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Versione del 8 set 2012 alle 15:24 di Ilcrepuscolo (discussione | contributi) (Nuova pagina: PERSONAGGI: AFRODITE Ippòlito FEDRA Tesèo Artèmide ANCELLA NUNZIO SEGUACI d'Ippòlito NUTRICE di Fedra CORO di donne di Trezène L'azione si svolge a Trezène, avanti alla reggia....)
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PERSONAGGI:

AFRODITE Ippòlito FEDRA Tesèo Artèmide ANCELLA NUNZIO SEGUACI d'Ippòlito NUTRICE di Fedra CORO di donne di Trezène

L'azione si svolge a Trezène, avanti alla reggia. Ai due lati sorgono due statue, d'Artèmide e d'Afrodite.

AFRODITE:

  Diva sono io fra gli uomini possente,
  e fra i Numi del cielo: io sono Cípride:
  chiaro è il mio nome. Della gente ch'abita
  fra il ponto Eusíno ed i confini Atlàntici,
  e la luce del sol contempla, quanti
  hanno rispetto al poter mio, li onoro;
  ma quelli atterro che superbo cuore
  nutrono contro me: ché sin tra i Numi
  è questa passïon, che degli omaggi
  s'allegran dei mortali: io mostrerò
  presto la verità di tal sentenza.
  Però che adesso, il figlio dell'Amàzzone,
  Ippòlito, che padre ebbe Tesèo,
  educatore il virtuoso Pítteo,
  solo fra quanti hanno soggiorno in questa
  Trezènia terra, dice ch'io la pessima
  sono fra tutti i Numi, e sdegna il talamo,
  e le nozze respinge, e prima reputa
  fra gli Dei tutti quanti, e onora Artèmide,
  suora di Febo, e gèrmine di Giove.
  Insieme sempre per la verde selva
  con la vergine sta, strugge le fiere,
  con pronte cagne, dalla terra, e altero
  va della compagnia piú che mortale.
  Né di questo io mi cruccio: a me che fa?
  Ma delle offese che lanciava Ippòlito
  contro me stessa, oggi trarrò vendetta.
  Il piú da un pezzo è pronto, e di fatica
  poco mi resta omai: ché, mentre Ippòlito
  moveva, dalla magïon di Pítteo
  di Pandíone al suol, per contemplare
  le cerimonie dei misteri sacri,
  Fedra, del padre suo l'insigne sposa,
  lo vide, e invaso da cocente amore,
  per mio consiglio, n'ebbe il cuore. Ora essa,
  pria di venire a questo suol Trezènio,
  su la Pallàdia rupe onde si scopre
  questa contrada, eresse un tempio a Cípride,
  per questo amore di lontana terra;
  e quindi innanzi, io volli che d'Ippòlito
  avesse il nome questo tempio. Or, quando
  Tesèo partí dalla Cecròpia terra,
  il contagio a espïar del sangue sparso
  dei Pallantídi, a questa terra venne
  con la sua sposa; ché patí fuggiasco
  vivere un anno sopra estranea terra.
  E qui geme la misera, e, colpita
  dalle frecce d'amor, muta si strugge;
  e niun dei servi il morbo suo conosce.
  Né tale amore avrà sol questa fine:
  a Tesèo svelerò questo mistero,
  ché divenga palese; e con le sue
  maledizioni, darà morte il padre
  al giovinetto mio nemico: tale
  privilegio a Tesèo diede Posídone,
  che per tre volte a vuoto non cadessero
  le sue preghiere. E Fedra, ancor che grande
  sia la sua fama, pur morrà: ché tanto
  non m'importa il suo mal, ch'io, per tenerlo
  lungi da lei, conceda ai miei nemici
  la giusta pena non pagarmi, ond'io
  sia soddisfatta. Ma già vedo Ippòlito
  giungere, il figlio di Tesèo, che torna
  dalle fatiche della caccia. E lungi
  da questi luoghi andrò: gran turba muove
  con lui di servi, e ad alte grida Artèmide
  con gl'inni esalta. Egli non sa che schiuse
  già son per lui le porte dell'Averno,
  e che questa è per lui l'ultima luce.

(Cípride sparisce) (Entra Ippòlito, seguito da una schiera di servi) Ippòlito:

  Seguitemi, seguitemi,
  di Giove cantando la figlia,
  Artèmide, nostra patrona.

CORO DI SERVI:

  O santa, santa, veneratissimo
  di Giove gèrmine,
  salute, Artèmide, salute, o figlia
  di Giove e di Latona,
  bellissima fra quante
  vergini per l'intèrmine
  cielo, soggiornano nell'aule sante
  di Zeus, rutile d'oro.
  A te salute, Artèmide,
  de le fanciulle olimpie
  bellissimo decoro.

Ippòlito:

  Questa corona da un intatto prato,
  o Signora, ti reco, e l'intrecciai
  dove pastor la greggia mai non guida,
  né vi calò ferro di falce, e l'ape
  vola fra l'erbe intatte a primavera.
  E l'irrora con pure acque sorgive
  Verecondia, perché spiccarne fiori
  possan quanti in ogni atto ínsita in cuore
  hanno saggezza, e non appresa; e ai tristi
  non è concesso. Or tu, diletta Diva,
  accogli dalla man pia questo serto
  per l'aurea chioma: ché a me sol concesso
  è fra i mortali un dono tal, ch'io possa
  teco recarmi, e ricambiar parole,
  vedendoti non già, ma pure udendo
  la voce tua. Deh, come fu l'inizio,
  compiere io possa di mia vita il corso.

SERVO:

  O re - padroni i soli Dei chiamare
  conviene - udir vorresti un buon consiglio?

Ippòlito:

  Certo: se no, qual senno io mostrerei?

SERVO:

  Sai tu che legge agli uomini sovrasta?

Ippòlito:

  Non so: perché mi fai tale domanda?

SERVO:

  Fuggir superbia, e ciò che a tutti spiace.

Ippòlito:

  Certo: e quale superbo odio non merita?

SERVO:

  E non acquista simpatie l'affabile?

Ippòlito:

  Certo; e vantaggi assai, con poca pena.

SERVO:

  Fra i Numi non avvien, credi, il medesimo?

Ippòlito:

  Sí, poi che i lor costumi adottan gli uomini.

SERVO:

  Come una somma Dea tu allor non veneri?

Ippòlito:

  Quale? Un motto imprudente a te non sfugga.

SERVO:

  Costei che sta su la tua soglia: Cípride.

Ippòlito:

  La venero da lungi, io: ché son casto.

SERVO:

  Pur, venerata è fra i mortali, e celebre.

Ippòlito:

  Uomini o Dei, chi l'uno ama, chi l'altro.

SERVO:

  Equi sensi aver tu possa, e fortuna.

Ippòlito:

  Non amo Dei che riti notturni abbiano.

SERVO:

  Rendere ai Numi onor conviene, o figlio.

Ippòlito:

  Compagni, andate, rientrate in casa.
  Ciascun di voi provveda al cibo: è grata,
  dopo la caccia, una mensa imbandita.
  E custodir conviene anche i cavalli,
  sí ch'io, quando sarò sazio di cibo,
  sotto il carro, aggiogarli, esercitarli
  possa; e tanti saluti alla tua Cípride.

SERVO:

  E noi, poiché dei giovani l'esempio
  non conviene seguir, nutrendo i sensi
  che convengono a servi, alle tue statue
  omaggio renderò, divina Cípride.
  E tu perdona, se talun, protervo
  per la sua gioventú, chiude nel seno
  impetuoso cuore, e vane ciance
  contro te parla; e non udirlo. I Numi
  devono dei mortali esser piú saggi.

(Parte) (Entra nell'orchestra il Coro, composto di donne di Trezène) CORO: Strofe prima

  Una celebre roccia
  v'ha, che l'acque distilla dell'Ocèano,
  che ricche scaturigini
  versa, onde linfe attingono le càlpidi.
  Nel suo rorido corso
  qui tergeva i purpurei
  pepli un'amica mia, sovresso il tepido
  aprico alpestre dorso
  li stendeva; e qui pria
  parlare udii della signora mia:
                                      Antistrofe prima
  che su doglioso talamo
  il suo corpo si strugge fra gli spasimi,
  nella reggia, e di morbidi
  veli asconde la sua flava cesarie.
  La sua persona augusta
  già da tre dí purifica
  col digiuno, raccontano: di Dèmetra
  la spica ella non gusta;
  ma per segreta doglia
  toccar di morte vuol l'orrida soglia.
                                      Strofe seconda
  Alcun forse t'esàgita
  dei Numi, o Pan od ècate,
  o alcun dei Coribanti
  sacri, o la Diva dei montani vertici?
  O dei libami santi
  priva lasciasti la Dittínna vergine,
  ch'ora cosí ti stermina?
  Ella sopra la terra,
  e dove acque impaludano,
  e sui marini umidi vortici erra.
                                      Antistrofe seconda
  Oppur lo sposo, il nobile
  degli Erettídi principe,
  avvince di segreta
  passïone altra donna, in letto adultero?
  Oppur giunse di Creta
  qualche nocchiero al porto ospitalissimo
  su ogni altro ai nauti, una feral notizia
  recando alla Signora;
  ed essa pel cordoglio
  giace dei mal', nel talamo, e s'accora?
                                      Epodo
  Delle donne la debole
  difficil tempra, se d'amor delirio
  l'occupa, o nello spasimo
  dei parti, umor fastidïoso investe.
  Anche nel grembo mio spirò tale aura
  un giorno: ond'io preghiere
  rivolsi alla celeste
  Artèmide, che agevola
  i parti, e gode saettar le fiere:
  essa, con gli altri Dei
  sempre benigna accorre ai voti miei.

(La porta della reggia s'apre, e si vede giungere Fedra, sopra un giaciglio portato a braccia dalle ancelle. L'accompagna la vecchia nutrice) CORIFEA:

  Or vedi, alla porta dinanzi
  questa vecchia nutrice, che reca
  la signora qui fuori. Una nube
  odïosa le cuopre le ciglia.
  Il mio cuor di sapere ha vaghezza
  qual male distrugge
  la regina, e cosí la scolora.

