Teogonia

La Teogonia (in greco Θεογονία) è un poema mitologico di Esiodo, in cui si raccontano la storia e la genealogia degli dèi greci. Si ritiene che sia stato scritto intorno all'anno 700 a.C., ed è una fonte fondamentale per la mitografia. L'opera è composta da 1022 esametri e ripercorre gli avvenimenti mitologici dal Caos primordiale fino al momento in cui Zeus diviene signore degli dèi.

Trama

In un ampio proemio iniziale, Esiodo parla delle Muse, citando anche se stesso. Quindi racconta di come dal Caos si originarono l'Erebo e la Notte, poi l'Etere ed Emera. Da Ge nacquero Urano (il cielo stellato) e Oceano; da Urano la famiglia dei Titani, l'ultimo dei quali, Crono, mutilò il padre e regnò sugli altri dèi, finché non venne sostituito da Zeus. Il passaggio dalla signoria dei Titani alla monarchia di Zeus viene visto dal poeta come il passaggio dalla violenza e dal disordine all'ordine e alla giustizia. Segue una lunga ridistribuzione della potenza degli dei, con l'indicazione anche delle divinità minori, talora in elenchi che sembrano alberi genealogici. Alla fine viene fatto cenno alle unioni tra gli dei e degli dei con i mortali, che daranno origine alle schiere degli eroi della mitologia greca. Vengono raccontati anche il mito di Prometeo e il mito di Pandora.

Il Testo Integrale

Proemio


Cominci il canto mio dalle Muse Elicònie, che sopra
l'eccelse d'Elicóna santissime vette han soggiorno,
e con i molli pie' d'intorno alla cerula fonte
danzano, intorno all'ara del figlio possente di Crono.
Esse, poiché nel Permesso lavate han le tenere membra,
o d'Ippocrène nell'acque, oppur del santissimo Olmèo,
intreccian d'Elicona sui vertici sommi, carole
agili, grazïose: ch'è grande virtú nei lor piedi.



Di qui balzando poi, nascoste entro veli di nebbie,
muovon di notte, attorno spargendo la morbida voce,
per esaltar nell'inno l'Egíoco Giove, e Giunone
la venerabile Dea, che muove con sandali d'oro,
e la figliuola di Giove signore dell'ègida, e Atèna
occhiazzurrina, e Apollo, e Artèmide vaga di frecce,
e Posidóne, il Dio che cinge, che scuote la terra,
e Teti veneranda, Ciprigna dagli occhi fulgenti,
Dióna bella, ed Ebe dall'aurea ghirlanda, Latona,
Giapèto, Crono acuto pensiero, ed Aurora e Selène
lucida, ed Elio grande, e Ocèano immenso, con Gea,
con Notte negra, e tutta la stirpe dei Numi immortali.



Quelle che il canto bello d'Esiodo ispirarono un giorno,
mentr'egli pasturava le greggi sul santo Elicona,
quelle medesime Dive narrarono a me ciò ch'io narro,
le Muse Olimpie, figlie di Giove, dell'ègida sire.
«Pastori avvezzi ai campi, gran bíndoli, pance e null'altro,
favole molte sappiamo spacciar ch'ànno aspetto di vero;
ma poi, quando vogliamo, sappiamo narrare anche il vero».



Disser del sommo Giove cosí le veridiche Figlie;
e a me diedero un ramo di florido alloro, stupendo,
ch'io ne tagliassi uno scettro, m'infusero in seno la voce
divina, ond'io potessi cantare il presente e il futuro,
mi disser di cantare la stirpe dei Numi immortali,
e loro stesse, sempre, del canto al principio e alla fine;
ma perché mai qui sto cianciando di rupi e di quercie?



Su', dalle Muse dunque comincia, che allegran di Giove
l'eccelsa mente, quando intonano gl'inni in Olimpo,
e dicono le cose che furono e sono e saranno,
con le parole espresse. Dal labbro alle Dive, la voce
infaticabile scorre, soave. La casa di Giove
è tutta un riso, allorché s'effonde la voce di giglio
di queste Dive: echeggia la vetta nevosa d'Olimpo,
echeggiano le case dei Superi. Ed esse, spargendo
l'ambrosia voce, prima l'origine cantan dei Numi,
cui generò da prima la Terra col Cielo profondo:
cosí nacquer gli Dei, che largiscono agli uomini i beni.



