Supplici (Euripide)

SUPPLICI
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Titolo orig.: Ἱκέτιδες
Autore: Euripide
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Sezione: Mitologia Greca
Anno: 422 a.C.
Tipo: Fonti Antiche
Genere: Tragedie
Subgenere: {{{subgenere}}}
Lingua orig.: Greco antico
In Biblioteca: Si
Traduzione: Italiano

TRAMA[modifica]

Come frequentemente accade nel teatro greco, ad aprire la tragedia è un prologo pronunciato da uno dei personaggi con lo scopo di spiegare agli spettatori gli antefatti della vicenda.
Nelle "Supplici" il prologo è affidato ad Etra, madre di Teseo. Si è da poco conclusa la famosa e sfortunata spedizione dei Sette contro Tebe, in favore di Polinice, figlio di Edipo, che era stato spodestato dal fratello Eteocle.
I sette comandanti sono deceduti in combattimento ed i Tebani rifiutano di restituire i loro cadaveri.
Le supplici, che danno il nome alla tragedia, sono appunto le madri dei caduti che si sono presentate ad Etra perché convinca Teseo ad intercedere per loro presso i Tebani. Teseo, convocato da Etra, discute con Adrasto (comandante ed unico superstite della spedizione, nonché suocero di Polinice), che accompagna le supplici.
Adrasto si umilia di fronte a Teseo, riconosce di essersi lasciato trasportare, lui anziano, dall’entusiasmo dei più giovani e di aver intrapreso la disgraziata spedizione trascurando il parere non favorevole degli auspici. A causa di questi errori la città di Argo, una volta potente, è ora caduta in rovina, molti giovani combattenti sono caduti e le loro madri sono ora avanti a Teseo, supplicandolo di aiutarle a recuperare i cadaveri.
Teseo critica duramente l’operato di Adrasto e rifiuta l’aiuto richiesto, ma Etra lo convince a cambiare atteggiamento. Non è nei costumi ateniesi, sostiene l’anziana regina, negare aiuto a chi soffre per le ingiustizie subite e Teseo, giovane re di Atene, lo ha più volte dimostrato con le sue molte imprese.
Il Coro delle supplici interviene lodando Teseo e la città di Atene che “onora la giustizia, detesta l’iniquità, protegge sempre i deboli” (anche qui, come in altre opere dei tragici del quinto secolo, si avverte nettamente un’intenzione di propaganda politica a favore di Atene).
Consultata l’assemblea cittadina, Teseo decide di inviare messi a Tebe per richiedere la consegna dei cadaveri agli argivi. Vuole tentare dunque una mediazione diplomatica prima di ricorrere alla forza, tuttavia viene battuto sul tempo, prima che il messo ateniese si metta in cammino, infatti, sopraggiunge un araldo tebano.
Tramite l’Araldo, Tebe intima ad Atene di non intervenire in alcun modo nella vicenda e di scacciare Adrasto e le supplici dal suo territorio. All’arroganza del messaggero, Teseo risponde con grande accortezza e ragionevolezza, ma non senza minacciare una guerra nel caso in cui Tebe persista nel non voler riconsegnare i cadaveri.
E’ una disputa molto vivace quella fra Teseo e l’Araldo, durante la quale viene riproposto lo schema del contrasto fra la democrazia (Atene) e la tirannide (quella di Creonte, re di Tebe e successore di Eteocle, anche lui caduto in combattimento).
L’Araldo ribadisce la determinazione tebana e Teseo finisce con il pronunciare una vera dichiarazione di guerra.
Dopo un breve intervento del Coro, che esprime speranza e tensione, entra in scena un nuovo messaggero.
La battaglia si è svolta sotto le mura di Tebe e gli ateniesi hanno vinto, il messaggero racconta al Coro e ad Adrasto le gesta di Teseo e la saggezza con cui ha impedito che gli ateniesi, inebriati dalla vittoria, saccheggiassero Tebe. I corpi dei sette comandanti sono stati recuperati e a tutti gli altri caduti della spedizione è già stata data degna sepoltura.
Il corteo funebre viene accolto dagli intensi lamenti del Coro. Adrasto pronuncia l’elogio dei caduti, parlando della modestia e sobrietà di Capaneo, dell’onestà di Eteoclo, della forza di Ippomedonte.
Ricorda la lealtà di Partenopeo, figlio di Atalanta, che pur essendo arcade di nascita era caduto combattendo per Argo, la città che lo aveva accolto e menziona il valore militare e le capacità strategiche di Tideo.
Teseo interrompe il discorso di Adrasto per parlare personalmente di Anfiarao e di Polinice.
Si decide di dedicare un rogo separato a Capaneo in quanto questi è stato fulminato dalla folgore di Zeus, mentre tentava di scalare le mura tebane. Appare, sulla rupe che sovrasta il tempio di Demetra, Evadne, la moglie di Capaneo, decisa a gettarsi sul rogo dello sposo. Entra in scena anche il vecchio Ifi, padre di Evadne e di Eteoclo, uno dei caduti di cui Teseo ha appena recuperato il corpo. Ifi non riesce a distogliere Evadne dall’insano proposito e sotto gli occhi del padre, la giovane si uccide precipitandosi, dalla rupe, sul rogo.
Al Coro delle supplici si unisce quello dei giovani, sono i figli dei caduti che recano le urne con le ossa dei padri raccolte dal rogo. Lamentando la loro nuova condizione di orfani, i giovanotti giurano che un giorno torneranno a Tebe come vendicatori. In conclusione della tragedia appare Atena, che impone che Teseo esiga da Adrasto un giuramento di amicizia, che impegni tutti gli argivi, quindi profetizza l’impresa degli Epigoni (i figli dei sette condottieri) come vittoriosa vendetta sui Tebani.

