Biblioteca:Tucidide, Le Storie, Libro IV

I
1. Sopravvenendo primavera, verso lo spigar del grano, dieci navi dei Siracusani ed altrettante dei Locresi andarono ad occupar Messina di Sicilia, a petizione di questa città che si ribellò agli Ateniesi. Furono i Siracusani i principali autori di questa pratica, perché vedevano quella terra acconciamente situata ad assaltar la Sicilia, e perché temevano che gli Ateniesi, fattavi la massa, di lì non si movessero una volta ad assalirli con apparecchio maggiore: i Locresi poi, perché disamando i Reggini, li volevano tribolare con la guerra dalla parte di terra e di mare. Erano ad un'ora entrati i Locresi in su quel dei Reggini con tutte le forze, acciò essi non potessero soccorrere i Messinesi; tanto più che ne li confortavano alcuni che si trovavano presso loro, usciti di Reggio, la quale, da lungo tempo travagliata dalle sette, non poteva di presente resistere ai Locresi; che però viepiù francamente l'assalivano. Guastata la campagna partirono i Locresi colla fanteria; ma le navi guardavano Messina; e l'altre che si andavano allestendo, presa ivi stazione, dovevano da quel luogo stesso far guerra.
2. Circa il tempo medesimo di primavera, innanzi che il grano fosse in maturità, i Peloponnesi e la loro lega, condotti da Agide re di Sparta figliolo di Archidamo, invasero l'Attica; ed accampativisi guastavano il territorio. Gli Ateniesi spedirono in Sicilia le quaranta navi che andavano preparando, e gli altri capitani Eurimedonte e Sofocle, essendovi di prima arrivato Pitodoro, che tra loro era il terzo. Commisero a questi che in tragittando si dessero cura dei Corfuotti di città, corseggiati dai fuorusciti che avevano occupato la montagna, giacché erano passate colà sessanta navi dei Peloponnesi per sostenere quelli della montagna; e perché credevano (essendo gran fame in città) di potersi agevolmente far padroni di tutto. Ed a Demostene, che dopo il suo ritorno dall'Acarnania era in qualità di privato, accordarono, conforme richiedeva, che, se giudicasse opportuno, si servisse nel giro del Peloponneso di queste medesime navi.
3. Le quali giunte appena lungo esso la Laconia venne la nuova l'armata dei Peloponnesi essere già a Corfù: e tanto Eurimedonte che Sofocle avevano fretta per là. Ma Demostene li confortava si fermassero prima a Pilo, e compiutovi il bisognevole, continuassero poi la navigazione. Opponendosi essi sopravvenne per avventura una burrasca che trasportò le navi a Pilo. Allora Demostene subitamente insisteva si cingesse di mura quella terra: esser questo il fine per cui si era imbarcato con loro: mostrava esservi grande abbondanza di legname e di sassi, ed il sito forte per natura, ed abbandonato insieme con buono spazio di terreno. In fatti Pilo è distante da Sparta intorno di quattrocento stadi, ed è situata in quella contrada che era una volta Messenia, ed ora dagli Spartani detta Corifasio. Rispondevano i capitani esservi molti promontori del Peloponneso abbandonati, qualora volesse rifinire colle spese la Repubblica per fame il conquisto. Ma, soggiungeva Demostene, parergli molto più degli altri importante questo luogo, perché vi era accanto il porto, e perché i Messenii, oriundi di esso ab antico e di una medesima lingua coi Lacedemoni, potrebbero recar loro moltissimi danni, facendo capo in quello, e ne sarebbero custodi fidatissimi.
4. Contuttociò Demostene non persuase né i capitani né i soldati, quantunque poi conferisse il progetto con gli ufficiali subalterni: e però, non potendo riprender mare, si restava, finché la smania di murare il castello assalì i soldati disoccupati in quella dimora. Laddove messa mano all'opera travagliavano; e perché mancavano di ferri da lavorar le pietre, le portavano a scelta e le incastravano in quel punto ove ciascuna combaciasse. Ovunque occorresse il loto, mancando essi di vassoi, lo portavano sulla schiena, curvandosi perché meglio vi stesse, e consertando le mani di dietro perché non cadesse: e si affrettavano in ogni maniera di fornire il lavoro nei lati più facili ad espugnare, prima che vi accorressero i Lacedemoni; giacché la massima parte del luogo era di per sé forte, né punto abbisognava di mura.
5. Per avventura i Lacedemoni celebravano una festa, ed insieme facevano poco conto di questa nuova, confidando o che al primo loro presentarsi i nemici sloggerebbero, o che di leggeri prenderebbero a forza il castello. In parte anche li ritenne l'aver tuttora l'esercito nell'Attica. Gli Ateniesi, in sei giorni munito il castello dal lato che guarda terraferma e dove era maggiore il bisogno, vi lasciano di presidio Demostene con cinque navi; e col più della flotta affrettavano la navigazione per Corfù e Sicilia.
6. Udita la presa di Pilo i Peloponnesi, che erano nell'Attica, acceleravano il ritorno a casa; sì perché i Lacedemoni ed il re Agide giudicavano che il caso di Pilo riguardasse a loro del tutto, sì eziandio perché essendo stata immatura l'invasione, mentre il grano era ancora verde, i più penavano di vettovaglia, e l'inverno sopraggiunto, più rigido di quel che portasse la stagione, premeva l'esercito. Onde per molte cause avvenne che sollecitassero la ritirata; e che questa fosse di tutte le invasioni la più breve, essendosi trattenuti nell'Attica quindici soli giorni.
7. Al tempo stesso Simonide generale degli Ateniesi prese a tradimento Eiona della Tracia, colonia dei Mendei e nemica d'Atene, avendo raccolto molti alleati di quei luoghi e piccola mano di presidiari ateniesi: ma accorsi prontamente i Calcidesi ed i Bottiesi ne fu discacciato con grave perdita di gente.
8. Ritornati i Peloponnesi dall'Attica, gli Spartani proprio ed i più prossimi del circonvicini corsero subito a Pilo: ma più tarda fu la mossa del rimanente dei Lacedemoni tornati di fresco da un'altra spedizione. Mandavano in giro pel Peloponneso intimando di soccorrer Pilo il più prontamente; e spedirono per le sessanta navi che avevano a Corfù, le quali trasportate sull'istmo di Leucade e non osservate dalla flotta ateniese di Zacinto, giungono a Pilo, ove si trovava anche l'esercito di terra. Ma Demostene, mentre i Peloponnesi navigavano tuttora verso colà, spedì innanzi celatamente due navi (che secondo gli ordini avuti da esso affrettarono il corso) ad avvertire Eurimedonte e gli Ateniesi che erano colla flotta a Zacinto di presentarsi a Pilo, perché quel luogo pericolava. I Lacedemoni dal canto loro si allestivano risoluti di assaltare quel forte per terra e per mare, confidando di dovere espugnare facilmente un lavoro fatto in furia, vi entra poca gente. Nondimeno aspettandosi il rinforzo delle navi attiche da Zacinto, avevano in animo, se pur non lo espugnassero prima del loro arrivo, di asserragliare l'imboccatura del porto, acciò gli Ateniesi non potessero introdurvisi, giacché l'Isola chiamata Sfatteria, stendendosi dinanzi al porto e soprastandogli d'appresso, lo rende sicuro ed angusto alle imboccature, talché dalla parte del forte degli Ateniesi e di Pilo non più che due navi possono traghettare insieme, e non più di otto o nove dalla parte che guarda il rimanente di terraferma. Inoltre tutta l'isola era boscosa e senza vie perché disabitata, e di circuito non più grande di quindici stadi. I Lacedemoni dunque intendevano di serrarne l'ingresso colle navi congiunte insieme e volte in fuori colle prore: ma perché temevano non i nemici gli guerreggiassero da quell'isola, vi fecero passare delle milizie gravi, ed altre ne schierarono per le costiere, cosicché gli Ateniesi avrebbero nemica l'isola e la terraferma non si potendo sbarcare. Poiché essendo importuosa quella punta della stessa Pilo che fuori della bocca del porto guarda il mare, non avrebbero donde muoversi a soccorrere i loro, laddove essi senza battaglia navale od altro pericolo speravano di dovere espugnare il castello ove era stato lasciato poco presidio e mancava la vettovaglia. Ciò risoluto trasportarono nell'isola delle genti di grave armatura sortite da tutte le compagnie, mentre per l'avanti altre ve ne passarono a vicenda: quest'ultime poi che furonvi lasciate erano quattrocentoventi (senza contare gl'Iloti a loro servizio) capitanate da Epitada di Molobro.