NUTRICE:

  O sventura degli uomini, o morbi
  odïosi! Che cosa per te
  debbo fare? Che cosa non fare?
  è questa la luce, dell'ètere
  è questo il fulgore,
  è fuor dalla casa il giaciglio
  del morbo affannoso: ché questo
  badavi a ripetermi,
  ch'io qui t'adducessi. E fra poco
  tornar nelle stanze vorrai:
  ché presto ti stanchi, e di nulla
  t'allegri: ché quanto possiedi
  non ti piace, e migliori ti sembrano
  le cose lontane.
  Meglio esser malati, che cura
  aver di malati:
  il malato, patisce soltanto:
  chi lo cura, patisce e fatica.
  è tutta un affanno la vita
  degli uomini; e mai non ha requie
  dalle pene; ma, pur se v'ha stato
  della vita piú dolce, la tènebra
  fra sue nubi l'asconde; e ardentissimo
  amore ci vince di ciò
  che brilla sovressa la terra,
  perché sperïenza
  non abbiam d'una vita futura,
  né di quanto sotterra ci attende;
  ma di vane parole siam preda.

FEDRA:

  La persona reggetemi, il capo,
  amiche, reggetemi: tutte
  mi sento mancar le giunture.
  Le mie belle mani prendete,
  ancelle: del capo la benda
  sostenere m'è grave: toglietela:
  lasciate che i riccioli
  m'ondeggino sopra le spalle.

NUTRICE:

  Fa' cuore: con tanto fastidio
  non devi agitarti, figliuola.
  Piú facil sarà che il tuo morbo
  sopporti restando tranquilla,
  facendoti cuore: soffrire
  destino è degli uomini tutti.

FEDRA:

  Ahimè!
  Come attingere un sorso potrò
  d'acqua pura da rorido fonte?
  Quando mai mi potrò riposare
  sotto i pioppi, fra l'erbe d'un prato?

NUTRICE:

  O figlia, ché gemi?
  Dinanzi alla turba, parole
  non dir che a follia siano cònsone.

FEDRA:

  Conducetemi al monte: alla selva
  voglio andar, sotto i pini, ove, in traccia
  di fiere, le cagne si lanciano
  a ghermire i macchiati cerbiatti.
  Vo', pei Numi, la muta eccitare
  coi miei gridi, ed in pugno la tèssala
  zagaglia stringendo, all'altezza
  del biondo mio crine levando
  la mano, scagliare
  del dardo la cuspide aguzza.

NUTRICE:

  Figliuola, che vai delirando?
  Di cacce che cosa t'importa?
  Perché beveraggi sorgivi
  vai cercando? Vicino alla reggia
  è rorido il clivo
  ove attingere linfe tu puoi.

FEDRA:

  Signora di Limna marina,
  dei ginnasî sonori di scàlpiti,
  Artèmide, oh, s'io mi trovassi
  là dove i tuoi piani
  si stendono, i veneti corsieri a domare!

NUTRICE:

  Insensata, che nuove parole
  ti sfuggono? Or ora bramavi
  cacciare le fiere pei monti,
  ed ora i corsieri e le arene
  immuni dai flutti desideri.
  Bisogno c'è qui d'un oracolo
  saggio assai, che ci dica qual Nume,
  figlia mia, ti sconvolge la mente
  cosí, cosí t'agita.

FEDRA:

  O tapina, che ho fatto? Lontano
  dal senno, ove mai
  sviata mi sono? Io son folle,
  son preda al castigo d'un Dèmone.
  Ahimè, me tapina! Il mio capo
  di nuovo, o nutrice, nascondi.
  Mi vergogno di quello che ho detto:
  nascondimi: rompono lagrime
  dal mio ciglio, ed a scorno si volge
  l'occhio mio, ché tornare a ragione
  m'addolora. Un gran male è follia:
  pur, meglio è morir, senza avere
  del mal coscïenza.

NUTRICE:

  Ti cuopro. Ma quando la morte
  coprirà le mie membra? Assai cose
  il vivere lungo c'insegna.
  Oh, quanto conviene che gli uomini
  amicizie sol tepide intreccino
  l'un con l'altro, e non tali che giungano
  al midollo dell'alma. Gli affetti
  del cuore, tali esser dovrebbero
  che ognor si potessero
  rallentare, serrare, disciogliere.
  Ma se deve patire per due
  sola un'anima, come io patisco
  per costei, troppo grave è il tormento.
  Nella vita, lo zelo eccessivo
  nuoce, dicono, piú che non giovi,
  è nemico a salute. E cosí,
  non lodo l'eccesso
  del «nulla di troppo».
  Ed i saggi con me converranno.

CORIFEA:

  O vecchia, o tu della regina Fedra
  fida nutrice, io vedo questi eventi
  tristi, ma il morbo quale sia, lo ignoro.
  Chiederlo a te vorrei, da te saperlo.

NUTRICE:

  Glie l'ho chiesto, e non so: parlar non vuole.

CORIFEA:

  Né sai donde gli affanni ebber principio?

NUTRICE:

  Tu torni al punto stesso: il tutto tace.

CORIFEA:

  Come è debole, come s'è disfatta!

NUTRICE:

  E certo! Da tre dí cibo non prende.

CORIFEA:

  Pel morbo? O cerca, delirando, morte?

NUTRICE:

  La cerca: per morire essa digiuna.

CORIFEA:

  Ed il suo sposo lo sopporta? è strano.

NUTRICE:

  La doglia asconde, il morbo ella non svela.

CORIFEA:

  Ed ei non l'arguisce al sol vederla?

NUTRICE:

  Lungi da questa terra ora si trova.

CORIFEA:

  E con la forza tu saper non tenti
  quale il suo morbo, la follia qual è?

NUTRICE:

  Tutto ho tentato, e a nulla io sono giunta.
  Né dal mio zelo io pur desisterò,
  sí che tu di persona assista, e possa
  veder con gli occhi tuoi qual è il mio cuore
  verso i signori sventurati. - Orsú,
  dimentichiamo, cara figlia, entrambe,
  i discorsi di prima; e tu piú mite
  divieni, e spiana il sopracciglio, e cangia
  il corso dei pensieri; ed io, se feci
  qualche impronto discorso, or vi rinuncio,
  e meglio parlerò. Se tu d'un male
  intimo soffri, siamo qui noi donne
  per curare il tuo morbo: ove sia tale
  la doglia tua, che possa dirsi agli uomini,
  dilla, e sarà significata ai medici. -
  Ebbene? Taci? Perche mai? Tacere
  non devi, o figlia, ma d'error convincermi,
  se pure ho torto. Ma se dico bene,
  tu dai miei detti esser convinta. Parla,
  qui rivolgi lo sguardo. Oh me tapina!
  Vane le nostre pene, o amiche, furono:
  lungi siam come pria dal nostro assunto:
  né detto allor poté molcirla, né
  or si convince. Me ben sappi questo,
  e poi, del mare piú inflessibil móstrati:
  se tu morrai, sarai la traditrice
  dei figli tuoi, li priverai dei beni
  paterni, affè della regina Amàzzone,
  di cavalli maestra, onde un padrone
  nacque ai figliuoli tuoi, bastardo, eppure
  di legittimi sensi: lo conosci
  bene: Ippòlito.

FEDRA:

  Ahimè!

NUTRICE:

  Ti scuoti alfine?

FEDRA:

  O nutrice, m'uccidi! Ah, di quell'uomo,
  ti prego per gli Dei, piú non parlarmi!

NUTRICE:

  Vedi? Comprendi; e comprendendo, al figlio
  giovar, salvar la tua vita rifiuti.

FEDRA:

  Amo i figli: mi cruccia un altro turbine.

NUTRICE:

  Pure le mani hai tu di sangue, o figlia?

FEDRA:

  Pure ho le mani: è il cuor contaminato.

NUTRICE:

  Per cordoglio? Un nemico a te l'infligge?

FEDRA:

  Anzi, un amico, a mio malgrado, e suo.

NUTRICE:

  Contro te, reo d'alcuna colpa è Tesèo?

FEDRA:

  Mai non sia detto ch'io gli rechi offesa.

NUTRICE:

  Quale ti spinge a morte orrido evento?

FEDRA:

  Lascia ch'io pecchi: contro te non pecco.

NUTRICE:

  Non di tuo grado: eppur tu mi fai torto.

FEDRA:

  Che fai? Forza mi fai? La man m'afferri?

NUTRICE:

  E le ginocchia; e non ti lascerò.

FEDRA:

  Danno per te sarà, danno il sapere.

NUTRICE:

  Quale per me danno maggior, che il perderti?

FEDRA:

  Ne morrò ma tal cosa è che m'onora.

NUTRICE:

  T'onora: ed io ti prego, e tu lo ascondi?

FEDRA:

  Perché dalla vergogna il ben preparo.

NUTRICE:

  Parla; e l'onore tuo sarà piú grande.

FEDRA:

  Per gli Dei, lascia la mia mano, lasciala.

NUTRICE:

  No, ché il dono bramato a me non desti.

FEDRA:

  Lo avrai: rispetto la tua mano supplice.

NUTRICE:

  E dunque, taccio: a te spetta parlare.

FEDRA:

  Di quale amore ardesti, o madre misera!

NUTRICE:

  Dici quello pel toro? O quale, o figlia?

FEDRA:

  Grama sorella, e tu sposa a Dïòniso!

NUTRICE:

  Che dici, o figlia? I tuoi parenti oltraggi?

FEDRA:

  E come io, terza, son perduta, o misera!

NUTRICE:

  Mi pervade stupore. A che vuoi giungere?

FEDRA:

  Fin da quei tempi, e non da or, son misera.

NUTRICE:

  Nulla ancor so di quanto saper bramo.

FEDRA:

  Ahimè!
  Quanto udir da me vuoi, ché tu non dici?

NUTRICE:

  Profetessa non son, l'occulto ignoro.

FEDRA:

  Che cosa è ciò che amor chiamano gli uomini?

NUTRICE:

  è dolcissima cosa, e insiem dogliosa.

FEDRA:

  Dunque, la sola doglia io proverei.

NUTRICE:

  Che dici, figlia? Un uomo ami? E chi mai?

FEDRA:

  Quale ch'ei sia, quel figlio dell'Amàzzone...

NUTRICE:

  Dici Ippòlito?

FEDRA:

  Tu, non io lo dico.

