Borametz

La storia del Borametz — o agnello vegetale o agnello di Scizia, e cioè della presunta pianta produttrice di agnelli — viene citata per la prima volta, attorno al 1330, da Odorico da Pordenone, che tra il 1316 ed il 1328 aveva compiuto un viaggio in Oriente. Egli ci informa nella regione del Caucaso «nascono poponi grandissimi, i quali poponi, quando sono maturi, s'aprono per loro istessi, e trovavisi entro una bestiuola grande e fatta a modo d'uno agnello». La storia viene ripresa nei Viaggi di John Mandeville nel 1355, libro che, nonostante fosse un abile falso composto plagiando vari scrittori (primi tra i quali Marco Polo e lo stesso Odorico da Pordenone), godette di una popolarità che i suoi stessi "ispiratori" furono ben lontani dal raggiungere. La storia di questa straordinaria pianta-animale (v. Fitozoi), iniziò quindi a circolare, venendo ripetuta a sazietà da una miriade di autori, naturalisti e no : Giulio Cesare Scaligero, Guglielmo Postel, Guillaume Salluste du Bartas, Giovan Battista della Porta, Claude Duret, Adam Olearius e via di seguito, fino a comparire, inaspettatamente, sulle pagine della razionalissima Encydopédie di Diderot, sia pure come allegoria dei pregiudizi degli antichi. La strana pianta, verso il 1550, aveva subito una metamorfosi significativa, nello scritto di un altro viaggiatore, il barone Sigismondo de Herbertstein. Il barone, citando fatti di seconda mano, racconta di un seme simile a quelli di melone che, piantato in terra, dava luogo alla nascita di una pianta composta da uno stelo ed un corpo in tutto simile a quello di un agnello, coperto da una lana finissima, usata nel paese (la Moscovia) per fare pregiati copricapi. Questa pianta, la cui "carne" somiglia a quella dei gam-beri, si nutre dell'erba che cresce attorno al suo stelo, nell'ambito del raggio di azione che questo gli consente. Esaurito il pascolo, si secca e muore. Si tratta, come è facile notare, di una versione ben diversa dalla prima: lì avevamo un frutto, il cui contenuto aveva un aspetto simile a quello di un agnello, ma nessuna caratteristica di vita indipendente; nel secondo caso, la "pianta" sembra avere invece delle qualità che la rendono quasi indistinguibile da un animale vero e proprio, se non fosse per lo stelo al quale è attaccato, che costituisce il limite della sua mobilità. Verso la fine del XVII secolo sembrò si fosse giunti alla prova scientifica dell'esistenza reale del Borametz, in una forma più vicina a quella descritta da Sigismondo de Herbertstein che alla più antica di Odorico. In Europa cominciarono infatti ad arrivare esemplari di una radice di pianta, che avevano più o meno l'aspetto di agnellini; inoltre, venne affermato che le pellicce che oggi chiamiamo di "persiano", non fossero altro che il delicato vello dell'agnello vegetale. La smentita di questi due fatti fu abbastanza rapida: nel 1698 il naturalista Hans Sloane dimostrò che i pretesi esemplari di Borametz giunti in Europa altro non erano che i grossi rizomi setolosi di una felce orientale arborescente (che, proprio in onore a questa leggenda, Linneo denominò Cibotiwm Borametz), tagliati ad arte in modo da accentuare l'aspetto vagamente animale che presentano in natura: si trattava in effetti di una nuova specie diJenny Haniver. Quanto alla pelliccia di persiano fu, nello stesso periodo, un chirurgo tedesco, il dottor Kaempfer, a dimostrare che l'attribuzione della loro provenienza dal Borametz serviva solo a nascondere la più inconfessabile provenienza da feti di agnello, strappati dai ventri delle loro madri.

Aspetto

A queste due versioni della leggenda corrispondono due diverse interpretazioni iconografiche: la prima da luogo ad una immagine di albero normale, con foglie e grossi frutti, dai quali fuoriescono piccoli animali; la seconda sfocia invece nell'immagine di una normale pecora, perfettamente conformata, il cui ombelico è collegato alla terra da un tronco.

INTERPRETAZIONE

Cerchiamo ora di spiegare qualche aspetto della leggenda. Dietro alla prima versione della storia è agevole dimostrare che si nasconde semplicemente il cotone. Erodoto lo descrive come una sorta di lana che cresce sugli alberi indiani a mo' di frutto; e Teofrasto dice di questi alberi che producono piccole zucche della grandezza di una mela che, quando sono a maturazione, scoppiano, lasciando uscire di batuffoli di "lana". La parola usata per definire il frutto, significa anche agnello: ecco quindi facilmente spiegato come l'albero che produce la lana (e cioè il cotone), sia diventato l'albero che produce gli agnelli. La seconda versione, è invece genuinamente di origine orientale e deriva da due leggende, opportunamente miscelate: quella ebraica dello Jadu'a e quella cinese dello Shui Yang Tshui. Quest'ultima, dietro alla quale si cela una mitificazione del mollusco produttore del bisso, ci riporta alla correlazione tra una pianta mitica a metà tra regno vegetale ed animale ed una conchiglia bivalve che già abbiamo trovato a proposito delle Bernacae. E ipotizzabile che ambedue questi miti derivino da una medesima struttura simbolica, e che siano riportabi-li ad un unico archetipo.