9. Ma Demostene vedendo che i Lacedemoni erano per assalirlo colle forze navali e terrestri, anch'egli si apparecchiava. Tratte a secco le triremi, che tra quelle lasciategli aveva ancor seco, ne formò una trincea sotto il forte, e ne armò le ciurme con deboli scudi e la maggior parte di giunco; essendo ché in quel luogo deserto non v'era da trovar armi: che anzi avevano prese queste cose stesse da una nave corsara e da una barchetta messenia a trenta rematori ivi casualmente arrivate. Ove si trovavano da quaranta Messenii di grave armatura, dei quali si valse insieme con l'altra sua gente. Schierò pertanto i più sì degli armati che degl'inermi dal lato di terra ferma ove il castello era meglio munito e forte per natura, ordinando che resistessero alla fanteria qualora li assalisse: ed egli scelti fra tutti sessanta soldati gravi e pochi saettatori, ed uscito del forte si avviava alla marina, colà ove si aspettava principalmente che i nemici tenterebbero di sbarcare, in luoghi stagliati e pieni di massi rivolti all'onde, perché reputava che la debolezza del muro da questo lato li avrebbe attratti a farvi ogni prova. E siccome gli Ateniesi, non temendo di dover mai esser vinti dalle flotte spartane, avevano lasciata sguarnita di muro questa parte, così ai Lacedemoni sarebbe venuto fatto di espugnare il castello, se riuscissero ad effettuarvi per forza lo sbarco. Demostene dunque su questo lato proprio in sul mare ordinava distintamente i soldati gravi, disposto, se possibile fosse, di ributtare il nemico; e li andava rincorando con questa esortazione:
10. « Valorosi soldati che meco imprendeste questo pericolo, non sia tra voi chi ponderando tutte le difficoltà che ci stanno attorno voglia in tal frangente ostentare accortezza, invece che, messo a parte ogni riguardo. affrontare fiduciosamente il nemico, e scamparla per questa via. Poiché quando le cose sono giunte a tal necessità non ammettono ponderazione, ma richiedono prontissimo il cimento. Io vedo che stanno per noi moltissimi vantaggi ove vogliamo persistere, senza sbigottire della moltitudine dei nemici, e tradire vituperosamente la nostra stessa superiorità; avvenga ché io pensi essere a pro nostro la disagevolezza del luogo, e doverci riuscir di giovamento se persistiamo: laddove cedendo, la montata sebbene scabrosa si renderà agevole non essendovi chi la contrasti: ed allora troveremo il nemico più formidabile, perché mancante di facile ritirata, quand'anche ne lo cacciassimo a forza. Ed invero fino a che sono sulle navi è cosa leggeri il ributtarli, ma sbarcati sono alla pari con noi: né vuolsi troppo temere la loro moltitudine, perché quantunque siano molti dovranno combattere pochi alla volta stante la difficoltà d'approdare. Inoltre il loro esercito sebbene più numeroso, non è però in terra del pari che il nostro, ma si trova sulle navi, le quali hanno bisogno in sul mare di molte opportune contingenze: di sorte che io penso che le difficoltà di costoro controbilancino la pochezza di nostre genti. E per voi, i quali siete Ateniesi e che sapete per esperienza non potersi effettuare giammai per forza lo sbarco sulle terre altrui (quando vi sia chi resista e non ceda per paura dell'ondate e del veemente impeto delle navi), per voi sì stimo cosa degna tener quivi adesso il fermo, respingere il nemico di sulla schiena del lido, e salvare ad un tempo noi stessi ed il castello» .
11. Per questa esortazione di Demostene, gli Ateniesi si animarono maggiormente; e scesi a basso si schierarono proprio lungo il mare. I Lacedemoni mosso il campo assaltarono il forte coll'esercito terrestre insieme e colla flotta composta di quarantatre navi, onde era ammiraglio Trasimelida spartano figliolo di Cratesicle, che diede l'assalto ove lo aveva preveduto Demostene. Ma gli Ateniesi resistevano da ambedue i lati sì di terra che di mare: ed i nemici divisa la flotta in piccole squadre (non potendosi approdare con molte navi) alternamente si riposavano ed alternamente assalivano, usando ogni sforzo ed eccitamento per respingere i difensori ed espugnare il castello. Sopra tutti poi campeggiava Brasida che comandando la sua trireme, e vedendo che i prefetti ed i piloti, attesa la scabrosità del luogo, schifavano di approdare anche dove sembrava possibile e stavano guardinghi perché le navi non cozzassero tra loro, gridava « vitupero! per risparmiare dei legni trascurare che i nemici abbiano fatte munizioni nel nostro suolo» : sfracellassero, li confortava, le proprie navi per forzare lo sbarco; non badassero gli alleati in tale occasione a sacrificare la loro flotta ai Lacedemoni pei grandi benefici da essi ricevuti: ma urtassero, ed a qualunque patto scendessero per vincer quell'esercito e quel castello.
12. Né già contento di incitare gli altri costrinse il suo nocchiero ad urtare in terra colla nave, e si avviava alla scala: ed ingegnandosi di smontare fu retrospinto dagli Ateniesi con molte ferite, e cadde svenuto nello spazio che è di mezzo alla prua ed ai remiganti; onde gli venne a calar nel mare lo scudo che trasportato a terra fu raccolto dagli Ateniesi, e se ne servirono dopo per il trofeo che innalzarono in memoria di quest'assalto. Gli altri intanto con tutto che facessero ogni sforzo non valeva a sbarcare, perché disagevole era quel sito, e gli Ateniesi persistevano senza retrocedere d'un passo. Insomma a tale si ridusse il capriccio della fortuna, che gli Ateniesi da terra, e (che più rileva) da terra laconica respingevano i Lacedemoni che li assaltavano dal mare; e questi si sforzavano di sbarcare in una terra propria ma inimicata ad essi dagli Ateniesi. Accidente invero meraviglioso perché in quel tempo a tal segno di reputazione eran giunti i Lacedemoni, che venivano reputati al tutto popoli mediterranei, e nelle battaglie terrestri valorosissimi; gli Ateniesi all'opposto gente marittima che sulle flotte di grandissima lunga primeggiavano.
13. I Lacedemoni pertanto dati degli assalti tutto quel giorno e parte del seguente, finalmente desisterono, e il terzo dì spedirono ad Asìna alcune navi per legname da macchine, sperando di prendere con quelle il muro dalla parte del porto, quantunque esso fosse alto, perché ivi era più facile lo sbarco. In questo arrivano da Zacinto quaranta navi degli Ateniesi, avvenga ché colà fossero sopraggiunte in rinforzo alcune di quelle che stavano di guarnigione a Naupatto, e quattro di Chio. Ma quando videro piena di soldati gravi la terraferma e l'isola Sfatteria, e che le navi le quali erano in porto non uscivano loro incontro, dubitando ove approdare, navigarono per allora a Prote, isola poco lontana e disabitata, ove pernottarono. Il giorno dopo fecero vela, disposti di battagliare se i nemici volessero sortire al largo contro loro; se no, di penetrare colla flotta dentro al porto. Ma i Lacedemoni non si avanzarono, e non avevano per avventura asserragliato le bocche del porto giusta il primo divisamento, anzi tranquilli in terraferma armavano le navi, apprestandosi a combattere nel porto stesso, che non era angusto, se alcuno vi si avanzasse.
14. Di che accortisi gli Ateniesi vogavano sopr'essi per le due imboccature del porto; e scagliatisi sulla maggior parte delle navi, che già colle prore innanzi procedevano contro loro, le misero in fuga. Molte ne ruppero perseguitandole a breve distanza, cinque ne presero, una delle quali vi entrò la ciurma, e correvano sopra le altre rifuggitesi a terra: quelle che si stavano tuttavia armando furono messe in pezzi prima di prender mare; ed alcune donde era precipitosamente fuggita la gente, legandole alle loro, le rimorchiavano vuote. Al veder ciò commossi oltre modo per la sconfitta i Lacedemoni, perché le loro genti restavano intercettate nell'isola Sfatteria, accorrevano in aiuto, entravano in mare colle armi indosso, ed abbrancando le navi le ritiravano indietro; avvisando ciascuno dovere andar fallita la prova laddove egli non prestasse l'opera sua. Per lo che grande era quel trambusto e ambedue le parti avevano barattato il modo del combattere intorno alle navi, poiché i Lacedemoni per l'ardore e la trepidazione null'altro facevano che, per dir così, dar battaglia navale di sopra terra: e gli Ateniesi, vincitori e desiderosi di avvantaggiarsi al più possibile della presente fortuna, facevano dalle navi battaglia terrestre: cosicché, dopo molto travaglio e molte ferite scambievoli, si separarono, avendo i Lacedemoni salvate le navi vuote, fuor quelle prese da primo. Ricondottisi entrambi agli alloggiamenti, gli Ateniesi ersero il trofeo, restituirono i morti, s'impadronirono dei rottami delle navi; e senza indugio volteggiavano attorno all'isola per tenerla guardata, essendovi intercette le genti dei nemici. I Peloponnesi poi, che erano sulla terraferma con quelli già da ogni contrada venuti a soccorso , rimasero al loro posto dinanzi a Pilo.
15. Uditosi in Sparta l'accaduto a Pilo, fu risoluto che, come per grande sciagura, i magistrati si recassero all'oste, perché vista la bisogna prendessero quel partito che più volessero. Ma poiché videro essere impossibile soccorrer le loro genti, e non volevano risicare che elle dovessero esser afflitte dalla fame od oppressate e vinte da un numeroso nemico, stabilirono di far tregua coi generali ateniesi (se loro piacesse) quanto agli affari di Pilo, spedir legati ad Atene circa la convenzione, e tentare di riaverle il più prestamente possibile.
16. Accettato il partito dai generali vi fu tregua in questo tenore: che i Lacedemoni condurrebbero a Pilo, e consegnerebbero agli Ateniesi le navi sulle quali avevano combattuto, e tutte quelle lunghe che avevano nella Laconia: non porterebbero né di terra né di mare le armi contro quel forte. Gli Ateniesi poi permetterebbero ai Lacedemoni di terraferma di mandare a quei dell'isola certa dose di frumento macinato, cioè due cheniche attiche di farina, due cotile di vino, e un pezzo di carne a testa; e pei serventi la metà. Questa roba si manderebbe a vista degli Ateniesi; né andrebbe a Sfatteria alcuna barca di soppiatto. E gli Ateniesi nientemeno che prima terrebbero guardata l'isola, ma senza sbarcarvi, né porterebbero l'armi sia per terra sia per mare contro l'esercito dei Peloponnesi. Per la più piccola trasgressione a questi articoli da una delle due parti si intenderebbe sciolta la tregua, che durerà fino al ritorno degli ambasciatori lacedemoni da Atene, i quali dovranno esser condotti e ricondotti sopra una trireme dagli Ateniesi. Tornati essi spirerà la tregua, e gli Ateniesi restituiranno le navi quali le avranno ricevute. - Tali furono i patti della convenzione; si consegnarono le navi che erano circa sessanta, e si spedirono i legati, i quali giunti ad Atene parlarono così:
17. « Ateniesi, i Lacedemoni ci inviarono qua per trattare, a riguardo dei nostri intercetti nell'isola, di cosa che vi persuaderemo essere ad un'ora utile per voi, e decorosissima per noi in questa sciagura, quanto il consentano le cose presenti. E se alquanto ci allungheremo in questa materia, ciò non sarà contro 1'usato, mentre è nostro patrio costume non usar molte parole, ove poche bastino, ma al contrario moltiplicarle, ove l'opportunità richieda che dichiarando cose gravissime s'abbia colle parole a procacciare quanto occorre. Ricevetele dunque non inimichevolmente, né come un ammaestramento quasi foste gente grossolana, ma abbiatele a suggerimento di diritta deliberazione come a gente oculata. Ed invero sta in voi di bene accomodare la presente prosperità col ritener quel che avete, far nuovo acquisto di onore e di gloria, e schivar ciò che interviene a coloro che inusitatamente ottengono qualche bene; i quali mossi dalla speranza sempre anelano a cose maggiori, appunto perché di presente prosperano all'impensata: dove coloro che s'imbatterono nelle molte vicissitudini dell'alternante fortuna, sono a buon dritto diffidentissimi delle felicità. Ciò che convenevolmente deve per esperienza essere proprio sopra tutto della vostra Repubblica e di noi.