NUTRICE:

  Ahimè, figliuola, che vuoi dire? Tu
  mi dài la morte. Amiche, io piú non reggo,
  viver non posso. Ah, maledetto giorno,
  questo ch'io veggo, ah, maledetta luce!
  Gittare voglio il corpo mio, morire,
  lasciar la vita. Addio. Morta sono io.
  A lor malgrado, pure si rassegnano
  i saggi, ai mali; e non è Diva, Cípride,
  ma piú che Diva, se si può: ché stermina
  me, la signora mia, la casa tutta.

(Parte disperata) CORO:

  Udisti, udisti i gemiti
  della signora mia?
  Mali orrendi ella soffre, inesprimibili.
  Pur, non si compia il tuo desire! Pria
  morir voglio, o diletta.
  Ahimè, ahimè, misera te, che spasimi!
  Ahimè, cordogli onde si nutron gli uomini!
  Tu sei perduta: hai svelato l'obbrobrio!
  Pria che declini il dí, che mal t'aspetta?
  A novello si volge, a funesto esito
  la casa. Omai, di Cípride la mèta
  è chiara, o figlia misera di Creta.

FEDRA:

  O donne di Trezène, a cui quest'ultimo
  della terra Pelopia atrio è soggiorno,
  nelle lunghe ore della notte, io spesso
  ho meditato per che via si guasta
  la vita dei mortali. A me non sembra
  che la lor sorte pèggiorino gli uomini
  per men di senno: in molti ínsito è il senno.
  Conviene, invece, riflettendo, questo
  concetto aver: che coscïenza e lume
  abbiam del bene, e non lo pratichiamo,
  chi per pigrizia, e chi perché prepone
  qualche piacere al bene. Assai piaceri
  offre la vita: l'ozïar, ch'è male
  e insiem diletto; e la prolissa ciancia;
  e il pudor v'ha, ch'è di due specie: l'una
  trista non è, l'altra le case stermina;
  ma se distinguer l'un dall'altro agevole
  fosse, un sol nome entrambi non avrebbero.
  Or, poi che tali verità conosco,
  non c'è farmaco ond'io possa obliarle,
  e ad altro segno la mia mente volgere.
  E ti dirò qual via batte il mio spirito.
  Poi che l'amore mi ferí, cercai
  come potessi agevolmente piú
  reggerne il peso. E cominciai da prima
  a celare il mio morbo, a restar muta:
  poiché fiducia nella lingua avere
  non puoi, che ammaestrar l'altrui pensiero
  ben sa, ma gravi traversie procura
  a se stessa, da sé. Poscia, pensai
  sopportar questa mia follia, domandola
  con la saggezza. E quando infine vidi
  ch'io non potea con ciò vincere Cípride,
  deliberai d'uccidermi: consiglio,
  chi negare lo può?, risolutissimo.
  Deh, non sia ciò, che quando il bene io faccio
  resti celato, e quando il male, m'abbia
  copia di testimonii. Ed il mio stato
  e la mia malattia, sapevo ch'era
  vituperosa; e ch'io, femmina essendo,
  l'odio sarei di tutti quanti. Oh, piombi
  la mala morte su colei che prima
  tradí lo sposo con estranei drudi.
  E dalle case incominciò dei nobili
  questa vergogna fra le donne a spargersi:
  ché quando ai grandi alcuna turpitudine
  piace, ben presto piace essa anche ai piccoli.
  Ed anche quelle donne odio, che caste
  sono a parole, e di soppiatto indulgono
  a tristi audacie. O veneranda Cípride,
  e come gli occhi alzar nel viso possono
  al loro sposo? E il buio non paventano,
  complice loro, e della casa i tetti,
  che levino la voce? - Ecco che cosa,
  amiche mie, mi spinge a morte. Oh, ch'io
  mai non sia còlta a svergognar lo sposo,
  né del mio grembo i figli. Oh, ch'essi vivano
  liberi, e franca alzar la voce possano,
  grazie al buon nome della madre, nella
  celebre Atene: poiché servo è un uomo,
  anche d'ardito cuor, se coscïenza
  ha d'un materno, d'un paterno fallo.
  Sola una cosa ha pregio, a quanto dicono,
  non minor della vita: aver bontà
  e giustizia nel cuore. Al punto giusto
  scopre il tempo i malvagi, ed uno specchio,
  come ad una fanciulla, a loro innanzi
  pone. Deh, ch'io non sia del loro numero!

CORIFEA:

  Deh, come il senno in ogni luogo ha pregio,
  e buona fama tra i mortali coglie!

(Torna la nutrice) NUTRICE:

  La tua disgrazia, o mia regina, or ora
  di terrore m'empie' súbito, orrendo;
  ma, ben lo vedo, una dappoco fui.
  I primi impulsi non son mai per gli uomini
  i piú saggi. Non è ciò che t'accade
  straordinario e fuor d'ogni proposito.
  La furia della Dea su te piombò:
  innamorata sei. Che c'è di strano?
  In compagnia tu sei di molte: e vuoi
  morir per causa dell'amore? Duro
  sarebbe amare od all'amore accingersi,
  quando morir se ne dovesse. A Cípride
  facil non è fare contrasto, quando
  impetuosa piomba. Ella soave
  a chi cede s'appressa, e invece, quando
  trova un superbo, un'anima orgogliosa,
  che credi tu?, lo afferra e ne fa strazio.
  E per l'aure si libra, erra del mare
  tra i flutti, Cipri, e da lei tutto ha vita.
  Essa è colei che semina, che infonde
  d'amor la brama, e tutti abbiamo origine
  da lei, quanti viviam sopra la terra.
  E quanti san le antiche storie, e quanti
  vivono fra le Muse essi medesimi,
  sanno che Giove, di Semèle il talamo
  desiderò, sanno che un giorno Aurora,
  la radïosa, per amore, Cèfalo
  rapí fra i Numi. E tuttavia, nel cielo
  dimorano essi, e gli altri Dei non fuggono,
  e ad esser vinti, credo, si rassegnano
  dal loro fato: e tu non vorrai cedere?
  Ad altri patti, e non umani, il padre
  generarti dovea, sotto l'impero
  d'altri Numi, se tu non vuoi piegarti
  a queste leggi. Tu non sai quanti uomini
  pieni di senno, la vergogna vedono
  dei loro tetti, e d'ignorarla fingono.
  E quanti padri ai figli lor che fallano,
  non dànno aiuto a tollerare Cípride?
  Ché fra i mortali saggia usanza è questa:
  nasconder ciò che non è bello. E a troppa
  perfezïon la propria vita volgere
  l'uomo non deve: ché neppure i tetti
  onde coperte ha le sue case, può
  rifinir troppo sottilmente. Or tu,
  che sei caduta in simile sciagura,
  come speri salvarti? Orvia, se i beni
  nella tua vita superano i mali,
  poi che mortale sei, felice ancora
  esser potresti. O figlia mia, desisti
  dai funerei pensieri e dagli oltraggi:
  ché i Numi oltraggi, se presumi d'essere
  da piú di loro. Fatti cuore, ed ama.
  Un Dio lo volle. E poi che sei malata,
  d'alleggerire il morbo tuo procura.
  Incantesimi sono, e son parole
  che leniscono il duolo: un qualche farmaco
  si troverà di questo morbo: gli uomini
  lo troverebber tardi assai, qualora
  prive noi donne di scaltrezza fossimo.

CORIFEA:

  Quanto dice costei, meglio conviene
  al tuo caso presente; eppure, o Fedra,
  le tue parole approvo; e la mia lode
  è per te piú sgradita, è piú dogliosa
  delle parole che costei ti volge.

FEDRA:

  Ecco che cosa le città degli uomini
  popolose distrugge, e le famiglie:
  il troppo ornato favellar: ché quello
  dir non conviene che le orecchie molce,
  ma quello onde s'acquista egregia fama.

NUTRICE:

  A che discorsi tanto eccelsi? Tu
  non hai bisogno di parole belle;
  ma dell'uomo indagar convien la mente
  quanto prima, e parlargli apertamente
  dei casi tuoi. Ché se non fossi in tanta
  calamità, se la ragione intatta
  serbassi, credi tu che, per indulgere
  ai tuoi piaceri, all'amor tuo, potrei
  spingerti a tanto? Ma il cimento è grande,
  ora: salvarti; e biasimo io non merito.

FEDRA:

  O parole esecrande! Il labbro serra:
  non pronunciar piú mai turpi discorsi.

NUTRICE:

  Turpi, ma piú proficuï per te
  dei virtuosi. I fatti che ti salvano,
  meglio per te delle parole valgono
  onde gloria con morte aver tu debba.

FEDRA:

  No, per i Numi, oltre non dir: ché belle
  son le parole tue, ma disoneste.
  E schiava è dell'amor l'anima mia;
  e se bello a parole il mal mi fingi,
  temo in esso cadere; ed io lo fuggo.

NUTRICE:

  Se cosí pensi, errar tu non dovevi.
  Ma, poi ch'errasti, dammi retta, accordami
  un'altra grazia. Or mi sovviene. In casa
  filtri posseggo che l'amor molciscono,
  onde senza vergogna e senza danno
  di tua ragione, sarà vinto il morbo
  tuo, se tu non sei vile. Ora, dell'uomo
  che brami, aver conviene un qualche simbolo,
  una qualche parola, oppure un brano
  del suo manto, e due vite in una fondere.

FEDRA:

  Da bere o da spalmare, è questo farmaco?

NUTRICE:

  Non so: cerca salute e non scïenza.

FEDRA:

  Temo che tu troppo per me sia scaltra.

NUTRICE:

  E tu pavida troppo: di che temi?

FEDRA:

  Al figlio di Tesèo non far parola.

NUTRICE:

  Lasciami fare: io tutto disporrò
  pel meglio. Solo tu, divina Cípride,
  assisti l'opra mia. Dentro, agli amici
  quanto altro penso basterà ch'io dica.

