi fitti di alte foreste in cui riluce, pura nei suoi guadi, la fonte gelida di [[Lerna]]. Ovunque è casa sua: là dove gorgheggiano queruli uccelli e fremono, da lievi soffi percossi, vecchi faggi e frassini. O dove è bello calpestare le rive sinuose di un torrente o cedere a sonno leggero sulla nuda zolla, mentre una fonte rigogliosa versa i suoi rapidi flutti o dolcemente sussurra un rivo che fugge tra fiori sboccianti. Placano la sua fame i frutti che scrolla dai rami, gli offrono facile cibo le fragole che coglie dai cespugli. Fugge d'istinto, lui, lontano dal fasto della reggia. Che cosa bevono i potenti in quelle coppe d'oro? Affanni. No, è meglio dissetarsi nel cavo della mano a una sorgente. Dorme più tranquillo chi si affida a un duro giaciglio. Non medita da malvagio, nel buio della sua stanza, amori furtivi, non si nasconde da vile nei recessi del palazzo. Cerca l'aria e la luce, il cielo è testimone della sua vita. Sono certo che vivevano così gli uomini che la prima età generò insieme agli dèi. Non conoscevano la cieca brama dell'oro, non avevano pietre maledette che dividessero, a capriccio, le terre tra le genti. Navi temerarie non solcavano i flutti, ciascuno conosceva soltanto il suo mare. Torri e bastioni non cingevano le città. Non c'erano soldati a brandire armi crudeli, né ordigni di guerra per abbattere, a colpi di macigno, le porte sbarrate. Non aveva padroni, la terra, né soffriva la servitù dell'aratro, poi che i campi, per se stessi fecondi, nutrivano genti senza pretese. I boschi offrivano ricchezze naturali, naturali rifugi le buie caverne. Quest'armonia, l'infranse la febbre sacrilega del lucro, e l'ira sfrenata, la libidine che accende e travolge le menti. Sopravvenne la sete del potere, che trasuda sangue, il debole fu preda del forte, la forza prese il posto del diritto. E allora fu la guerra, dapprima a mani nude, poi trasformando in armi pietre e rami grezzi. Ancora non c'erano l'agile giavellotto dalla punta di ferro, la spada dal lungo taglio appesa alla cintura, l'elmo chiomato dal vistoso pennacchio: l'odio serviva per arma. La furia di Marte creò nuove arti e mille strumenti di morte. Scorse il sangue, da allora, e impregnò la terra, arrossò il mare. E i delitti sconfinarono in tutte le case, nessun misfatto rimase senza esempio: il fratello fu ucciso dal fratello, il padre dal figlio, lo sposo è colpito dalla sposa, sacrileghe madri sopprimono i figli. Delle matrigne non parlo. Le belve sono più miti. Ma di ogni misfatto la donna è guida e maestra. Assedia gli uomini, questa artefice di delitti, e per i suoi turpi adulteri cento città vengono bruciate, si muovono guerra cento popoli, e le macerie dei regni cadono su di loro. Basta citarne una, una sola, [[Medea]], perché sia maledetta la razza delle donne.
  
 
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Spesso Amore vince i più ribelli e muta l'odio... Pensa alla terra di tua madre: anche le [[Amazzoni]] selvagge subiscono il giogo di [[Afrodite|Venere]]. Unico figlio della loro razza, tu ne sei la prova vivente.
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Spesso Amore vince i più ribelli e muta l'odio... Pensa alla terra di tua madre: anche le [[Amazzoni]] selvagge subiscono il giogo di Venere. Unico figlio della loro razza, tu ne sei la prova vivente.
  