18. « Ed apprendete ciò per la veduta delle nostre presenti calamità. Noi tenuti in grandissima estimazione presso i Greci ricorriamo a voi; noi che prima credevamo esser piuttosto in stato di accordar quello che ora vi veniamo chiedendo. Ciò non pertanto non soffriamo questo per difetto di forze, né per avere insolentito nell'incremento di esse; ma andammo falliti nei nostri disegni tutto che presi a misura di quelle che sempre avevamo, nel qual caso può a tutti egualmente accader lo stesso. Laddove è a voi richiesto che attesa la presente fortezza della vostra Repubblica, sostenuta anche da nuovi acquisti, non vogliate darvi a credere che la fortuna abbia di continuo ad esser con voi. Perciò ché prudenti sono tra gli uomini quelli che con sicuro consiglio pongono in ambiguo le prosperità, stante ché procederanno essi più saggiamente nelle disgrazie, stimeranno che la guerra non sempre andrà a lor talento qual che si sia il modo con cui uno voglia amministrarla, ma che andrà come la condurranno i destini; e meno di tutti vacilleranno perché non gonfiandosi per la fiducia del buon successo nella guerra stessa, le porranno termine quando è propizia la fortuna. Ciò che, Ateniesi, è per voi dicevole cosa adoperare con noi; acciocché, se mal non andando di ciò convinti, in avvenire vi incolga qualche sinistro (come spesso succede), non s'abbia a credere che per mera fortuna abbiate tanto progredito nelle vittorie; mentre sta in poter vostro tralasciare ai posteri stabile reputazione di fortezza e di senno.
19. « Ora i Lacedemoni vi invitano a tregua e scioglimento di guerra esibendovi pace, alleanza ed ogni altra maniera di generosa amistade e mutua fratellanza; ma chiedono in cambio le loro genti dell'isola, reputando migliore per entrambi non risicare, o che presentandosi loro qualche scampo abbiano a fuggirne a forza; o che espugnati, abbiano a trovarsi in servaggio maggiore. Per nostro avviso le grandi inimicizie si dissolvono sopratutto sicuramente, non quando uno colle armi alla mano e superiore di molto in guerra, inlacciando forzatamente il nemico coi giuramenti, si accordi con inique condizioni, ma quando, tutto che possa adoprar così, nondimeno per usar condiscendenza e vincerlo di cortesia si riconcilia a patti moderati oltre l'aspettativa del vinto. Allora l'avversario essendo obbligato non a vendicarsi come oppresso, ma a ricambiare di cortesia il suo emulo, è più presto a tenersi per sentimento d'onore dentro ai limiti degli accordi. Lo che sogliono gli uomini adoperare più facilmente coi nemici più grandi, che con quelli coi quali abbiano avute leggere differenze; e sono inclinati per natura a ceder dal canto loro a chi volontario rallenti il suo rigore, e per contrario a pigliar gara anche a mal tempo con chi tropp'alto insolentisca.
20. « Inoltre questa nostra riconciliazione cade, se mai altre volte, decorosamente in acconcio per entrambi, prima che qualche immedicabile disastro frapponendosi di mezzo ci sorprenda, per cui noi, in aggiunta alla nazionale, fossimo astretti a nutrir una perpetua privata nimistà contro voi; e prima che voi stessi restiate privi dei vantaggi a cui adesso vi confortiamo. Riconciliamoci dunque mentre le cose son tuttora in pendente; mentre voi alla vostra gloria aggiungereste la nostra amicizia, e mentre noi prima di sopportar qualche disdoro, acconceremmo discretamente la nostra sciagura. Scegliamo, sì, ambedue pace invece di guerra, e procacciamo agli altri Greci requie dai mali, ed anche in ciò il merito sarà precipuamente vostro; avvenga ché siano essi in guerra, ignari chi di noi due l'abbia incominciata; che se ella cesserà (e questo è più che altro in poter vostro) ne sapranno grado a voi soli. Insomma se ben discernete sta in voi di aver fermamente amici i Lacedemoni che a ciò vi invitano, non col forzarli ma col gratificarli. Riflettete quanti beni naturalmente si comprendono in questa riconciliazione, perocché, noi e voi dicendoci insieme, il rimanente di Grecia essendoci, ben sapete, inferiore, ci terra in grandissima onoranza» .
21. Di tal tenore fu il discorso dei Lacedemoni, perché credevano aver gli Ateniesi bramato per l'innanzi le tregue, ed esseme stati impediti dalla mala disposizione di Sparta: ora però offrendo pace speravano l'accetterebbero volentieri e renderebbero le genti dell'isola. Ma gli Ateniesi col ritenere quelle genti stimavano avere in mano di che procacciarsi le tregue quando volessero, e più in alto intendevano. A ciò principalmente gli instigava Cleone figlio di Cleeneto, personaggio popolare in quel tempo ed alla plebe graditissimo. Egli fu che gl'indusse a rispondere « dover le genti dell'isola render sé stesse e le armi, ed esser trasportate ad Atene: giunte esse colà, i Lacedemoni restituissero Nisea, Pega, Trezene ed Acaia (terre non già conquistate, ma accordate loro nella prima convenzione dagli Ateniesi i quali allora per le proprie calamità abbisognavano assai di tregua); e così riavrebbero le loro genti e si farebbe tregua per quanto tempo piacesse ad ambe le parti» .
22. Non vollero i legati contraddir nulla a quella risposta, ma pregavano si deputassero loro alcuni assessori, i quali parlando ed ascoltando intorno a ciascun articolo, convenissero di quieto in ciò di che scambievolmente si persuadessero. Ma anche qui Cleone instava caldamente dicendo saper lui già di prima che coloro nulla di giusto avevano nell'animo, e bene esserlo manifesto anche adesso, mentre niente vogliono dirne al popolo, e solo venire a consesso con pochi: che se nulla di buono seco ravvolgessero, ordinava parlassero a tutti. Laddove i Lacedemoni vedendo di non potere parlamentare al popolo, perché se mai paresse loro bene (attesa la presente calamità) di accomodarsi con esso, temevano che parlando e non ottenendo l'intento sarebbero diffamati dagli alleati; e di più vedendo che non verrebbero eseguite le loro richieste a condizioni discrete, partirono da Atene senza effettuata cosa alcuna.
23. Al loro ritorno fallirono subito le tregue di Pilo, ed i Lacedemoni, giusta il convenuto, ridomandavano le navi agli Ateniesi, i quali incaricandoli di assalti dati al castello contro l'accordo, e di altre cose che non meritano il pregio di esser narrate, non le rendevano; opponendo essersi stabilito che per quantunque piccola trasgressione sarebbero sciolte le tregue. I Lacedemoni negavano tutto, e richiamandosi dell'ingiustizia delle navi andarono a riprender la guerra, la quale vigorosamente si combatteva intorno a Pilo da ambo le parti. Di giorno gli Ateniesi circuivano continuamente l'isola con due navi a riscontro: di notte stavano con tutte in guardia all'intorno, tranne verso l'alto quando faceva vento, ed erano a tal uopo arrivate ad essi altre venti navi da Atene, talché in tutte furono settanta. I Peloponnesi poi campeggiavano in terraferma e davano assalti al castello, spiando l'occasione, quando che si presentasse, di salvare le genti loro.
24. Frattanto i Siracusani e gli alleati di Sicilia, oltre le navi che presidiavano Messina, condussero ivi il resto della flotta che stavano allestendo, e di là uscivano per far la guerra, alla quale per odio contro i Reggini erano principalmente stimolali dai Locresi, che già con lutto lo sforzo avevano assaltato le loro terre. Volevano anche tentare una battaglia per mare, vedendo che gli Ateniesi avevano piccola armata, e sentendo che una più grande, la qual doveva venirvi, era all'assedio della Sfatteria. Che se avessero vinto una battaglia navale speravano, che stringendo Reggio per terra e per mare, la ridurrebbero agevolmente in potestà loro, e fortificherebbero il proprio stato. Poiché essendo tra sé vicini il promontorio di Reggio in Italia, e Messina in Sicilia, non permetterebbero che gli Ateniesi vi approdassero, e si impadronissero dello stretto, il quale altro non è che il mare di mezzo a Reggio e Messina (ove la Sicilia è meno distante dalla terraferma) denominato Cariddi, per dove è fama che attraversasse Ulisse: e per la sua strettezza, e per il concorso dei due mari tirreno e siculo che ivi incontrandosi lo fanno rigurgitare, egli è giustamente stimato pericoloso.