CORO: Strofe prima

  Amore, Amor, che stilli da le pàlpebre
  il desiderio, e in cuore un piacer languido
  infondi a quelli sopra cui precipiti,
  deh, mai su me non voler tu con impeto
  immoderato irrompere.
  Poiché tanto non pènetra
  del fuoco il dardo, o quel che gli astri vibrano,
  quanto quello di Cípride,
  cui di sua mano lancia
  Amor, di Giove figlio.
                                      Antistrofe prima
  Invano, invano, dell'Alfèo sui margini
  e d'Apolline presso ai templi pítici
  stragi di buoi l'ellèna gente accumula,
  se Amore poi, che despota è degli uomini,
  che d'Afrodite è germine,
  che le chiavi del talamo
  genïale possiede, non si venera,
  che, se nei cuor' s'insinua,
  manda in rovina gli uomini,
  e mille danni provoca.
                                      Strofe seconda
  La puledra non dòmita
  ancor dal giogo, d'Ecalía nei talami,
  di sposo anche inesperta, ancora vergine,
  dalla casa rapí, sovresso il pelago,
  Nàiade fuggitiva, errante Mènade,
  fra la strage, l'incendio,
  fra nozze di sterminio,
  la Dea Cipria; e d'Alcmèna
  la diede al figlio: ahimè, nozze di pena!
                                      Antistrofe seconda
  Voi, di Tebe santissime
  mura, potete dir, voi, scaturigini
  di Dirce, quanto il poter sia di Cípride.
  Di Bromio essa la madre, a cui la folgore
  cinta di fiamme fu nuzïal talamo,
  sopiva nel sanguíneo
  destino. Essa, terribile,
  dovunque sia, s'aggira,
  e, come ape volando, alita l'ira.

(Dall'interno della reggia giungono le grida di un'aspra contesa) FEDRA:

  Tacete, amiche mie: perduta io sono.

CORIFEA:

  Che avvien di grave entro la reggia, o Fedra?

FEDRA:

  Tacete, voci n'escono: ch'io l'oda.

CORIFEA:

  Taccio; ma questo è pur tristo preludio.

FEDRA:

  Ahimè, ahimè!
  Me sventurata! O patimenti miei!

CORIFEA:

  Che cosa dici? Che grida ti sfuggono?
  Di che novella improvvisa, o Signora,
  cosí ti sgomenti?

FEDRA:

  Sono perduta: a questa porta apprèssati,
  e ascolta qual tumulto empie la casa.

CORIFEA:

  Tu sei lí presso: le grida che n'escono
  tu puoi bene intendere.
  Oh dimmi, dimmi, che mal sopraggiunse?

FEDRA:

  Contro la mia nutrice alte minacce
  scaglia Ippòlito, il figlio dell'Amàzzone.

CORIFEA:

  N'odo la romba; ma chiaro non odo
  il grido che a te
  arriva, arriva traverso la porta.

FEDRA:

  E mezzana d'infamie, e traditrice
  del talamo del re, chiaro la chiama.

CORIFEA:

  Ahimè, sciagura! Tradita tu sei!
  Che mai dir ti posso?
  Tu sei perduta, svelato è l'arcano.

FEDRA:

  Ahimè, ahimè!

CORIFEA:

  Dagli amici tradita!

FEDRA:

  Disse il mio male, e mi perdei: benevola
  fu nella cura sua, ma poco onesta.

CORIFEA:

  Ed or, che potrai fare, in tal distretta?

FEDRA:

  Nulla io so, tranne un punto: a me morire
  quanto prima conviene: ai mali ch'ora
  soffro, la medicina unica è questa.

(Fedra si gitta sul lettuccio, e rimane celata agli occhi di Ippòlito, che esce quasi súbito, seguíto dalla nutrice, che tenta invano di calmarlo) Ippòlito:

  O terra madre, o tramiti del sole,
  di che parole turpi udito ho il suono!

NUTRICE:

  Taci, pria che i tuoi gridi, o figlio, s'odano!

Ippòlito:

  Tacere, poi che udii simili orrori?

NUTRICE:

  Sí, per la destra tua, pel tuo bell'omero.

Ippòlito:

  La man discosta, non toccarmi il peplo.

NUTRICE:

  In ginocchio t'imploro, oh, no, non perdermi.

Ippòlito:

  Se dici che non son tristi, i tuoi detti?

NUTRICE:

  Ma non tali che tutti udirli possano.

Ippòlito:

  Il bello, è bello innanzi a molti esprimerlo.

NUTRICE:

  I giuri tuoi non vïolare, o figlio!

Ippòlito:

  Giurò la lingua, non giurò la mente.

NUTRICE:

  O figlio, che vuoi far? gli amici perdere?

Ippòlito:

  Nessun malvagio amico è mio. Vi aborro.

NUTRICE:

  Figlio, perdona: sbaglia ogni mortale.

Ippòlito:

  Giove, perché questa magagna rea
  degli uomini, le donne, a luce desti?
  Se tu volevi seminare il germine
  dei mortali, alle donne uopo non era
  ricorso avere; ma doveano gli uomini
  nei templi tuoi deporre un peso d'oro,
  o di ferro, o di rame, e fare acquisto
  del seme dei figliuoli, indi, ciascuno
  in ragione del prezzo, e in casa vivere
  liberi, senza donne. Adesso, invece,
  per introdurre il reo flagello in casa,
  perduti van delle famiglie i beni.
  E che gran male sia la donna, basta
  a dimostrarlo questo solo: il padre
  che la nutrí, la generò, la manda
  fuori di casa, e sborsa anche la dote,
  purché libero sia da quel malanno.
  E quegli, invece, che in sua casa accoglie
  questa genía calamitosa, gode
  nel ricoprire l'idolo esecrabile
  con gli ornamenti belli, e s'arrapina
  intorno ai pepli, misero, e in rovina
  manda la casa. Ed è, necessità.
  Ché, se coi grandi s'imparenta, deve
  far lieto viso a un matrimonio tristo.
  Se poi buona è la sposa, e son da poco
  i suoi parenti, soffocare ei deve
  con le belle apparenze i suoi dolori.
  Il meglio per un uomo è avere in casa
  una donna da nulla, anche se inetta
  e sempliciona: le saccenti aborro.
  Deh, mai, mai quella donna in casa mia
  non entri, che presuma oltre il suo sesso!
  Ché la malvagità suscita Cípride
  di preferenza nelle scaltre: invece,
  di semplicetta nell'angusta mente
  meno ha ricetto la follia d'amore.
  Né mai dovrebbe alcuna ancella presso
  stare alle donne, ma le mute gole
  sol delle fiere, sí che non potessero
  ad alcuno parlar, né voce intenderne.
  Ché le persone tristi intrighi intessono
  in casa, e fuor li portano le ancelle:
  come ora tu, ribalda vecchia, vieni
  a me, per far del talamo intangibile
  del padre mio, mercato: ond'io con fluida
  acqua mi monderò, dentro le orecchie
  la verserò. Come alla taccia posso
  di tristizia sfuggir, quando mi sento
  per gli orrori che udii, contaminato?
  O donna, e tu sappilo bene: salva
  ti fa la mia religïon: se, còlto
  di sorpresa, giurato io non avessi
  pei Numi, stato io non sarei, che tutto
  al padre io non svelassi. Or dalla casa,
  finché Tesèo lontano è dalla patria,
  io me n'andrò: sarà muto il mio labbro.
  E con mio padre tornerò, vedrò
  come potrai fissarlo in viso, tu
  e la signora tua, saprò per prova
  l'audacia tua, sino a qual punto arriva.
  Alla malora! D'odïar le femmine
  io mai non sarò sazio, anche se dicono
  che mi ripeto sempre: anch'esse, dico,
  sono sempre perverse. O le ammaestri
  alcuno ad esser sagge, o sia concesso
  a me, che sempre contro esse mi scagli.

(Parte) CORO: Antistrofe

  Ahi, triste sorte misera
  della donnesca vita!
  Quali arti usar, che dir, poiché di sciogliere
  questo nodo ogni speme è omai vanita?

FEDRA:

  Su me piombò giustizia.
  O terra, o luce, ove fuggir lo spasimo?
  Come, o diletta, il mio cordoglio ascondere?
  Qual dei Celesti mai, quale degli uomini
  assistermi vorrà? Di mia nequizia
  complice farsi chi vorrà? La doglia
  che la mia vita affligge, è troppo dura:
  piú che ogni donna me preme sventura.

CORO:

  Ahi, ahi, tutto è perduto, e vane furono
  di tua ministra l'arti: or tutto è male.

FEDRA (Alla nutrice):

  O trista fra le tristi, o degli amici
  sterminatrice, che m'hai fatto? Un folgore
  t'avventi Giove, il mio parente, e in polvere
  ti strugga. Preveduto il tuo disegno
  io non avevo, non t'avevo detto
  di tacere il segreto ond'ora io muoio?
  Ma tu non ti frenasti; e senz'onore
  ora morrò. Ma concepire devo
  nuovi disegni: ché costui, con l'animo
  dall'ira inacerbito, svelerà
  al padre, in odio a me, l'astuzia tua,
  al vecchio Pítteo svelerà gli eventi,
  ed empierà di vergognose ciance
  tutta la terra. A te la morte, e a chi,
  per eccesso di zel, reca agli amici
  recalcitranti un disonesto aiuto.

NUTRICE:

  Regina, a buon diritto il danno biasimi
  ch'io ti recai: ché il duolo onde sei morsa
  la ragione t'offusca. Eppure, anch'io,
  se lo concedi, replicar potrei.
  Io t'ho cresciuta, a te sono devota;
  e pel tuo morbo un farmaco cercando,
  quello trovai che non bramavo. Se
  m'avesse arriso l'esito, fra i saggi
  sarei cantata: ché secondo il volgere
  degli eventi, si piega il nostro spirito.

FEDRA:

  è giusto questo, soddisfar mi può,
  che m'hai ferito a morte e ne convieni?

NUTRICE:

  Troppo si ciancia. Io non fui saggia. Eppure
  c'è modo ancora di salvezza, o figlia.

FEDRA:

  Taci, piú non parlar: tristi già furono
  i tuoi primi consigli, e mano desti
  a un'opera funesta. Adesso vattene,
  e pensa alla tua sorte: alla mia, bene
  provvederò da me. Voi, di Trezène
  bennate figlie, a me che ve ne prego
  questo accordate: sopra quanto udiste
  qui, distendete del silenzio il velo.

CORIFEA:

  Dei mali tuoi, lo giuro per Artèmide
  figlia di Giove, io nulla svelerò.

FEDRA:

  Te ne ringrazio. Ora, io, solo un rimedio,
  con la mente scrutando, ho ritrovato
  per la sciagura mia, tal, che onorata
  dei miei figli la vita io renderò,
  ed io dal male ove caduta sono
  avrò sollievo. Mai non macchierò
  la progenie di Creta; e non andrò,
  dopo vituperosi atti, al cospetto
  di Tesèo, per salvar sola una vita.