 
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È fuggito come pazza tempesta, rapido più del maestrale che addensa le nubi, più rapido della scia di fuoco che lascia, strappata dai venti, una stella che cade. La fama che loda i secoli lontani confronti con te ogni passato esempio di bellezza: più pura brillerà la tua, come più fulgida riluce la luna, quando, riunite le sue falci, sul suo carro si slancia a piena notte e mostra il suo volto dorato, e non reggono al suo fulgore le stelle. Simile a te è l'astro che le prime tenebre riporta, il messaggero della notte, Espero, appena deterso dalle onde, e Lucifero ancora, che le ultime tenebre scaccia. E tu che dall'India sei venuto, dalla terra che porta il tirso, tu che atterrisci le tigri con la lancia intrecciata di pampini, che cingi la fronte cornuta con la mitra, non la vincerai neppure tu, giovane [[Dioniso|Bacco]] dalla chioma intonsa, la chioma irsuta di [[Ippolito (2)|Ippolito]]. Non lodarlo troppo, il tuo volto, poi che tra i popoli è fama che [[Arianna]], di [[Fedra]] sorella, ti avrebbe preferito [[Teseo]]. Dono ambiguo ai mortali, effimero dono, bellezza, come presto svanisci col tuo passo impaziente! Non così rapida li spoglia, i prati fioriti a primavera, il respiro bruciante dell'estate, quando a metà del giorno il sole è a picco, quando è breve il corso della notte. Come languisce il giglio dai petali bianchi, come agonizzano le rose care alle ghirlande, così sei rapito tu in un momento, splendore che da tenere guance si irraggia. Ogni giorno strappa al corpo un petalo della sua bellezza. Sì, è fugace cosa la bellezza. Si fiderà, un saggio, di un bene così fragile? Godine sin che puoi. Sil enzioso il tempo ti distrugge. Un'ora passa e un'altra, sempre peggiore, la segue. Perché cerchi luoghi deserti? La bellezza, là, non è più sicura. Mentre il sole è alto, nel bosco segreto verranno intorno a te, impudiche, le [[Naiadi]] che sanno catturare, nelle loro fonti, i bei giovani; ti insidieranno, nel sonno, le Driadi lascive delle foreste, le dee che corrono le notti inseguite dai Fauni che corrono i monti. O volgerà il suo sguardo su di te, dal cielo stellato, l'astro nato dopo gli antichi Arcadi, e alla sua guida sfuggirà il candido suo carro. E non è arrossita poco fa? E nube non c'era a velarlo, il volto lucente della luna. Una maga tessala l'affascina, tememmo noi a quel torbido lume, e, per scongiuro, facemmo tintinnare metalli. No, eri tu, tu la causa del suo turbamento, poi che la dea della notte, per spiarti, frenava il suo celere passo. Ah se la sferza del gelo risparmiasse il tuo volto! Ah se non lo esponessi così sovente al sole! Splenderebbe più del marmo di Paro. Che grazia nel tuo viso maschio e corrucciato, che nobiltà pensosa nel tuo ciglio! Com'è splendido, e degno di Febo, il tuo collo! La chioma ribelle, cadendo, orna e copre le spalle del dio; a te stan bene irsuti, i capelli, e corti, e disordinati. Tu li puoi superare, se li sfidi, e in forza e in grandezza, gli dèi della guerra e della lotta, poi che erculei sono i tuoi bicipiti e più spazioso, e giovane, è il tuo petto di quello di [[Ares|Marte]]. Se balzi in groppa ad unghiuto corsiero, la tua mano è più destra, nella guida, di quella di [[Castore]]: sì, tu puoi domarlo, Cillaro, il cavallo spartano. Tendila con la punta delle dita, la correggia, scaglialo, con tutte le tue forze, il dardo: no, non così lontano vanno le frecce sottili dei [[Cretesi]], maestri nel tiro dell'arco. Preferisci, al modo dei Parti, scagliare le frecce verso il cielo? Nessuna ricadrà senza preda, nel seno stesso delle nuvole coglierà ciascuna un uccello, nel tiepido cuore trafiggendolo. I secoli ammoniscono: per pochi la bellezza fu immune da sventura. Un dio più clemente risparmi te. Che la tua nobile forma possa deformarsi nel tempo della vecchiezza! C'è cosa che non tenti la passione furiosa d'una donna? Contro un giovane innocente prepara neri delitti. Ah scellerata! Tu cerchi, strappandoti i capelli, una prova, cancelli dal tuo volto la bellezza, ti bagni di lacrime le guance: c'è tutta la perfidia di una donna che va intessendo un inganno. Ma chi è, chi è quegli che viene a testa alta, mostrando nel volto una regale maestà? Come sarebbe simile, nel viso, al giovane [[Pitteo]], non fossero così pallide, così scavate le sue guance, non fosse così irsuta e così incolta la chioma. E [[Teseo]]! [[Teseo]] ritornato sulla terra.