25. Pertanto in questo spazio tramezzo, al tardi del giorno, i Siracusani e i loro alleati con poco più di trenta navi furono costretti a combattere, per cagione di una barca che traversava, avanzandosi incontro a sedici navi ateniesi e otto di Reggio: e vinti dagli Ateniesi tornarono frettolosamente, come ognuno poté, ai propri alloggiamenti di Messina e di Reggio colla perdita di una sola nave. La notte sopraggiunta pose fine al conflitto, dopo il quale i Locresi si ritirarono dal territorio dei Reggini, e le navi di Siracusa e degli alleati riunitesi alla Peloride che fa parte del messinese, ove erano anche le genti da piè, vi presero stazione. Gli Ateniesi poi ed i Reggini, viste le navi vuote, vogarono ad assalirle; e per un ronciglio di ferro scagliatovi sopra perdettero una nave, dalla quale i soldati fuggirono nuoto. Quindi i Siracusani montarono sulle navi, e costeggiando mediante l'alzaia per alla volta di Messina, andavano gli Ateniesi nuovamente ad affrontarli; se non che i nemici tiratisi all'alto tornarono ad assalir loro i primi, sicché perdono un'altra nave. Dipoi i Siracusani si ricondussero nel porto di Messina senza aver avuta la peggio né in questo tragitto, né nel conflitto navale combattuto come dicemmo: e gli Ateniesi fecero vela per Camarina avuto lingua che Archia coi suoi partigiani la renderebbe per tradimento ai Siracusani. Intanto i Messinesi con tutta l'oste andarono per la via di terra e di mare contro Nasso calcidico loro confinante. Il primo giorno, stretti i Nassii dentro le mura, saccheggiarono la campagna. Il dì seguente andando colle navi a seconda del tortuoso fiume Acesine guastavano la terra, e con la fanteria davano l'assalto a Nasso. Allora i Siciliesi di su i monti calavano in gran numero contro i Messinesi a soccorso dei Nassii, i quali a tal vista rinfrancandosi e animandosi tra loro, perché credevano esser quelli i Leontini ed altri alleati greci che corressero in loro aiuto, si precipitano improvvisamente fuori di città, assaltano i Messinesi, gli sbaragliano e ne uccidono sopra mille: il resto penò a ritornarsene a casa; perché quei barbari scagliandosi loro addosso nelle strade ne trucidarono moltissimi. In seguito le navi che avevano preso porto a Messina tornarono ciascuna al loro luoghi. I Leontini colla loro lega e con gli Ateniesi andarono drittamente contro Messina, profittando dello scoraggiamento di lei: e dandosi l'assalto gli Ateniesi fecero le loro prove dalla parte del porto colla flotta, e la fanteria dall'altra parte della città. Ma i Messinesi, ed alcuni Locresi con Demotele, che dopo la ricevuta sconfitta v'erano stati lasciati di presidio, fecero una sortita, ed investendo repentinamente il nemico fugano gran parte dell'esercito dei Leontini, coll'uccisione di molti. A tal vista gli Ateniesi scesero dalle navi per andare in soccorso, e piombando su i Messinesi disordinati gli perseguitarono fino alla città, ed eretto il trofeo ritornarono a Reggio. Dopodiché i Greci di Sicilia senza gli Ateniesi, seguitarono a guerreggiarsi in terra scambievolmente.
26. Ma a Pilo erano sempre i Lacedemoni assediati nell'isola dagli Ateniesi, e il campo dei Peloponnesi rimaneva in terraferma alle sue stanze. Riusciva travagliosissimo agli Ateniesi il guardare quell'isola per la scarsità del frumento e dell'acqua; perché non vi avevano fontane, tranne una non grande proprio nella rocca di Pilo: cosicché i più scavando la ghiaia presso il mare, ne bevevano acqua qual si può credere. A ciò si aggiungeva la strettezza dei luoghi per cui campeggiavano in piccolo spazio; e le navi non trovando ove fermarsi, parte andavano a vicenda a foraggiare in terra, parte stavano al largo sulle ancore. Ma più di tutto li infastidiva la lunghezza del tempo che tuttavia si prolungava contro la loro aspettativa, essendosi dati a credere che in capo di pochi giorni espugnerebbero la gente che in quell'isola deserta non aveva altro uso che di acqua salata. E questo prolungamento di tempo lo procuravano i Lacedemoni, i quali avevano promulgato che chiunque volesse, introducesse nell'isola grano macinato, vino, cacio, e se altro cibo vi era buono in caso di assedio; promessa la libertà agli Iloti che lo introducessero, ed assegnato molto denaro agli altri. Laddove tra coloro che audacemente si arrischiavano per introdurvi roba, erano principalmente gli Iloti che scioglievano da qualunque parte del Peloponneso ed approdavano, essendo ancor notte, là dove l'isola guarda verso l'alto, e badavano più che altro di esservi spinti dal vento; atteso ché quando soffiava dalla parte di mare più facilmente si celavano alla guardia delle triremi ateniesi, che non potevano allora posare attorno l'isola. Del rimanente erasi per costoro ridotto in uso l'approdare colà senza risparmiar nulla; poiché si era apposto il valsente alle navi che urtassero sulla spiaggia, e gli scali dell'isola erano guardati dai soldati di grave armatura. Contuttociò chi si arrischiava in tempo di bonaccia era preso. Vi entravano ancora dei palombari di verso il porto, tirando seco con una corda degli otri entrovi papavero melato e linseme gramolato; lo che dapprima restò nascosto, ma poi furono messe le guardie: insomma s'ingegnavano al postutto gli uni di portar viveri, gli altri di scoprirgli.
27. Risaputosi in Atene il disagio dell'esercito, e l'introduzione del foraggio nell'isola, stavano sopra pensiero e temevano che la vernata non dovesse cogliere colà le loro genti; vedendo che oltre al trovarsi in luogo deserto, sarebbe impossibile portar loro i viveri col circuire il Peloponneso (lo che non valevano a fare ne anche in estate per mandarvi il bisognevole); e che in quelle coste importuose non avrebbero le navi ove fermarsi: cosicché rallentandosi la guardia, o i prigioni dell'isola la vincerebbero, o col favore d'una burrasca s' involerebbero sulle barche che vi portavano il grano. Ma ciò che più di tutto temevano era il vedere che i Lacedemoni trovandosi alquanto più forti non manderebbero più araldo; e si pentivano della tregua non accettata. Onde avvistosi Cleone di esser preso in sospetto perché aveva attraversato l'accordo, disse che i messaggi arrivati in Atene non rapportavano il vero: ma questi esortando che se non credessero a loro, mandassero degli esploratori, e venendo a ciò deputato dagli Ateniesi lo stesso Cleone insieme con Teogene, sentì egli che o essi dovrebbe dir lo stesso di quelli che calunniava, o dicendo il contrario comparirebbe mentitore. Però vedendo che la mente degli Ateniesi pendeva piuttosto per una nuova spedizione, suggeriva loro non vi esser bisogno di mandare esploratori, né di perder tempo lasciando fuggir l'occasione: ma quando credano vere le nuove recate, si mettessero in mare per andar contro coloro. E per pugnere il generale Nicia figlio di Nicerato cui disamava, disse proverbiando: esser facile colle forze presenti, se i capitani fosser uomini, navigare all'isola e prender quelle genti; e bene egli vi riuscirebbe se avesse in mano il comando.
28. Ma Nicia mormorando il popolo contro Cleone perché ei non fosse già in corso se ciò gli sembrava facile, ed insieme vedendosi punto da lui, lo confortava che prendesse pure quel rinforzo che più gli piacesse, e si accingesse ad andare contro le genti dell'isola. Cleone alla prima credendo che ei facesse solo sembiante di cedergli si mostrava disposto; poi visto che cederebbe in effetto si ricusava, e diceva non sé, ma lui essere il generale: imperocché era già venuto in paura, e non avrebbe mai potuto credere che Nicia avesse la fermezza di cedergli il posto. Questi glielo intimò di nuovo, e presi a testimonio gli Ateniesi rinunziò al comando di Pilo. Ed essi (al solito del popolo), quanto più Cleone si ricusava di imbarcare e ritirava le sue parole, tanto più imponevano a Nicia di rimettergli il comando; e gridavano che s'imbarcasse. Talché non sapendo egli come distrigarsi delle sue promesse, accetta la spedizione, e fattosi innanzi disse: che non temeva i Lacedemoni, e che si metterebbe in mare senza prendere alcuno di città, ma solamente i Lemnii e gl'Imbrii che si trovavano lì presenti, e i palvesari venuti in rinforzo da Eno, e quattrocento arcieri da altri luoghi. Protestò altresì che con queste forze aggiunte ai soldati che erano in Pilo, in venti giorni, o menerebbe vivi i Lacedemoni, o ve li truciderebbe. La sua leggerezza mosse un poco a riso il popolo; ma fu gradita dalla gente assennata, considerando che uno di questi due beni ne otterrebbero, o di disfarsi di Cleone, come meglio speravano, o, se fallisse questa speranza, di sottomettersi i Lacedemoni.
29. Spedito egli il tutto nell'adunanza, ed eletto dagli Ateniesi a quell'impresa, partì prontamente, dopo avere scelto per suo collega Demostene, uno dei comandanti a Pilo, perché aveva udito che desso meditava lo sbarco nell'isola, al vedere che i soldati trovandosi male per la miseria del luogo, e piuttosto assediati che assedianti, anelavano di cimentarsi. Senza di che confermava Demostene in questa sua intenzione l'incendio accaduto nell'isola, la quale essendo quasi tutta boscosa e senza vie, perché di continuo disabitata, lo metteva in timore, e gli pareva che ciò fosse in vantaggio dei nemici, essendo ché se vi sbarcasse con molte genti, assalendolo essi da qualche luogo occulto, lo batterebbero. Infatti gli sbagli e le disposizioni di essi, atteso il bosco, non sarebbero a lui egualmente palesi, laddove gli sbagli del proprio esercito sarebbero tutti visibili, cosicché verrebbe inaspettatamente assalito ove più piacesse al nemico, in mano del quale stava 1'assalire. D'altronde se egli forzasse il folto del luogo per venire alle prese, stimava che i meno, ma pratici del posto, vincerebbero i più non pratici, e che il suo esercito quantunque numeroso andrebbe senza accorgersene rifinito, mancando del prospetto necessario per soccorrersi scambievolmente.