CORIFEA:

  T'accingi forse a un male irrimediabile?

FEDRA:

  A morire. Ma come, avviserò.

CORIFEA:

  Non dir tristi parole!

FEDRA:

  E tu non darmi
  tristi consigli: ch'io, la vita mia
  oggi lasciando, farò lieta Cípride
  che mi distrugge. Da un amore amaro
  vinta sarò; ma la mia morte un male
  per altri anche sarà, ché dei miei mali
  non vada altero; ma, partecipando
  questo morbo, a far senno apprenderà.

(Si fa ricondurre entro la reggia) CORO: Strofe prima

  Deh, fossi in antri eccelsi, inaccessibili,
  e qui la Dea, fra le progenie etèree,
  mi mutasse in aligero!
  Levarmi allora sul maroso ch'èstua
  vorrei dell'Adrïàtico,
  o su le sponde e l'acque dell'Erídano,
  dove le figlie di Fetonte, gemiti
  levando, nei purpurei
  flutti del padre, misere
  lagrime d'ambra stillano.
                                      Antistrofe prima
  O su la spiaggia che di pomi è fertile
  m'affretterei delle canore Espèridi,
  dove il re del purpureo
  gorgo la via piú non concede ai nauti,
  del cielo ai sacri limiti
  stando: Atlante lo regge; e presso al talamo
  di Giove, quivi ambrosie fonti sgorgano.
  E quivi la santissima
  terra, perenni gioie
  per i Celesti accumula.
                                      Strofe seconda
  O tu dall'ali candide
  nave cretese, che traverso al sònito
  adducesti del pelago,
  dalla beatitudine
  della sua casa, la regina, a gaudio
  di nozze funestissime!
  Da due terre, o dall'unico
  suol di Creta, salpò con tristo auspicio
  verso Atene la celebre.
  Ed al lido Muníchio
  strinsero i capi delle attorte gómene,
  ed a terra balzarono.
                                      Antistrofe seconda
  Per questo, da terribile
  morbo d'un empio amor, spezzata l'anima
  ebbe, mercè di Cípride.
  Ed or, piombando naufraga
  nella fiera sciagura, appeso un laccio
  al tetto del suo talamo,
  v'adatterà la candida
  gola, per onta della rea dimonia.
  Ché preferisce termine
  porre alla vita, ed integra
  serbar la fama, e questo amor di spasimo
  lungi tener dall'anima.

(Giunge correndo un'ancella) ANCELLA:

  Ahimè, ahimè!
  Quanti siete qui presso, aiuto! Appesa
  s'è la regina, di Tesèo la sposa.

CORIFEA:

  è spenta! Ahimè, ahimè, piú la regina
  non vive, è spenta, giú dal laccio penzola!

ANCELLA:

  Non v'affrettate? Un affilato ferro
  chi reca, e dalla gola il nodo tronca?

PRIMO SEMICORO:

  Che fare, amiche? Entriamo, e dalla stretta
  sciogliam dei lacci la signora nostra?

SECONDO SEMICORO:

  E che? Non ha giovani ancelle? Scevro
  non è da rischi l'eccessivo zelo.

ANCELLA:

  Stendete, indi levate il corpo misero,
  dalla casa del re tristo custode.

CORIFEA:

  Spenta, a quanto odo, è già la donna misera:
  già la stendono, a guisa d'un cadavere.

(Entra improvviso, correndo agitatissimo, Tesèo) Tesèo:

  Donne, sapete qual grido sia questo
  ch'entro la reggia suona? Un alto strepito
  dei famigli mi giunse. E me, che giungo
  dal consulto del Dio, degno non reputa
  la casa mia che gli usci mi si schiudano,
  che lietamente mi si accolga. Forse
  qualche calamità nuova, percosse
  di Pittèo la vecchiaia? Avanti molto
  egli è già nella vita; eppur dogliosa
  la sua partenza mi sarebbe assai.

CORIFEA:

  Non colpí vecchi la sciagura: giovani,
  morendo, il cuor ti crucceranno, o re.

Tesèo:

  Ahimè! dei figli alcun mi fu rapito?

CORIFEA:

  No: la lor madre morte ebbe crudissima.

Tesèo:

  Che dici? Spenta è la mia sposa? E come?

CORIFEA:

  A un laccio appeso la sua gola strinse.

Tesèo:

  Vinta dal duolo? O per quale sciagura?

CORIFEA:

  Sol questo io so: che or or giunsi alla reggia
  per piangere, Tesèo, le tue sciagure.

Tesèo:

  Ahi! Di foglie intrecciate a che la fronte
  ho dunque cinta, se a vedere giungo
  un tanto orror? Si levino le spranghe,
  delle porte le imposte, o servi, s'aprano,
  ch'io la mia sposa scorga, orrida vista,
  che, la morte a sé dando, uccise me.

(Si apre nuovamente la porta della reggia, e famigli portano la salma di Fedra) CORO:

  Ahi, ahi, misera, o tua calamità!
  Compiuta hai, perpetrata una tale opera
  onde la casa tua sconvolta andrà.
  Ahimè, ahimè, con empio
  con vïolento scempio,
  per opra dell'ardita
  mano tua muori. Oh misera,
  chi dunque a te, chi
  spense a te la vita?

Tesèo: Strofe prima

  Oh miei travagli! Patii, cittadini,
  la mia piú cruda sciagura. Oh fortuna!
  Come piombi su me, su la mia stirpe!
  Macchia inattesa onde mi brutta un Dèmone!
  è la mia vita distrutta: possibile
  non è ch'io viva. M'avvolge un tal pelago
  di guai, ch'esser non può ch'io non v'anneghi,
  che da tante sciagure in salvo emerga.
  Quali parole trovare che dicano,
  misera donna, la trista tua sorte?
  Dalle mani sfuggita, a mo' d'alígero
  mi sei, con un balzo agile, nell'Ade.
  Ahimè, spasimi, ahimè, spasimi orribili!
  Per voler degli Dei,
  dai tempi antichi sopra me piombarono,
  pei misfatti di alcun degli avi miei.

CORIFEA:

  Non su te solo, o re, piombò tal sorte:
  la sposa egregia molti altri perderono.

Tesèo: Antistrofe prima

  Sotterra voglio, nel buio discendere,
  spento abitare vo' lí nelle tènebre,
  or che la compagnia tua dolce perdo.
  A me ben piú che a te desti la morte.
  Da chi saprò? Sul tuo cuore, infelice,
  donde proruppe il funereo destino?
  Chi mi sa dir che avvenne? O invano serra
  tal folla di ministri il mio palagio?
  Oh me tapino! Che strazio ho veduto
  della mia casa! Ridirlo non so,
  tollerarlo non so: perduto io sono.
  Vuota è la casa, sono orfani i figli.
  Ahimè, tu m'hai lasciato, o dilettissima,
  o l'ottima fra quante
  donne del sol contempla il raggio fulgido
  o della notte il folgorío stellante.

CORO:

  Misero, quali sciagure piombarono
  su la tua casa? .................
  .................................
  .........  a me s'inondano di lagrime,
  per questa tua sciagura,
  le pàlpebre ed un brivido,
  pel futuro destin già m'impaura.

Tesèo (Si accorge che Fedra stringe nella morta mano una lettera):

  Che è mai ciò? Qual nuovo caso annuncia
  questa lettera appesa alla man cara?
  Forse dei figli miei, forse del talamo
  l'infelice mi scrisse, e alcuna istanza
  a me rivolse? O misera, fa' cuore,
  in questa casa piú non entrerà
  donna nel letto di Tesèo. - Le impronte
  mi lusingano l'occhio, onde l'anello
  della defunta è nel castone impresso.
  Ma via, ch'io sciolga questi lacci, e veda
  che cosa a me vuol dire questa lettera.

CORO:

  Ahi, ahi, novello male ai prischi un Dèmone
  aggiunge. Or che cosí gli eventi volsero,
  la vita sopportar piú non saprei.
  Ahimè, ahimè, precipita,
  spersa è la casa dei signori miei.
  Se lecito è pur, Dèmone,
  la mia preghiera ascolta: non abbattere
  questa casa; ch'io giungere
  vedo, quasi indovina,
  e non so donde, auspíci di rovina.

Tesèo (Aperta la lettera, la legge, erompe in un urlo d'orrore):

  Ahimè, che male ai mal s'aggiunge, tale
  da non patir, da non ridir! Me misero!

CORIFEA:

  Che c'è? Se degna me ne credi, dimmelo.

Tesèo:

  Grida, grida la lettera
  orrori intollerabili.
  Dove fuggire il peso dell'obbrobrio?
  Morto sono io, la vita m'abbandona.
  Deh, qual caso funesto,
  in queste cifre, o me misero, suona!

CORIFEA:

  Ahimè, preludio di sventura è questo!

Tesèo:

  Della bocca nei claustri
  trattener non conviene
  questo mal rovinoso, esizïale?
  O Atene, o Atene!
  (Si volge ai coreuti)
  Far vïolenza al mio talamo Ippòlito
  osò, spregiò l'occhio di Giove augusto!
  O padre mio Posídone, che compiere
  tre dei miei voti promettesti un giorno,
  con l'uno d'essi ora il mio figlio uccidi:
  se la promessa tua fu pur verace,
  fa' ch'oltre questo giorno ei piú non viva.

CORIFEA:

  Questo voto depreca, io te ne supplico:
  ché poi vedrai come t'inganni: credimi.

Tesèo:

  Non può essere! E poi, lo bandirò
  da questa terra: o l'una sorte, o l'altra
  colpir lo deve: o lui spento Posídone
  alle porte d'Averno invïerà,
  i miei voti compiendo, o, errando profugo,
  lungi da questo suol, su terra estranea
  terminare dovrà grama la vita.

CORIFEA:

  Vedi, opportuno ei stesso giunge, Ippòlito.
  Dall'ira trista, o re, desisti, e assumi
  consiglio tal che alla tua casa giovi.