E Giove cantan poi, degli uomini padre e dei Numi,
e quanto egli è piú forte dei Numi, quanto è piú possente.
Cantan degli uornini poi la progenie, poi dei Giganti.
Allietano cosí la mente di Giove in Olimpo
le Olimpie Muse, figlie di Giove, dell'ègida sire:
le generava nella Pïèride al padre Croníde
Mnemòsine, che quivi regnava sui campi Eleutèri:
ed esse dànno oblio nei mali, e riposo dai crucci.



Con lei Giove dal sonno profondo s'uní nove notti,
salendo - e nulla i Numi ne seppero - il talamo sacro.
E quando un anno poi fu trascorso, e tornâr le stagioni,
furon distrutti mesi, compiuti molteplici giorni,
esa, non molto lungi dai picchi nevosi d'Olimpo,
nove fanciulle die' a luce, di mente concorde, che tutte
amano il canto, e scevro d'affanni hanno il cuore nel petto.



Intreccian quivi molli carole, quivi hanno le case; e presso hanno soggiorno le Grazie e il soave Desio, sempre in diletto. Ed esse, l'amabile voce effondendo, cantan di tutti quanti le leggi, ed i santi costumi dei Numi, alte accordando le voci dolcissime al canto.

Mossero allora all'Olimpo, levando l'ambrosie canzoni liete di loro voci. D'intorno echeggiava a quell'inno la negra terra, ed era soave dei piedi la romba, mentre moveano al padre Croníde signore del cielo, che regge il tuono in puguo, che regge la folgore ardente, poscia che il padre Crono domò con la forza, e a ciascuno degli Immortali assegnò, con equa ragione, gli onori.

Cosí cantâr le Muse che hanno soggiorno in Olimpo, le nove figlie nate da Giove signore possente, Tersícore, Polímnia, Melpòmene, Urania,Talía, Euterpe, Erato, Clio, Callíope: è questa fra tutte egregia, essa dei re venerandi mai sempre compagna.

Quello dei re nutriti da Giove, cui rendono onore, cui miran, quando nasce, le figlie di Giove possente, a cui versano sopra la lingua una dolce rugiada, e le parole di bocca gli sgorgan piú dolci del miele, guardano quello tutte le genti, quando esso le leggi parte con equa giustizia: quand'egli securo favella, súbito seda con saggia parola una rissa anche grave.

Per questo i saggi re ci sono: perché, quando incombe dànno sui popoli, sanno con miti, con sagge parole, in assemblea, di leggeri, parlando, rivolger le sorti. Se fra le genti va, l'onorano al pari d'un Nume, con reverenza grande: ch'ei muove fra tutti distinto.

Il sacro dono è questo che porgon le Muse ai mortali, ché, per voler delle Muse, d'Apollo che lungi saetta, cantori e citaristi divengono gli uomini in terra, i re per volontà di Giove, Beato il mortale caro alle Muse: a lui fiorisce dai labbri la voce: e, pur se alcuno ha cruccio nel cuore per lutto recente, se di cordoglio ha pieno lo spirito, quando il cantore ministro delle Muse, le gesta degli uomini antichi canta, e i beati Celesti che reggon d'Olimpo le sedi, súbito le sventure dimentica, piú non ricorda i lutti; e delle Dive ben presto lo svagano i doni.

Figlie di Giove, salvete, l'amabile canto a me date; e celebrate la stirpe dei Numi che vivono eterni, che nacquer dalla Terra, dal Cielo gremito di stelle, e dalla buia Notte: nutriti altri furon dal mare. E dite come prima la Terra ebbe origine, e i Numi nacquero, e i Fiumi, e il Mare che irato si gonfia, infinito, e sfavillanti gli astri nell'alto, e l'amplissimo Cielo. E come i Numi nacquer da loro, datori di beni, e come fêr dei beni le parti, ed ottenner gli onori, e come ebbero prima l'Olimpo dai molti recessi.

Ditemi questo, o Muse, che avete dimora in Olimpo, sin dall'origine, dite chi primo di lor venne a luce.