TEMI[modifica]

Il tema principale delle Supplici è sicuramente quello del lutto, rappresentato praticamente durante tutto lo svolgimento dell’azione, nei lamenti del Coro, in quelli dei giovinetti, negli elogi funebri provenienti da Adrasto e da Teseo e, infine, nel pianto straziante del vecchio Ifi, che dopo aver perso il figlio Eteoclo è costretto ad assistere impotente al drammatico suicidio della figlia Evadne.
Il lutto come “ voluttà di pianto, come una goccia d’acqua che stilla ininterrotta da un’alta rupe” (vv. 79-81), quindi come unico sfogo per l’inguaribile sofferenza di chi sopravvive, ma anche il lutto nei suoi aspetti rituali e sociali (in più punti Euripide insiste sui dettagli pietosi delle esequie, sul rifiuto, ad esempio, di Teseo di affidare agli schiavi la costruzione dei tumuli).
Tuttavia, nella trama narrativa dell’opera, Euripide ha saputo inserire ed armonizzare altri argomenti: indubbio è l’elogio propagandistico della giustizia morale degli ateniesi, del loro coraggio e del loro leale schierarsi in difesa dei più deboli, ben evidenziata è anche la lode della democrazia pronunciata da Teseo durante la sua discussione con il filo-tirannico araldo tebano.
Il concetto della morte come male irreparabile viene espresso più volte, ma ancora peggiore sembra il destino di chi sopravvive e preferirebbe poter tornare indietro per rinunciare a quegli atti che se un tempo lo hanno reso felice, sono ora causa di dolore e rovina. Le madri degli eroi caduti non vorrebbero mai aver avuto figli, non essere mai state spose, per non dover ora vedere le proprie creature ridotte ad un pugno di cenere sul rogo.
Il vecchio Ifi desidera che si possa vivere due vite per poter sfruttare nella seconda gli insegnamenti che la sventura ci ha impartito nella prima.
La morte dunque è causa di insanabile dolore, ma gli uomini sono così folli e stupidi da costruire armi, combattersi, creare con le proprie mani tanta distruzione: che questa follia cessi, che l’uomo rinsavisca, sembra l’auspicio più sincero e ripetuto delle “Supplici”, quando a contraddirle appare prodigiosamente Atena: i figli, sentenzia la dea, vendicheranno i padri e la loro impresa sarà cantata da nuovi poeti. Continuerà così la catena di dolore e di morte. Chi è che vuole così? Gli dei, il fato o l’uomo stesso? Euripide non ci risponde, ma a noi sembra che fra i tre il più indiziato sia il terzo.