30. E tali pensieri gli correvano nell'animo a cagione principalmente della sconfitta etolica cagionata in gran parte dalla selva. Ora però, attesa la strettezza dell'isola, essendo i soldati nemici costretti a pranzare per precauzione quasi sulle coste di essa, ed avendo un tale appiccato il fuoco Involontariamente a piccola porzione della selva, era poi sopravvenuto il vento onde gran parte di quella andò inavvertitamente bruciata; e per questo poté Demostene meglio osservare che i Lacedemoni erano in maggior numero che non credeva; quando prima sospettava che per minor gente s'introducessero i viveri. Allora convinto che gli Ateniesi vorrebbero usare maggior premura contro un nemico non spregevole, e vedendo che l'isola offriva più facile sbarco di prima, preparava l'assalto, richiedeva di truppe i vicini alleati, ed apprestava tutte le altre cose. Intanto Cleone che aveva spedito innanzi ad avvisarlo ch'ei giungerebbe colla soldatesca da lui domandata, arriva a Pilo: e trovatisi ambedue insieme spediscono innanzi tratto un araldo al campo nemico in terraferma, confortando a voler ordinare a quei dell'isola, a scanso d'ogni pericolo, di render l'armi e le persone, a condizione che sarebbero tenuti sotto discreta guardia, finché non si fosse convenuto della somma delle cose.
31. Poiché non fu accettata questa proposta, i capitani ateniesi soprassederono un giorno; e il dì seguente imbarcati su poche navi tutti i soldati gravi, partirono di notte, e poco prima dell'aurora scendevano nell'isola, parte dal lato di essa che guarda l'alto, parte di verso il porto, da otto centinaia, che subito corsero addosso al primo corpo di guardia che si trovava nell'isola. Erano i nemici ordinati in tal guisa. Trenta in circa di grave armatura formavano questo primo corpo di guardia: Epitada capitano col grosso dell'esercito teneva il miluogo che era un piano intorno all'acqua dolce; se non che una piccola porzione di sue genti guardava 1'altra estremità dell'isola verso Pilo, che è scoscesa dalla parte di mare ed inespugnabile da quella di terra, ove per soprappiù sorgeva un'antica fortezza fabbricata con pietre scelte, della quale intendevano di giovarsi, caso che a viva forza fossero costretti di ritirarsi. Tale era la posizione dei Lacedemoni.

II
32. Gli Ateniesi che erano scesi nell'isola inosservati (perché i nemici stimavano che quelle fossero le navi che al solito scorressero per guardar l'isola) uccidono subito coloro che avevano assaliti mentre erano in letto, e mentre riprendevano le armi. E al nascer dell'aurora sbarcò dalle settanta navi, o poco più, tutto il resto dell'esercito, salvo i rematori disottani, ciascuno dal canto suo armato, con più otto centinaia d'arcieri e bene altrettanti palvesari, e il rinforzo dei Messenii, e quanti stanziavano intorno a Pilo, tranne le guardie che custodivano il castello. Queste genti, secondo le disposizioni di Demostene, si spartirono in squadroni di duecento, ed or più ed or meno, occupando le più elevate parti dei luoghi, affinché i nemici accerchiati per ogni lato si trovassero in grandissimo intricamento; e non che sapessero a chi mostrare il viso, fossero anzi per ogni verso infestati dalla moltitudine: così ché se urtassero di fronte, fossero percossi da quelli a tergo, se di fianco, da quelli schierati su i due lati. Insomma dovunque il nemico si volgesse, avrebbe sempre alle spalle le milizie leggere, dalle quali è più difficile salvarsi, perché mediante le frecce, gli strali, pietre e fionde hanno forza da lontano, e non v è modo d'inseguirle; avvenga ché, fuggendo vincano, e cedendo il nemico, l'incalzano. Con questa mente Demostene da prima ruminava lo sbarco, e con tale poi lo regolò in effetto.
33. Ma Epitada ed i suoi che erano il grosso delle genti dell'isola, visto disfatto il primo corpo di guardia, ed avanzarsi incontro l'esercito, correvano in ordinanza per assaltare i soldati gravi degli Ateniesi, volendo venire alle mani con questi che erano stati posti loro a fronte, mentre le truppe leggere stavano ai fianchi ed alle spalle. Ma non poterono azzuffarsi con essi né usare la loro perizia, perché le genti leggere, saettandoli quinci e quindi, li ritenevano; e quelli invece di correre all'assalto, stavano fermi al loro posto. Allora si avventarono contro i soldati leggeri e li fugavano, ma questi rivoltando faccia li respingevano, ed essendo armati alla leggera, prima d'esser raggiunti dal nemico ripigliavano facilmente la foga, tanto più che i luoghi erano disagevoli ed aspri perché sin di prima disabitati, ed i Lacedemoni gravati dal peso delle armi non potevano ivi perseguitarli.
34. Per questo modo dunque scaramucciarono tra loro un poco di tempo. Ma i Lacedemoni non avevano più lena di accorrere prontamente dove fossero incalzati: però le genti leggere degli Ateniesi, conosciuto che essi menavano le mani più lentamente, presero in mirandoli grandissimo coraggio. E vedendosi in numero assai maggiore, e , per non aver sofferto quel danno che s'aspettavano, essendosi assuefatti a non creder più formidabile il nemico (come quando da prima sbarcarono nell'isola coll'animo avvilito per avere a combattere coi Lacedemoni), si serrarono addosso a loro dispregiandoli e mandando alte grida; e percuotevanli con pietre, saette e dardi, e con quello che a ciascuno capitasse alle mani. Gridare ed assalire fu un punto, lo sbigottimento entrò nel nemico non avvezzo a sì fatta battaglia; gran polverio della selva testé incendiata si levava in alto, e le frecce ed i sassi, da tanta moltitudine scagliati in mezzo a quel nugolo, rendevano impossibile la vista di ciò che si parasse innanzi. Qui daddovero avevano i Lacedemoni difficile impresa alle mani, poiché le feltrate corazze non reggevano al saettame, le lanciole smussate rimanevano penzoloni nei feriti; e non potendo vedere ciò che avessero innanzi a sé, e non intendendo gli ordini che si comunicavano tra loro, perché sopraffatti dalle grida nemiche, non sapevano che farsi: insomama si trovavano per ogni lato circondati dal pericolo, senza avere speranza di trovar modo onde aprirsi una via a salvamento.
35. Alla fine dopo molto sangue sparso per essersi sempre andati ravvolgendo nel medesimo luogo, si avviarono serrati all'estrema munizione dell'isola non molto lungi, e al loro corpo di guardia. Vistigli cedere, allora si i soldati ateniesi con maggior animo e con grida maggiori li incalzavano, ed uccidevano quanti nel ritirarsi restassero presi. I più scamparono nella munizione, ed insieme col presidio che ivi era si schierarono su tutti i punti di essa ove poteva essere espugnata, risoluti di ributtare il nemico. Allettati gli Ateniesi dalla fuga dei nemici li perseguivano; ma la fortezza del sito vietando loro di girare intorno per chiuderli in mezzo, assalitili di fronte si sforzavano di cacciarli. Durò questo gioco un pezzo, anzi grandissima parte della giornata, benché entrambi fossero oppressi dal conflitto, dalla sete e dal sole, facendo gli Ateniesi ogni prova per isbarbare dall'altura i Lacedemoni, e questi per non cedere. Nondimeno più facilmente di prima resistevano i Lacedemoni, non v'essendo modo di circondarli di fianco.
36. Ma siccome la cosa riusciva interminabile, il capitano dei Messenii appresentatosi a Cleone ed a Demostene, disse loro, che si affaticavano inutilmente; che se volessero dargli una parte degli arcieri e delle genti leggere, egli circuirebbe i nemici alle spalle per quella via che saprebbe trovare, e che confidava di aprirsi un passaggio ad assalirli. Ottenuto quanto domandava, si mosse da un luogo appartato per non esser visto dai Lacedemoni; ed aggrappandosi per dirupati che via via sporgevano nell'isola, e dove i Lacedemoni non tenevansi guardati fidandosi alla fortezza del luogo, a gran pena e difficoltà circuì nascosamente la munizione. E comparso improvviso sulla altura alle spalle dei nemici, li sbigottì per quel caso impensato, e rinfrancò maggiormente gli Ateniesi i quali videro effettuato ciò che si aspettavano. Trovavansi ormai i Lacedemoni battuti dinanzi e alle spalle, e nel caso stesso delle Termopile, se è lecito agguagliare le cose piccole alle grandi. Quelli furono disfatti dai Persiani che per tragetti li circuirono, e questi pure circondati non più resistevano; ma trovandosi pochi a battagliar contro molti, e indeboliti del corpo per l'inedia, retrocedevano: e già gli Ateniesi eran padroni dei passi.
37. Cleone e Demostene vedendo che se i Lacedemoni prolungassero un poco più la ritirata sarebbero distrutti dal loro esercito, quetarono la battaglia e sostennero l'impeto dei suoi, volendo menar vivi ad Atene coloro, qualora udita la voce dell'araldo piegassero l'animo a consegnar l'armi, e si chiamassero vinti dalla presente calamità. Fecero dunque bandire se volessero render l'armi e le persone alla discrezione degli Ateniesi.