Ippòlito:

  T'udii gridare, e accorsi in fretta, o padre.
  Ignoro il caso onde tu gemi, e apprenderlo
  da te stesso vorrei. Ma che è ciò?
  Della tua sposa il corpo estinto vedo,
  o padre mio? Gran meraviglia è questa.
  Or ora la lasciai, non da gran tempo,
  che questa luce contemplava. Or come
  morí? Padre, da te saper lo bramo.
  Taci? Nei mali, a che giova il silenzio?
  Di curïosità, pure nei lutti
  l'anima pecca, e udir tutto desidera.
  Giusto non è che i tuoi malanni, o padre,
  a chi t'è amico, e piú che amico, celi.

Tesèo:

  Deh, quanto, invano, uomini, errate! A che
  esser di mille e mille arti maestri,
  a che mai tante indagini e scoperte,
  se non sapete e non cercate il modo
  che senno acquisti chi di senno è privo?

Ippòlito:

  Saggio sarebbe assai l'uom che costringere
  a far senno potesse i dissennati.
  Ma perché, padre, in tempo inopportuno
  tu sottilizzi, io temo ch'oltre il segno
  la tua parola pel dolor trascorra.

Tesèo:

  Ahimè, dovrebbe degli amici esistere
  chiara una prova, un indice sicuro
  dei sentimenti, chi verace, e chi
  sia falso amico: due voci dovrebbe
  avere ciascun uomo, e l'una giusta,
  come pur fosse, sí che la mendace
  da quella onesta smascherata fosse,
  e niuno piú ne ricevesse inganno.

Ippòlito:

  Forse qualcuno degli amici m'ha
  calunnïato presso te, sí ch'io,
  senza nessuna colpa aver, ne soffro.
  Stupito io sono: i tuoi discorsi, ch'errano
  lungi dalla ragion, mi sbigottiscono.

Tesèo:

  O cuor dell'uomo, dove arriverai?
  Dove trovare dell'audacia il termine,
  della temerità? Se temulenti
  piú, da una stirpe all'altra, essi divengono,
  e del progenitore ognun dei posteri
  sarà piú tristo, a questa terra aggiungerne
  dovranno un'altra i Numi, ove s'accolgano
  tutti i ribaldi e i disonesti. L'occhio
  volgete su costui, che dal mio sangue
  nacque, e il mio letto svergognò, convinto
  fu chiaramente dalla morta ch'è
  tristo fra i tristi. Poiché sei macchiato
  d'un tal misfatto, il padre tuo negli occhi
  guarda. Tu sei colui che, per eccellere
  sugli altri uomini, insiem vivi coi Numi?
  Tu l'uomo saggio, e d'ogni vizio immune?
  Tal fede ai vanti tuoi non presterò,
  ch'io di senno esca, e ai Numi attribuisca
  tanta stoltezza. Ed or, millanta e ciurma,
  col tuo nutrirti solo d'erbe, segui
  i precetti d'Orfeo, celebra i riti,
  dei molti libri suoi venera il fumo:
  ch'ora in fallo sei còlto. Io tutti mettere
  vo' su l'avviso che i tuoi pari fuggano,
  che vanno a caccia con parole sante,
  e macchinano infamie. Or questa è morta.
  Ma perciò speri d'esser salvo? Tanto
  di piú, convinto sei, tristo fra i tristi.
  Come l'accusa fuggirai? Che giuri
  mai, che discorsi, piú di questa lettera
  potrebbero valer? Dirai che Fedra
  t'odïava? Dirai che dei legittimi
  figli il bastardo è l'inimico? Oh, stolto
  mercato della vita avrebbe fatto,
  se quanto aveva di piú caro, avesse
  distrutto, in odio a te. Follia non è
  degli uomini retaggio; e delle donne
  esser dovrebbe? Io giovani conosco
  che, se l'ardente anima loro Cípride
  scuote, non son piú saldi delle femmine;
  ma l'esser maschi è un utile pretesto.
  Ma perché di parole io qui contendo
  con te, quando la salma è a noi dinanzi,
  teste d'ogni altro piú verace? In bando
  or va', prima che sia, da questa terra,
  ed in Atene non venir mai piú,
  dai Numi estrutta, o della terra dove
  regnano l'armi mie presso i confini.
  Ché s'io, da te patito un tale scorno,
  mi rassegnassi, dir potrebbe Sínide
  l'Istmio, ch'io non l'uccisi, e il vanto usurpo;
  e le rupi Scironie, al mar finítime,
  che pei malvagi non sono io terribile.

CORO:

  Non so qual uomo io dir potrei felice:
  ché le prische fortune a terra cadono.

Ippòlito:

  Tremendi, o padre, l'émpito e la furia
  son del tuo cuore; eppur, la causa ch'offre
  di bei discorsi il destro, ove ne svolga
  gl'intrichi, spesso non è bella. Inabile
  io son dinanzi a una gran folla: meglio
  parlo ai giovani miei pari; ed a pochi;
  ed anche questo ha il suo valor: ché quanti
  hanno fra i saggi minor pregio, eccellono
  a parlar fra le turbe. Eppure, è forza,
  quando sopravvenuta è la sciagura,
  ch'io la mia lingua sciolga. E il mio discorso
  comincerà dal punto ove, assalendomi,
  distruggermi credesti, e ch'io risponderti
  piú non potessi. Questa luce vedi,
  e questa terra: or, quivi uomo non è
  piú assennato di me. Ché, prima i Numi
  so venerare, e con amici pratico
  che non cercano il male, e non dimandano
  disonesti favori, e non li accordano:
  ne avrebbero vergogna. E non costumo
  deridere gli amici, e son lo stesso
  dietro le spalle, e innanzi a loro. E puro
  son d'una pecca onde tu pensi avermi
  convinto reo: del genïale talamo,
  insino a questo dí, puro è il mio corpo;
  né l'atto so qual sia, tranne perché
  ne udii parlare, oppur pinto lo vidi,
  né d'indagarlo brama ho, poiché vergine
  l'anima serbo. Ma convinto forse
  tu della mia virtú non sei. Bisogna
  cercare allora la ragion per cui
  sarei stato corrotto. Era costei
  di quante donne son, forse piú bella?
  O sposare sperai l'ereditiera,
  ed essere signor della tua casa?
  Stolto sarei davvero, e non padrone
  del senno mio. Piacer forse potrebbe
  agli assennati esser sovrani? Può
  l'assoluto poter piacere a un uomo
  solo quando sconvolto egli abbia il senno.
  Esser primo io vorrei nei ludi ellènici,
  e secondo in città vivere, avendo
  sempre i migliori per amici. Compiere
  si può ciò che si brama; e dal pericolo
  lungi restare, è gioia preferibile
  all'essere sovrano. Un punto solo
  debbo toccare, e tutto il resto ho detto.
  Se un teste avessi al par di me verace,
  se costei fosse viva, e innanzi a lei
  difendermi potessi, i rei dall'opere
  loro tu scopriresti. Ora, per Giove
  custode ai giuri, e per il suol ch'io premo,
  ti giuro che non ho toccata mai
  la sposa tua, né l'ho desiderata,
  né pur l'idea n'ho concepita. E possa
  senza onore morire e senza nome,
  senza patria né casa, esule errando
  per la terra, e né pelago né terra
  al morto corpo mio ricetto diano,
  se un tristo io sono. Se costei troncò
  la propria vita per terror, lo ignoro:
  ché favellar piú oltre non m'è lecito.
  Non avendo saggezza, ella fu saggia:
  io che l'avevo, tristo uso ne feci.

CORIFEA:

  Fu la discolpa sufficiente: il giuro
  pei Numi offristi: è sicurtà non piccola.

Tesèo:

  Incantatore, ciurmator non è
  costui, che oltraggio fece al padre, e spera
  molcirmi con le sue sdolcinature?

Ippòlito:

  E questo, o padre, mi stupisce assai:
  se tu fossi mio figlio, ed io tuo padre,
  e toccar la mia sposa avessi ardito,
  t'infliggerei la morte, e non l'esilio.

Tesèo:

  Il giusto or dici tu; ma della morte
  da te prestabilita or non morrai.
  Una rapida morte, è per un empio
  troppo mite castigo. Esule errando
  dal suol paterno, tra gli affanni e i crucci
  vivrai: degli empî la mercede è questa.

Ippòlito:

  Oh, che vuoi fare? Attendere non vuoi
  che il tempo sveli il vero, e mi mandi esule?

Tesèo:

  Oltre il mare, d'Atlante oltre i confini,
  ti potessi mandar, come io t'esecro.

Ippòlito:

  Senza giuri, né prove, né responsi
  d'indovini ascoltar, senza giudizio,
  dalla patria mi scacci?

Tesèo:

  è questa lettera
  sicura accusatrice, e non ammette
  ambigui sensi. E lascia che sul capo
  gli augelli a lor piacere a noi svolazzino.

Ippòlito:

  O Numi, il labbro mio che non disserro,
  io, che perduto son per voi che venero? -
  Ah, non sia, no: ché non potrei convincere
  quelli ch'io devo, è invan sarei spergiuro.

Tesèo:

  Ah, questa tua santocchieria mi dà
  la morte. Uscir vuoi dalla patria? Sbrígati.

Ippòlito:

  Dove mi volgerò, verso quale ospite,
  se per simile taccia esule vado?

Tesèo:

  Verso colui che i seduttori gode
  ospiti avere, e al vizio suo compagni.

Ippòlito:

  Mi giunge sino al cuor, mi sforza al pianto,
  che tu mi creda, ch'io sembri un malvagio.

Tesèo:

  Pianger dovevi, prevedere, quando
  di tuo padre oltraggiar la sposa ardisti.

Ippòlito:

  O casa, deh, se tu parlar potessi,
  e teste essere a me, se un tristo io sono!

Tesèo:

  Ricorri a testi muti; e intanto, chiaro
  quanto malvagio sei mostrano i fatti.

Ippòlito:

  Deh, se potessi di me stesso mettermi
  a fronte a fronte, e piangere i miei mali!

Tesèo:

  Piú te stesso a curare avvezzo sei,
  che ad esser giusto, a rispettar tuo padre.

Ippòlito:

  O madre, o mia nascita amara! A niuno
  auguro degli amici esser bastardo.

Tesèo:

  Volete, o servi, trascinarlo? è un pezzo
  ch'io dico di scacciarlo: or non m'udite?

Ippòlito:

  Pianger dovrà chi pur mi tocchi: tu
  stesso, se vuoi, da questa terra scacciami.

Tesèo:

  Se tu non m'obbedisci, io lo farò:
  ché pianger non mi fa l'esilio tuo.