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È fuggito come pazza tempesta, rapido più del maestrale che addensa le nubi, più rapido della scia di fuoco che lascia, strappata dai venti, una stella che cade. La fama che loda i secoli lontani confronti con te ogni passato esempio di bellezza: più pura brillerà la tua, come più fulgida riluce la luna, quando, riunite le sue falci, sul suo carro si slancia a piena notte e mostra il suo volto dorato, e non reggono al suo fulgore le stelle. Simile a te è l'astro che le prime tenebre riporta, il messaggero della notte, Espero, appena deterso dalle onde, e Lucifero ancora, che le ultime tenebre scaccia. E tu che dall'India sei venuto, dalla terra che porta il tirso, tu che atterrisci le tigri con la lancia intrecciata di pampini, che cingi la fronte cornuta con la mitra, non la vincerai neppure tu, giovane Bacco dalla chioma intonsa, la chioma irsuta di [[Ippolito (2)|Ippolito]]. Non lodarlo troppo, il tuo volto, poi che tra i popoli è fama che [[Arianna]], di [[Fedra]] sorella, ti avrebbe preferito [[Teseo]]. Dono ambiguo ai mortali, effimero dono, bellezza, come presto svanisci col tuo passo impaziente! Non così rapida li spoglia, i prati fioriti a primavera, il respiro bruciante dell'estate, quando a metà del giorno il sole è a picco, quando è breve il corso della notte. Come languisce il giglio dai petali bianchi, come agonizzano le rose care alle ghirlande, così sei rapito tu in un momento, splendore che da tenere guance si irraggia. Ogni giorno strappa al corpo un petalo della sua bellezza. Sì, è fugace cosa la bellezza. Si fiderà, un saggio, di un bene così fragile? Godine sin che puoi. Sil enzioso il tempo ti distrugge. Un'ora passa e un'altra, sempre peggiore, la segue. Perché cerchi luoghi deserti? La bellezza, là, non è più sicura. Mentre il sole è alto, nel bosco segreto verranno intorno a te, impudiche, le [[Naiadi]] che sanno catturare, nelle loro fonti, i bei giovani; ti insidieranno, nel sonno, le Driadi lascive delle foreste, le dee che corrono le notti inseguite dai Fauni che corrono i monti. O volgerà il suo sguardo su di te, dal cielo stellato, l'astro nato dopo gli antichi Arcadi, e alla sua guida sfuggirà il candido suo carro. E non è arrossita poco fa? E nube non c'era a velarlo, il volto lucente della luna. Una maga tessala l'affascina, tememmo noi a quel torbido lume, e, per scongiuro, facemmo tintinnare metalli. No, eri tu, tu la causa del suo turbamento, poi che la dea della notte, per spiarti, frenava il suo celere passo. Ah se la sferza del gelo risparmiasse il tuo volto! Ah se non lo esponessi così sovente al sole! Splenderebbe più del marmo di Paro. Che grazia nel tuo viso maschio e corrucciato, che nobiltà pensosa nel tuo ciglio! Com'è splendido, e degno di Febo, il tuo collo! La chioma ribelle, cadendo, orna e copre le spalle del dio; a te stan bene irsuti, i capelli, e corti, e disordinati. Tu li puoi superare, se li sfidi, e in forza e in grandezza, gli dèi della guerra e della lotta, poi che erculei sono i tuoi bicipiti e più spazioso, e giovane, è il tuo petto di quello di Marte. Se balzi in groppa ad unghiuto corsiero, la tua mano è più destra, nella guida, di quella di [[Castore]]: sì, tu puoi domarlo, Cillaro, il cavallo spartano. Tendila con la punta delle dita, la correggia, scaglialo, con tutte le tue forze, il dardo: no, non così lontano vanno le frecce sottili dei [[Cretesi]], maestri nel tiro dell'arco. Preferisci, al modo dei Parti, scagliare le frecce verso il cielo? Nessuna ricadrà senza preda, nel seno stesso delle nuvole coglierà ciascuna un uccello, nel tiepido cuore trafiggendolo. I secoli ammoniscono: per pochi la bellezza fu immune da sventura. Un dio più clemente risparmi te. Che la tua nobile forma possa deformarsi nel tempo della vecchiezza! C'è cosa che non tenti la passione furiosa d'una donna? Contro un giovane innocente prepara neri delitti. Ah scellerata! Tu cerchi, strappandoti i capelli, una prova, cancelli dal tuo volto la bellezza, ti bagni di lacrime le guance: c'è tutta la perfidia di una donna che va intessendo un inganno. Ma chi è, chi è quegli che viene a testa alta, mostrando nel volto una regale maestà? Come sarebbe simile, nel viso, al giovane [[Pitteo]], non fossero così pallide, così scavate le sue guance, non fosse così irsuta e così incolta la chioma. E [[Teseo]]! [[Teseo]] ritornato sulla terra.
  
 
([[Teseo]], nutrice)
 
([[Teseo]], nutrice)

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