38. A tale annunzio i più depositarono gli scudi, ed agitavano in alto le mani accennando di accettare le condizioni bandite. Quindi fatto posa, Cleone e Demostene vennero a parlamento con Stifone figliolo di Farace terzo capitano dei Lacedemoni, eletto secondo il disposto della legge, mai qualche sinistro accadesse agli altri due; il primo dei quali Epitada era morto, ed Ipparete a lui sostituito, sebbene ancor vivo, giaceva come morto fra gli estinti. Pertanto Stifone e il suo seguito dicevano di voler mandare ambasciata ai Lacedemoni di terraferma per consultarli su quel che dovevano fare. Gli Ateniesi non permisero che veruno vi andasse: chiamarono bensì gli araldi di terraferma; e fatta due o tre volte la domanda, l'ultimo che venne portò in risposta: « I Lacedemoni permettono che voi provvediate alle cose vostre senza far nulla di turpe» . Essi tenuto consiglio tra loro resero sé stessi e le armi, e quel giorno e la notte seguente furono tenuti sotto guardia dagli Ateniesi, i quali nel giorno appresso alzarono trofeo nell'isola, e preparavano l'occorrente per imbarcarsi, avendo distribuito quella gente sotto la custodia dei trierarchi. I Lacedemoni, spedito un araldo, riebbero i cadaveri. I morti, e i presi vivi nell'isola furono questi: vi erano passati quattrocento venti di grave armatura in tutti; ne furono ricondotti vivi duecento novantadue: gli altri erano morti: di quei vivi circa cento venti erano Spartani. Degli Ateniesi pochi furono gli uccisi, perché la battaglia non fu stanziale.
39. Il tempo che quelle genti restarono assediate nell'isola, dal combattimento navale fino alla battaglia accaduta nell'isola stessa, fu in tutto settantadue giorni. Nei venti giorni incirca della gita dei legati per la tregua era loro somministrata vettovaglia; ma negli altri vivevano colle robe furtivamente introdotte. Nell'isola si trovò anche del frumento, e vi erano restate altre grasce, perché il comandante Epitada le somministrava più parcamente di quel che ne avesse la possibilità. Pertanto sì gli Ateniesi che i Peloponnesi coll'esercito, da Pilo tornarono entrambi a casa sua: e la promessa di Cleone, sebbene folle, riuscì; poiché condusse via quella gente dentro i venti giorni, siccome s'era incaricato.
40. Un tal fatto, più che qualunque altro avvenuto durante questa guerra , empiè di meraviglia i Greci; imperciocché giudicavasi che i Lacedemoni né per fame né per veruna necessità si avvierebbero a render le armi, e piuttosto morirebbero con esse alla mano, combattendo sinché avessero fiato: onde nessun credeva che quelli che le avevano rese fossero in valore pari a quelli morti. E un alleato degli Ateniesi che in aria di contumelia domandò in seguito ad uno dei prigionieri dell'isola, se i morti erano tra loro i prodi e i valorosi, udì rispondersi : che in gran pregio dovrebbe tenersi il fuso, cioè la freccia, se avesse saputo discernere i prodi: indicando che mero caso era l'essere stato ucciso dagli strali e dal sassi.
41. All'arrivo di coloro in Atene , gli Ateniesi determinarono di tenerli guardati in prigione finché non si venisse a qualche accordo; e di levarli per ucciderli se prima di questo i Peloponnesi entrassero nell'Attica. A Pilo poi avevano messo presidio, ed i Messenii di Naupatto, riguardando Pilo come patria loro, perché apparteneva una volta al territorio messenio, vi spedirono gente di loro la più idonea, che depredando la campagna laconica la danneggiarono moltissimo, perché hanno un medesimo linguaggio con gli Spartani. I quali fino allora non pratici del corseggiare e di sì fatta maniera di guerra, la sopportavano a malincuore, tanto più che gli Iloti disertavano, e però vi era sospetto di qualche più importante innovazione nel loro dominio. Anzi quantunque non volessero che i loro sospetti penetrassero in Atene, pure vi mandavano ambascerie per tentare di riaver Pilo e quei prigionieri; ma gli Ateniesi che intendevano a cose maggiori, contuttoché costoro molte volte vi andassero li rimandavano a mani vuote. Tali sono le cose avvenute a Pilo.
42. Appresso nella medesima estate gli Ateniesi capitanati da Nicia di Nicerato e due altri aggiunti, e seguiti dai confederati di Mileto, di Andro e di Caristo portavano la guerra nel territorio corintio con ottanta navi e duemila soldati propri di grave armatura, più due centinaia di cavalli su barche a ciò destinate. Fecero vela coll'aurora, e andarono a porre fra il Chersoneso e Reto presso il litorale di un luogo dominato dal colle Soligio, sulla cui cima anticamente fermatisi i Doriesi guerreggiavano i Corintii di citta discendenti degli Eolii. Onde il villaggio che risiede su quel colle chiamasi ancora Soligia; ed è distante dal litorale ove stavano le navi sedici stadi, Corinto sessant, e l'istmo venti. Ma i Corintii, presentito da Argo l'arrivo dell'armata ateniese, erano un pezzo innanzi corsi tutti sull'istmo, eccetto quei che abitano fuori dell'istmo stesso; e cinquecento di loro erano partiti per presidiare l'Ambracia e la Leucadia, mentre gli altri stavano in massa osservando ove gli Ateniesi approderebbero. Questi presero terra inosservati, onde furono alzati i segnali ai Corintii, che lasciata la metà di loro a Cencrea, se mai gli Ateniesi marciassero sopra Crommione, vi accorsero frettolosamente.
43. Batto, uno dei due capitani Corintii (perché due n'erano in quella guerra), presa seco una compagnia di soldati andò al borgo Soligia, che era senza mura, per guardarlo, e Licofrone e gli altri arruffaronsi col nemico. I Corintii caricarono primieramente l'ala destra degli Ateniesi, appena sbarcata dinanzi al Chersoneso, e quindi anco il resto dell'esercito. La battaglia era per tutto aspra e petto a petto. L'ala destra composta di Ateniesi e Caristii (essendo questi schierati gli ultimi), sostenne ed a gran pena rispinse i Corintii, che ritiraronsi presso una macìa; ed essendo quel luogo tutto declivo, scagliavano dall'alto sassi sul nemico, cui nuovamente assalirono cantato il Peana. Gli Ateniesi resistevano, e si rinnovò la zuffa petto a petto: se non che una compagnia di Corintii sopraccorsa in aiuto dell'ala sinistra dei suoi, fece piegare la destra degli Ateniesi, e l'inseguì fino al mare. Pure gli Ateniesi ed i Caristii tornarono di nuovo indietro dalle navi. Il rimanente poi dell'esercito sì dell' una che dell'altra parte non cessò dal combattere, ma specialmente l'ala diritta dei Corintii sulla quale era Licofrone, faceva resistenza contro la sinistra degli Ateniesi, sospettando che essi volessero tentare l'impresa del villaggio Soligia.
44. Ressero dunque un pezzo ambi gli eserciti senza cedere: ma poi, siccome gli Ateniesi avevano il vantaggio della cavalleria che mancava ai nemici, i Corintii furono messi in rotta, e si ritirarono sulla collina ove fermato il campo stavano quieti senza scendere al basso. In questa sconfitta perirono sull'ala destra i più con Licofrone capitano: ma il resto dell'esercito, dopo essere stato sbaragliato non venendo gagliardamente inseguito, e però non datosi a precipitosa fuga, potette in questo modo ritirarsi sulle alture, e piantarvi il campo. Gli Ateniesi poi vedendo che i Corintii non venivano più contro di loro a battaglia, spogliarono i cadaveri nemici e ripresero i propri, e subito innalzarono il trofeo. Quella metà dei Corintii che stavano di guardia in Cencrea perché gli Ateniesi non navigassero contro Crommione, non avevano potuto veder la battaglia a cagione del monte Oneio: però quando ebbero veduta la polvere, accortisi del fatto, corsero immediatamente al soccorso insieme coi più attempati dei Corintii restati in città, che avevano avuto contezza dell'accaduto. Gli Ateniesi pertanto quando se li videro venir contro tutti riuniti, credendo esser quello il sopravveniente rinforzo dei Peloponnesi delle vicine città, si ritiravano senza indugio presso le navi, portando seco il bottino ed i morti loro, ad eccezione di due che vi lasciarono, non avendoli potuti trovare: ed imbarcatisi traghettavano nelle isole adiacenti, e di lì spedivano araldo, e riebbero con salvocondotto i cadaveri che vi avevano lasciati. Mancarono in questa battaglia duecento dodici dei Corintii, e degli Ateniesi poco meno di cinquanta.
45. Gli Ateniesi poi sciolsero dall'isole, e navigarono il giorno stesso a Crommione del territorio di Corinto, distante da questa città centoventi stadi. Ivi preso porto e dato il guasto alla campagna, si accamparono per passarvi la notte. Il giorno dopo costeggiarono primieramente fino all'Epidauria: poi fattavi scala passarono a Metona fra Epidauro e Trezzene, e tagliato fuori l'istmo della penisola nel quale risiede Metona, vi tirarono un muro, vi lasciarono guarnigione, ed in seguito guastarono la campagna di Trezene, di Alia e di Epidauro. Ma finita che ebbero la fortificazione del posto, colle navi tornarono a casa.