Ippòlito:

  è deciso, mi pare. O me tapino,
  che tutto il vero so, né modo so
  com'io favelli. O figlia di Latona,
  dilettissima a me su tutti i Dèmoni,
  o di vita e di cacce a me compagna,
  esule io vo' dalla famosa Atene.
  O rocca, o terra d'Erettèo, salvete.
  Di Trezène pianure, oh come lieta
  fra voi la vita i giovani trascorrono!
  Addio: l'ultima volta or vi contemplo,
  or vi favello. - Orsú, di questa terra
  giovani, a me compagni d'armi, datemi
  l'addio, fuor dalla patria accompagnatemi.
  Uom piú saggio di me mai non vedrete,
  anche se il padre mio crederlo nega.

(Parte) CORO: Strofe prima

  Sempre il pensiero dei Numi, qualora lo spirito m'occupa,
  lungi ne tiene l'ambascia.
  Ma questa speranza, nell'anima
  chiusa, dilegua, se miro la sorte e gli eventi degli uomini,
  ch'or da un lato, or dall'altro si volgono,
  perché con errore molteplice
  tramutan lor vita gli effímeri.
                                      Antistrofe prima
  Deh, quello che invoco, volessero i Numi concedermi:
  viver con sorte prospera,
  con cuor non turbato dall'ansia!
  Fama vorrei né troppo superba, né troppo spregevole;
  ma, costumi adottando, che facili
  si adattino ai giorni cangevoli,
  felice vorrei sempre vivere.
                                      Strofe seconda
  Calmo non serbo il mio spirito dinanzi all'evento inatteso
  quando l'astro piú fulgido io miro
  d'Atene, de l'Ellade tutta,
  per l'ira del padre, lo miro
  fuggiasco in estranëa terra.
  O sabbie dei patrii frangenti,
  o montane foreste, dov'egli
  con cagne veloci, le fiere
  cacciava; e Dittinna era seco!
                                      Antistrofe seconda
  Piú non sarà che dei veneti
  corsieri le coppie ei sospinga,
  nello stadio di Limna agitando
  il pie' dei corsieri: la Musa,
  che mai non dormia su le corde,
  tacerà ne la casa paterna:
  nell'ombre dei boschi, staranno
  senza serti i refugi d'Artèmide:
  col tuo bando, finita è la gara,
  per le nozze con te, delle vergini.
                                      Epodo
  La tua ventura, il fato intollerabile,
  lagrimando, io partecipo.
  O madre, o madre misera,
  che vita invan gli desti!
  Ahimè, ahimè, mi cruccio coi Celesti.
  Ahimè, ahimè, consessi delle Càriti,
  e voi lontano
  mandate il giovinetto
  che immune è d'ogni macchia,
  dalla sua patria, dal paterno tetto?

(Giunge esterrefatto un servo d'Ippòlito) CORIFEA:

  Ma veggo in fretta verso noi d'Ippòlito
  muovere il servo; ed il suo viso è fosco.

SERVO:

  Dove trovar potrei di questa terra
  il signore, Tesèo, donne? A me ditelo,
  se lo sapete. Entro la reggia, forse?

CORIFEA:

  Vedilo: dalla reggia appunto egli esce.

SERVO:

  Una triste novella, io reco, Tesèo,
  a te, d'Atene ai cittadini, a quanti
  nella terra trezènia hanno soggiorno.

Tesèo:

  Che c'è? Forse piombò sopra le due
  città vicine una sciagura nuova?

SERVO:

  Per dirla in un sol motto, è spento Ippòlito:
  per pochi istanti ancor vedrà la luce.

Tesèo:

  Per man di chi? L'inimicizia forse
  d'alcuno avea contratto, a cui la sposa
  disonorò, come a suo padre, a forza?

SERVO:

  Il suo carro l'uccise, e la sventura,
  che tu, pregando il padre tuo, del pelago
  signore, contro a tuo figlio imprecasti.

Tesèo:

  O Numi, e tu, Posídone, che certo
  padre mi sei, che le mie preci udisti!
  Come morí? Narra: in qual modo il màlleo
  di giustizia colpí quei che m'offese?

SERVO:

  Presso la spiaggia, ove si frange l'onda,
  noi, con le striglie, dei cavalli i crini
  pettinavamo, e piangevam: ché giunto
  era un araldo, e detto avea che mai
  piú messo il piede non avrebbe Ippòlito
  su questo suolo, e che da te bandito
  era a misero esilio. Ed anche Ippòlito
  giunse alla spiaggia, in mezzo a noi, levando
  lo stesso suon di pianto; ed una turba
  di giovani suoi pari, a passo a passo,
  accanto a lui moveva. E infine, ai gemiti
  pose fine, e parlò: «Perché mi cruccio?
  Obbedire convien del padre agli ordini.
  Aggiogate i cavalli, o servi, ai carri:
  questa città per me piú non esiste».
  Da questo punto, ogni uomo si affrettò;
  ed i cavalli, già bardati, prima
  che non si dica, disponemmo presso
  al signor nostro; ed ei spiccò le redini
  dall'orlo, e pose entro gli stampi i piedi.
  E poi, le mani al ciel volse, e pregò:
  «Giove, se un tristo io son, fa' tu ch'io muoia;
  ma, sia ch'io muoia, o che la luce io miri,
  il torto che mi fa, veda mio padre».
  Disse, e il pungolo prese, e lo vibrò
  sui puledri; e noi servi, al carro presso,
  presso alle briglie, seguivamo il nostro
  signor, su la via d'Argo e d'Epidàuro.
  Cosí, giungemmo in un deserto luogo,
  di là da questa terra, ove al Saronio
  golfo proclive, stendesi una spiaggia.
  Ed ecco, un'eco sotterranea, simile
  a tuon di Giove, die' cupo rimbombo,
  spaventoso ad udire: onde i cavalli
  le orecchie e il capo al cielo erti levarono.
  E vïolento orror noi tutti invase,
  donde venisse quella romba; e, vôlti
  gli sguardi verso le sonore spiagge,
  un maroso infinito, insino al cielo,
  vedemmo, tal che all'occhio mio fu tolto
  veder le spiagge di Sciróne; e l'istmo
  tutto nascose, e d'Esculapio il balzo.
  Poi, sgonfiandosi, e tutto gorgogliando
  di fitta spuma in giro, si lanciò,
  con marino estuar, contro la spiaggia,
  ov'era la quadriga; e col medesimo
  turbine, e con la furia orrida, al lido
  scaraventò, fiero prodigio, un toro,
  del cui muggito risuonò pervasa
  la terra tutta: ed era lo spettacolo
  tale, che sostener non lo poteva
  chi lo guardava. E un súbito terrore
  penetrò nei puledri; e il signor nostro,
  di governar cavalli esperto molto,
  strinse le briglie, e a sé le trasse, come
  nocchiero il remo, il corpo appesantendovi
  tutto all'indietro. I morsi quelli addentano
  temprati al fuoco, e il carro a forza traggono,
  senza curar la mano del pilota,
  né il saldo carro e i finimenti equestri.
  E se il corso volgeva ei verso i molli
  solchi dei campi, innanzi ad essi il toro
  appariva, a stornarli, e la quadriga
  folle rendeva di terrore; e quando
  con delirante furia lo traevano
  verso le rupi, all'orlo avvicinandosi,
  muto seguia: sinché fiaccar lo fece,
  e l'abbatté, facendo urtar la ruota
  contro una roccia. E tutto allora fu
  uno sfacelo; e i mozzi delle ruote
  e le spine dell'asse, via balzarono.
  E nelle briglie aggrovigliato, il misero,
  di nodi entro legami inestricabili,
  è trascinato via, battendo il caro
  capo contro le rupi, e sfracellandosi
  le membra, e grida orribili levando:
  «Fermatevi, cavalli, entro le stalle
  mie nutricati, non vogliate struggermi!
  Ahimè, funesta imprecazion del padre!
  Non c'è fra voi chi salvi un innocente?»
  Molti di noi disposti eran; ma tardo
  restava indietro il piede. Ed ei, dai lacci,
  dalle briglie di cuoio, in che maniera
  non so, fu sciolto, e cadde, un breve anèlito
  traendo ancora. E i cavalli sparirono,
  ed il prodigio dell'orribil tauro,
  in qual parte non so del suol rupestre.
  Servo della tua casa io sono, o re;
  eppur, non mai convinto esser potrò
  che il tuo figlio sia reo, neppur se tutta
  vedessi offesa la femminea stirpe,
  e tutti alcun di cifre empiesse i pini
  dell'Ida; perché so ch'egli è innocente.

CORO:

  Questa nuova sciagura è, ahimè, compiuta,
  né modo esiste di sottrarsi al fato.

Tesèo:

  Per odio all'uomo a cui toccò tal sorte,
  m'allegrai nell'udirti. Ora, dei Numi
  per rispetto, e di lui che da me nacque,
  lieto non posso andarmene, e non dolermene.

SERVO:

  Dunque? Dobbiamo qui condurre il misero?
  O che fare dobbiam, per compiacerti?
  Pensa; ma udir se un mio consiglio brami,
  non esser duro contro il figlio misero.

Tesèo:

  Conducetelo qui, ch'io dentro gli occhi
  guardi colui che non macchiò, diceva,
  il letto mio: con le parole voglio
  convincerlo, e col mal dai Numi inflittogli.

CORO:

  Tu governi lo spirito indomito
  dei Numi e degli uomini, o Cípride.
  E teco, rapidissima
  lanciando Amore
  l'ala versicolore,
  su tutta la terra s'aggira,
  e su la salsedine
  del ponto sonoro.
  E molce, se alígero,
  se rutilo d'oro
  s'avventa in un cuor che delira,
  le fiere che vivon sui vertici
  dell'alpe, o nel pelago,
  e quante la terra ne nutre,
  arsa, ammirata dal sole,
  e degli uomini molce la prole.
  Ogni progenie, o Cípride, s'inchina
  a te, sola regina.