46. Al tempo stesso di questi fatti Eurimedonte e Sofocle partiti colla flotta ateniese da Pilo per Sicilia, quando furono a Corfù si unirono con quelli di città, per andar contro quei Corfuotti che dopo la sedizione eran passati a fortificarsi sul monte Istone; e che padroni della campagna vi facevano grandi guasti. Assalirono il forte, e lo espugnarono; le genti di esso scamparono sopra un altura, e capitolarono a patti di rendere gli ausiliari; e quanto a sé, consegnate le armi, si rimettevano all'arbitrio del popolo ateniese. I capitani li fecer passare con salvacondotto nell'isola Ptichia, per tenerli sottoguardia finché non venissero spediti ad Atene; colla condizione che se alcuno fosse colto fuggendo s'intendesse sciolta per tutti la convenzione. Ma i primari tra i popolani di Corfù sospettando che, quando coloro fossero arrivati ad Atene, forse gli Ateniesi non vorrebbero ucciderli, macchinano questo. Spediscono a Ptichia pochi loro aderenti, e li ammoniscono che fingendo benevolenza dicessero a quelle genti « che per loro miglior cosa sarebbe il trafugarsi prontissimamente, e che essi appresterebbero loro una barca a tal uopo; perché i capitani ateniesi vorranno darli in balìa della setta popolare di Corfù» .
47. Li trassero all'inganno; e mentre navigavano nella barca a bella posta preparata, furono arrestati: e così rimase sciolta la convenzione; e coloro furono dati tutti in mano del popolo di Corfù. Ed in questa trama, acciò ella fosse un argomento irrefragabile pei ritenuti nell'isola, e più francamente la usassero gli orditori di essa, ebbero parte principalmente i capitani ateniesi col mostrar chiaro che, dovendo essi navigare in Sicilia, non volevano che coloro fossero menati in Atene da altri, essendo ché chi ve li conducesse riscuoterebbe l'onore di quell'impresa. Avutili dunque i Corfuotti nelle mani li rinchiusero in una gran prigione; donde poi cavandone venti per volta li facevano passare legati insieme fra due file di soldati quinci e quindi schierati, dai quali venivano feriti di taglio e di punta, tosto ché uno vi scorgesse qualche suo nemico. E gli sgherri seguendoli d'appresso sollecitavano colla sferza chi si avanzasse più lentamente.
48. Per questo modo ne trassero di prigione e ne uccisero fino a sessanta celatamente agli altri che vi restavano, i quali davansi a credere che li levassero di prigione per tradurli altrove. Ma non prima se ne avvidero e furonne avvertiti da qualcuno, che cominciarono a invocare e scongiurare gli Ateniesi che se volevano così li uccidessero essi stessi: e non più volevano uscire dal carcere, e protestavano che per quanto in loro stesse nessuno v'entrerebbe. Dall'altro canto i Corfuotti non pensavano di sforzare le porte, ma saliti sul tetto della prigione e scassinato il soffitto percuotevano i rinchiusi con embrici e con dardi scagliati al basso. Schermivansi quelli come potevano, e molti davansi la morte colle proprie mani, o ficcandosi nella gola le lanciate quadrella, o strangolandosi con funicelle cavate dagli strapunti che casualmente ivi erano, e con gli stracci dei vestiti, cosicché per gran parte della notte che sopravvenne a tanta sciagura, o strozzandosi da per sé, o colpiti dalle frecce scagliate da quei di sopra, in ogni maniera perirono. Poiché venne il giorno i Corfuotti li gettarono confusamente su dei carri, e li trasportarono fuori di città, e fecero schiave tutte le donne prese nel forte. Così i Corfuotti del monte furono distrutti dalla setta popolare, e così finì quell'atroce sedizione almeno per quello che concerne la guerra che descriviamo: imperciocché della fazione opposta nulla rimane che valga la pena d'esser riferito. Ma già la flotta ateniese giunta in Sicilia, ove prima era indirizzata, vi faceva la guerra insieme con gli alleati di quei luoghi.
49. Sul terminar dell'estate gli Ateniesi di Naupatto con gli Acarnani si misero in campagna, ed ebbero a tradimento Anactorio città dei Corintii, che giace sulla bocca del seno ambracico. Cacciati da essa i Corintii, gli Acarnani accorsero da ogni parte ad abitarla, e in tal modo ritennero quella terra; e finiva l'estate.
50. Nel seguente inverno Aristide figliolo di Archippo, uno dei capitani delle navi ateniesi spedite per radunare denari dagli alleati, arresta, presso Eiona situata in riva allo Strimone, Artaferne personaggio persiano che per ordine del re andava a Sparta. Condotto ad Atene, gli Ateniesi tradussero dal linguaggio assirio e lessero le lettere che portava, nelle quali fra le altre molte cose scritte ai Lacedemoni la somma era questa: non sapere egli quel che volessero, imperocché dei molti messaggi venuti nessuno diceva il medesimo; se pertanto volessero parlargli apertamente gli spedissero gente insieme con quel persiano. Gli Ateniesi in seguito rimandano ad Efeso sopra una trireme Artaferne insieme coi loro ambasciatori i quali, uditovi esser morto recentemente il re Artaserse figliolo di Serse che aveva finito di vivere circa codesto tempo, ritornarono a casa.
51. Nel medesimo inverno i Chii per comandamento degli Ateniesi, che temevano di qualche innovazione a proprio scapito, demolirono la fortificazione testé fatta; ma vollero prima da essi promessa e cauzione, in quanto potevasi che essi non farebbero novità di sorta veruna riguardo a Chio. Finiva intanto l'inverno e l'anno settimo di questa guerra di cui Tucidide scrisse la storia.
52. All'entrante estate subito il sole in parte eclissò circa il novilunio, e fuvvi terremoto ai primi dello stesso mese. E i fuorusciti di Mitilene e del restante di Lesbo, la maggior parte dei quali venivano dalla terraferma dell'Asia, soldate delle genti ausiliarie del Peloponneso, oltre a quelle che avevano colà raccolte, espugnano Rezio, che poi restituirono intatto per la somma di duemila stateri focaici: quindi marciano sopra Antandro, e lo prendono per via di tradimento. Era loro intenzione di mettere in libertà tutte le altre città nominate actee, o vogliamo dire litorali (possedute prima dai Mitilenei ed allora in mano degli Ateniesi), ma principalmente Antandro. Discorrevano essi che, siccome quel luogo offre comodità di fabbricar navi stante il legname di cui abbonda, perché il monte Ida gli sta a cavaliere, così quando avessero munito Antandro, partendo di lì con l'apparecchio necessario, riuscirebbe facile infestar Lesbo vicina, e sottomettere le cittadelle eoliche di terraferma. Tali erano le imprese alle quali volevano prepararsi.
53. Nella medesima estate gli Ateniesi condotti da Nicia di Nicerato, da Nicostrato di Diotrefe e da Autocle di Tolmeo, tolte seco sessanta navi, due mila soldati gravi e pochi cavalli, e fra gli altri alleati i Milesii, andarono ad oste contro Citera, la quale è un' isola poco di lungi dalla Laconia verso Malea, fronteggiata dai Lacedemoni, i quali ogni anno vi mandavano da Sparta un magistrato detto Citerodice, e di mano in mano un presidio di milizie gravi. Facevano i Lacedemoni molto conto di quell'isola, avvenga ché ella presentasse un ricovero alle navi mercantili che venivano d'Egitto e di Libia, e rendesse insieme più difficile ai corsali l'offender la Laconia dalla parte di mare per dove solo poteva esser danneggiata; perché Citera sporge tutta verso il mar siciliano e cretese.
54. Pertanto gli Ateniesi giunti colà sulla flotta, con dieci navi e due mila Milesi di grave armatura, s'impadroniscono di una città marittima nominata Scandea; e col rimanente dell' esercito sbarcati nella parte dell'isola che guarda Malea marciavano sopra la città dei Citerii. situata sul mare; ove trovarono gli abitanti già tutti sotto l'armi. Attaccatasi la zuffa i Citerii ressero poco tempo; poi voltato faccia si rifugiarono nella cittadella; e finalmente convennero con Nicia e suoi colleghi di rendersi agli Ateniesi. salvo la vita. Già anche di prima aveva Nicia tenuto discorso con alcuni di Citera; e però le condizioni dell'accomodamento, tanto prima che poi, furono trattate più presto e più all'amichevole. In fatti gli Ateniesi cacciarono di Citera solo la gente spartana, considerando che l'isola era così prossima alla spiaggia laconica. Dopo la capitolazione, gli Ateniesi padroni di Scandea, città situata presso il porto, misero guarnigione a Citera e navigarono ad Asine, ad Elo ed a moltissime altre terre marittime, sbarcando ed accampandosi ovunque l'opportunità il richiedesse: e così per circa sette giorni davano il guasto alla campagna.
55. I Lacedemoni, sebbene vedessero gli Ateniesi padroni di Citera, e si aspettassero che anche sulle loro terre essi farebbero simili sbarchi, pure non si opponevano in nessun luogo col grosso delle loro forze, e si contentavano di spedire pel loro dominio presidii di soldati gravi dove che abbisognasse. Del rimanente stavano molto guardinghi perché dopo l'insperata e grande sconfitta dell'isola Sfatteria, e dopo la presa di Pilo e di Citera trovandosi alla sprovvista attorniati per ogni banda da una guerra repentina, temevano di qualche gran rivoltura nello stato loro politico; onde, cosa non prima usata da essi, misero in piedi un corpo di quattrocento cavalli ed arcieri. Allora veramente divennero più che mai irresoluti in materia di guerra per questo perché, incompatibilmente con gli apparecchi che avevano, si trovavano a lottare in sul mare, ed in specie contro gli Ateniesi, pei quali ogni intentata impresa era un mancare alla propria reputazione di riuscire in tutto. Senza di che i molti fortunevoli casi, in che si erano in breve abbattuti contro ogni aspettativa, li mettevano in costernazione grandissima; cosicché temevano di aver forse a trovarsi da capo involti in sciagura simile a quella della Sfatteria. E siccome il loro animo aveva perduta la fiducia di sé perché non avvezzo di prima alle disgrazie, così andavano più a rilente nelle battaglie, e si auguravano infelice esito in ogni mossa che facessero.