(Sull'alto della reggia appare improvvisamente Artèmide) Artèmide:

  Parlo a te, nobil figlio d'Egèo,
  ascoltami: Artèmide
  sono io, di Latona la figlia.
  Tesèo, sciagurato, perché
  gioisci di queste sventure?
  Perché della sposa le false
  parole, ti fecero certo
  d'incerti misfatti, empiamente
  tuo figlio uccidesti; e palese
  sciagura ti colse.
  Come in fondo agli abissi tartàrei
  per vergogna non corri a celarti,
  o, sua vita mutando, nell'ètere
  non ti lanci, ed il pie' non ritraggi
  da tanta sciagura?
  Ché per te non c'è posto nel mondo,
  fra gli uomini retti.
  Odi, Tesèo, come i tuoi mali avvennero.
  Nessun frutto ne avrò, tranne il tuo cruccio;
  ma venni a questo, a dimostrar che onesta
  è di tuo figlio l'anima, e che muore
  con buona fama; e della sposa tua,
  quale furia l'invase, e come in parte
  nobile si mostrò: ché dallo stimolo
  trafitta della Dea la piú nemica
  a noi, che caro abbiamo restar vergini,
  s'innamorò di tuo figlio; e, tentando
  di trionfar, col suo senno, di Cípride,
  fra gl'intrighi condotta, a mal suo grado,
  dalla nutrice, fu perduta. Quella,
  stretto coi giuri il tuo figliuolo, il morbo
  gli confidava; né sedotto quegli
  fu, ch'era giusto, dai suoi detti; né,
  maltrattato da te, ruppe la fede
  dei giuramenti; ch'era pio. Ma Fedra,
  temendo che scoperta esser potesse,
  quelle calunnie scrisse, e con la frode
  perdé tuo figlio; e ben seppe convincerti.

Tesèo:

  Ahimè!

Artèmide:

  Tesèo, morde il tuo cuor questo racconto?
  Resta tranquillo: assai piú dovrai piangere
  udendo il resto. A te promise esplicito,
  lo sai, tuo padre, esaudir tre voti.
  Or l'uno d'essi, perfido, hai stornato
  contro tuo figlio, e non contro un nemico,
  come potevi. Il Dio del mar, tuo padre,
  bene operò, che t'accordò, quand'egli
  promesso avea, ciò che dovea; ma tu,
  a mio giudizio e suo, fosti un malvagio,
  che non le prove, e non la voce udire
  dei responsi volesti, e non inchiesta
  facesti, e al tempo non lasciasti il cómpito
  di far la luce, e pria che non dovessi
  imprecasti a tuo figlio, e l'uccidesti.

Tesèo:

  Diva, morir vorrei.

Artèmide:

  Furono orribili
  le colpe tue; pure, ottener perdono
  anche tu puoi: ché quanto avvenne, Cípride
  tutto lo volle, e l'ira sua fe' sazia.
  Perché fra i Numi è questa legge: niuno
  alla brama dell'altro opporsi brama,
  ma se n'astiene. Ch'io, sappilo bene,
  senza il timore ch'ho di Giove, mai
  non sarei giunta a tanta mia vergogna,
  che l'uomo a me d'ogni altro uomo piú caro,
  lasciassi a morte andar. Ma dalla colpa
  te prima affranca l'ignoranza tua,
  perché tu non sapevi; e poi, la morte
  dando a se stessa, Fedra ogni confronto
  impossibile rese, onde potesse
  convincersi il tuo cuore. Assai malanni
  piombarono su te, su me cordoglio.
  Perché gl'Iddii, lieti non sono, quando
  vengono a morte i buoni; e invece, i tristi
  nei lor figli struggiam, nelle lor case.

(Giunge Ippòlito, trasportato su una barella) CORO:

  Ecco, il misero a noi già s'appressa.
  Strazïata è la vergine carne,
  e il biondo suo capo. Oh sciagura
  delle stirpi! Oh, qual duplice lutto
  mandato dai Numi,
  s'abbatté sopra questa magione!

Ippòlito:

  Ahimè, ahimè!
  Strazïato, me misero, io sono,
  per i voti che ingiusti imprecò
  a me contro l'ingiusto mio padre,
  Sono morto, o infelice! Ahimè, ahi!
  Entro il capo le doglie mi vibrano,
  nel cervello sobbalza lo spasimo.
  Sta! Ché il corpo sfinito abbia requie!
  Ahi, ahi!
  O coppia odïosa
  di corsieri, ch'io stesso nutríi
  di mia mano, per te son disfatto,
  per te sono morto.
  Ahi, ahi! Per i Numi, o famigli,
  con man lieve toccate il mio corpo,
  ch'è tutto una piaga. Chi sta
  a destra, al mio fianco? Levatemi
  leggermente, con mosse concordi
  traetemi. Oh me sventurato,
  maledetto dal labbro del padre!
  Giove, Giove, non vedi? Io, che puro
  sempre fui, che gli Dei veneravo,
  che tutti avanzavo
  d'onestà, vedo l'Ade che a me
  sotterraneo si schiude, e soccombo.
  Invano fu spesa fra gli uomini
  la mia pïetà.
  Ahimè, ahimè!
  Ed or mi pervade lo spasimo,
  lo spasimo. Oh me sciagurato!
  Lasciatemi; e Tànato giunga
  per me, giunga Peóne. Finitemi,
  uccidetemi, misero me!
  Il duplice taglio desidero
  d'una spada, che a brani mi faccia,
  che il mio viver sopisca. O del padre
  miserevoli voti, e dei miei
  antenati macchiati di sangue!
  Degli avoli antichi la pena
  risorge, né indugia.
  Ma perché su me piomba, se immune
  sono io d'ogni colpa?
  Ahimè, che dirò?
  Come libera far la mia vita
  da questo crudele tormento?
  Tristo me! Mi sopisse dell'Ade
  la notte fatale, e la tènebra!

Artèmide:

  In quali guai travolto fosti, o misero!
  La generosa indole tua ti perse.

Ippòlito:

  O di fragranza aura divina! Bene
  ti sento, anche fra i mali, e le mie membra
  n'hanno sollievo. è qui la Diva Artèmide.

Artèmide:

  è qui la Dea che piú t'è cara, o misero.

Ippòlito:

  A che ridotto son, vedi, o Signora!

Artèmide:

  Vedo; ma versar pianto non m'è lecito.

Ippòlito:

  Spento è il tuo cacciatore, il tuo ministro.

Artèmide:

  Lo so: diletto al cuor mio tu soccombi.

Ippòlito:

  Lo scudiero, il custode pio degl'idoli.

Artèmide:

  Cípride macchinò tutto, la perfida.

Ippòlito:

  Ahimè! Qual Dea m'uccise, ora ben vedo.

Artèmide:

  Perché tu casto, onore a lei negavi.

Ippòlito:

  Solo una Dea noi tre colpí, l'intendo.

Artèmide:

  Te, piú che me, per l'error tuo commisero.

Ippòlito:

  Anche del padre la sciagura io piango.

Artèmide:

  L'hanno ingannato della Dea le trame.

Ippòlito:

  O padre, sventurato anche tu fosti.

Tesèo:

  Son morto, o figlio, e omai la vita aborro.

Ippòlito:

  Te, piú che me, per l'error tuo compiango.

Tesèo:

  In vece tua morir potessi, o figlio!

Ippòlito:

  Di Nettuno tuo padre o amari doni!

Tesèo:

  Quei voti al labbro corsi non mi fossero!

Ippòlito:

  A che? M'avresti ucciso: eri in tale ira!

Tesèo:

  M'avea dal senno disviato un Nume.

Ippòlito:

  Deh, ricader potesse
  sopra i Celesti, il male inflitto agli uomini!

Artèmide:

  Taci: quando sarai giú nelle tènebre,
  non resterà senza castigo l'odio
  che Cípride ha per te, che t'aborrisce
  per la tua castità, la tua saggezza.
  Ch'io, con la mano mia, con queste frecce
  infallibili, a far la tua vendetta,
  a un altr'uomo la morte infliggerò,
  a quello che al suo cuor sia piú diletto.
  E, per compenso delle pene, o misero,
  onori grandi a te nella città
  di Trezène darò. Le intatte vergini
  le lor chiome per te recideranno
  pria delle nozze, e coglieranno il frutto,
  per lungo tempo, di funeste lagrime.
  Ed eterne per te le cure musiche
  vivran delle fanciulle, e nel silenzio
  non cadrà, nell'oblio, l'amore ch'ebbe
  Fedra per te. Del vecchio Egèo figliuolo,
  e tu prendi il tuo figlio, e al seno stringilo,
  ché a mal tuo grado l'uccidesti; e agli uomini
  non è concesso, quando i Numi vogliono,
  schivar la colpa. E te consiglio, Ippòlito,
  che non odii tuo padre: era il destino
  scritto per te della tua morte. E addio.
  Ché lecito non m'è vedere estinti,
  né che si brutti il viso mio con l'alito
  dei moribondi; e tu sei presso a morte.

(Sparisce) Ippòlito:

  Addio. Va' dunque, o veneranda vergine.
  Perder l'antica nostra intimità
  ti sia leggero. E poiché tu lo brami,
  depongo l'ira contro il padre: docile
  anche prima ai tuoi detti io sempre fui.
  Ahimè, sugli occhi già scende la tènebra.
  Prendimi, o padre, il corpo mio solleva.

Tesèo:

  Ahimè, che fai di me misero, o figlio?

Ippòlito:

  Muoio: le porte già veggo degl'Inferi.

Tesèo:

  Di tal colpa macchiato il cuor mio lasci?

Ippòlito:

  No, ché del tuo delitto anzi t'assolvo.

Tesèo:

  Che dici? Me del sangue sparso affranchi?

Ippòlito:

  Teste mi sia la cacciatrice vergine.

Tesèo:

  Quanto con me sei generoso, o caro!

Ippòlito:

  A te salute, a te salute, o padre!

Tesèo:

  O santo cuore, ahimè, nobile cuore!

Ippòlito:

  Augura tali a te figli legittimi.

Tesèo:

  Deh, fatti forza! Non lasciarmi, o figlio!

Ippòlito:

  Assai son forte: ch'io son morto, o padre.
  Presto, col manto il viso mio nascondi.

Tesèo:

  O di Pàllade terra, illustre Atene,
  di qual uom sarai priva! Oh, quanto il male
  ricorderò che tu m'hai fatto, Cípride!

(Ippòlito muore) CORO:

  Questo cruccio improvviso piombò
  sopra quanti in Atene soggiornano.
  Sarà grande schianto di lagrime;
  perché piú tenace, piú triste
  la memoria dei grandi persiste.