56. E tuttoché gli Ateniesi dessero allora il guasto alle costiere. pure i Lacedemoni stavano per lo più fermi all'occasione degli sbarchi che essi facessero vicino alle particolari guarnigioni, sì perché ciascuna di queste si credeva inferiore di numero, sì ancora per lo sbigottimento che vi regnava. Una sola guarnigione che presso Cortita e Afrodisia fece resistenza, atterrì coll'incursione una banda vagante di soldati leggeri: ma quando le furono di fronte le milizie di grave armatura cedé; e vi restarono morti pochi soldati, e le loro armi prese. Gli Ateniesi ersero trofeo e rinavigarono a Citera. Di là circuirono colla flotta fino ad Epidauro Limero, saccheggiarono porzione della campagna, ed arrivarono a Tirea la quale, quantunque sia nel luogo chiamato Cinuria, è però conterminale del territorio argivo e laconico. I Lacedemoni a cui apparteneva 1'avevano data ad abitare agli Egineti cacciati dalla patria, per ristorargli dei benefici ricevuti al tempo del terremoto e della rivolta degli Iloti, tanto più che sebbene vassalli degli Ateniesi avevano sempre tenuto da Sparta.
57. Questi Egineti dunque, all'appressarsi della flotta ateniese, abbandonarono la cittadella che stavano fabbricando sul mare, e si ritirarono nella città dentro terra distante circa dieci stadi dal mare dove avevano le case. Una delle guarnigioni dei Lacedemoni, distribuite per la campagna che li aiutava alla costruzione della cittadella, tuttoché pregata dagli Egineti non volle entrar con loro nelle mura della città, stimando cosa pericolosa il rinchiudersi dentro; ma si ritirò sulle alture ove non credendosi in stato da battagliare stava in sulle sue. Intanto gli Ateniesi approdano, e tosto si avviano con tutto l'esercito a Tirea; la espugnano, la saccheggiano e la mettono a fuoco e fiamma. Quindi tornarono ad Atene conducendo gli Egineti sopravvissuti al conflitto, e Tantalo di Patroclo destinato loro a comandante dai Lacedemoni, che fu preso vivo coperto di ferite. Parimente menarono via pochi cittadini di Citera parendo lor bene di tramutargli altrove per sicurezza. Quanto a questi, deliberarono gli Ateniesi di depositarli nelle isole, e lasciar gli altri Citeri abitare nelle loro terre purché pagassero un tributo di quattro talenti; quanto poi agli Egineti, di ammazzare tutti i prigionieri, per l'odio antico che sempre avevano; e di incarcerare Tantalo con gli altri Lacedemoni presi in Sfatteria.
58. Nella medesima estate in Sicilia i Camerinesi e i Geloi furono i primi a fare armistizio fra loro: dopo anche gli altri Siciliani tennero congresso a Gela ove intervennero gli ambasciatori di tutte le città per negoziare un aggiustamento generale. Tra le varie e molte opinioni proposte prò e contra in quei dispareri, secondo che ciascuno credeva di essere in qualche cosa messo al di sotto, Ermocrate siracusano figlio d'Ermone, che più di tutti li persuase, tenne nell'assemblea questo discorso.
59. « Non perché io sia di piccolissima città, o Siciliani, e più delle altre sbattuta da questa guerra, farò parola; ma per manifestare nell'assemblea quello che parmi miglior consiglio per tutta la Sicilia. E che mai approderebbe l'allungarsi a dichiarare tutti i disastri che la guerra in sé comprende, dinanzi a voi che li sapete? Certo nessuno viene costretto alla guerra per l'ignoranza degl'incomodi che ella trae seco; né per timore se ne rimuove, ove stimi di guadagnarvi. Ma pur troppo accade che ad alcuni sembra il lucro maggiore del danno, altri amano meglio sottoporsi ai pericoli che andar presentemente un nonnulla al di sotto: e in tal caso quando gli uni e gli altri adoperino così inopportunamente, allora tornano in vantaggio le esortazioni agli accomodamenti. Questo è ciò di che sopra tutto voi dovrete adesso persuadervi, imperciocché allor da prima ci guerreggiammo a fine di acconciare ciascuno le cose proprie, ed or ventilando le pretensioni nostre tentiamo riamicarci insieme: e qualor non succeda che ciascun n'esca alla pari cogli altri, di nuovo ci guerreggeremo.
60. « Eppure se abbiam senno dobbiamo intendere che questo congresso non tanto ha per oggetto le nostre particolari bisogne, quanto il vedere se potremo ancora mantener salva la Sicilia insidiata tutta dagli Ateniesi, cui conviene stimare, circa le nostre controversie, pacificatori più obbliganti di quel che non sono i miei discorsi, perché fra i Greci sono essi i più forti: e sebbene stiano qua con poche navi, pur vanno spiando il nostro debole, e sotto la coperta della legalità d'alleanza mettono speziosamente a profitto quell'inimicizia che per natura ci portano. Che se noi ci appigliamo alla guerra, e qualcuno inviti costoro che anche dove non sono invitati muovono le armi, bene è da credere che peggiorando lo stato nostro colle domestiche spese, e facendo loro strada all'impero, essi al vederci logori verranno, quando che sia, con più numeroso stuolo, per tentare di sottomettersi tutta intera quest'isola.
61. « Ma se non abbiamo offuscati gli occhi dell'intelletto, dobbiamo invitare alleati ed abbracciar nuovi pericoli, piuttosto per acquistare al nostro stato quel d'altrui che danneggiare il proprio: dobbiamo persuaderci che le sette sono la peste principalissima sì delle particolari repubbliche che della Sicilia intera, della quale noi abitatori quantunque tutti insidiati, andiamo città per città parteggiando. Queste considerazioni devono condurre i privati a rappacificarsi coi privati, e le città colle città, a fine di tentar concordemente di salvare tutta quanta la Sicilia. Nessuno si immagini che i soli Dorici tra noi siano nemici agli Ateniesi, e che i Calcidesi in grazia della consanguinità jonica stiano al sicuro: imperciocché non per odio alla diversità del sangue costoro invadono i popoli, ma per bramosia dei beni di Sicilia, che possediamo in comune. E ciò hanno appalesato all'invito fatto loro da quei di stirpe calcidica, ai quali, con prontezza maggiore di quel che richiedesse una convenzione, hanno pagato un debito di giustizia come consanguinei, senza esserne stati mai soccorsi secondo l'alleanza. Pur queste soverchierie e premeditazioni degli Ateniesi sono bene da scusarsi; né io biasimo quelli che voglion comandare, ma quelli che sono troppo pronti ad obbedire; avvenga ché sia propio degli uomini comandar sempre a chi cede e guardarsi da chi t'assale. E vanno errati quelli tra noi che convinti di ciò, non antiveggono drittamente, e si presentano all'assemblea senza credere della massima importanza il ben provvedere al timore comune, da cui tostissimamente saremmo liberi solo che ci accordassimo insieme; perché gli Ateniesi non si muovono contro noi dal loro paese, ma dal paese di chi gli ha chiamati. Allora non la guerra colla guerra, ma le dissensioni colla pace tranquillamente quoteremo: e quanto fu ingiusta, sebben palliata la venuta degli Ateniesi qua invitali, altrettanto sarà ragionevole la loro partenza a man vuote.
62. « Ecco quanto bene rispetto agli Ateniesi ritroviamo saggiamente deliberando. Quanto poi alla pace, che a confessione di tutti è l'ottimo dei beni, come non deve farsi anche fra noi stessi? Se uno si trovi in prosperità, un altro in avversità, non credete voi che la pace meglio che la guerra possa in quest'ultimo cessare, e nel primo conservare il suo stato; e che ella offra onori e chiarezza permanente e tutto ciò che potrebbe dar materia a lunga orazione non meno che la guerra? Lo che considerando dovete non spregiar mie parole, ma anzi per queste provvedere ciascuno alla vostra salvezza. E se alcun tien per fermo di ben riuscire in qualche cosa o per il dritto o per la forza, badi che la sua speranza non vada fallita, ove egli sappia che dei molti i quali volevano perseguire colla vendetta gli ingiuriatori, e degli altri i quali speravano di vantaggiarsi per via della forza, quelli non che vendicarsi, non ne uscirono a bene; a questi invece di acquistare, avvenne di perdere del proprio. Imperciocché la vendetta non riesce meritamente a buon fine perché è provocata dal3'ingiuria, né la fortezza è stabile perché ha buone speranze, ma d'ordinario la vince l'incertezza del futuro, che sebbene fallacissima pure si mostra anche utilissima, avvenga ché temendo del pari usiamo maggior previdenza nell'assalirci l'un l'altro.
63. « Laddove abbattuti ora doppiamente, e dal timore indeterminato di questa incertezza, e dalla presenza degli Ateniesi ormai formidabili, riguardiamo questi ostacoli come sufficienti ad impedire quello che credevamo di effettuare giusta i mal concepiti disegni; mandiamo via dal nostro paese gli imminenti nemici; facciamo tra noi, come io credo il meglio, accordo sempiterno, o almeno con tregua lunghissima; rimettiamo ad altro tempo le nostre particolari differenze. Intendiamo insomma che seguendo il mio consiglio, ciascuno avremo libera la città nostra, e tenendola indipendentemente potremo per generosità render la pariglia a chi ci faccia del bene o del male. Ma se, non porgendomi orecchio, ci assoggetteremo ad altri, non più si tratterà di vendicarsi di alcuno, ma dovremo recarci a gran fortuna di esser per forza amici ai mortali nostri nemici, e discordanti da chi non dovremmo.
64. « Ed io per me, come da prima ho detto, tuttoché rappresenti città amplissima e tale da offendere piuttosto ché difendersi, pure credo ben fatto provvidamente comporci insieme, e di non far del danno ai nemici in modo da risentirlo noi maggiore. Né io vo' da stolto perfidiare di credermi arbitro, siccome del mio volere, così della fortuna cui non comando; anzi mi giova darla vinta finché il decoro lo permette: ma credo giusto che voi altri facciate meco lo stesso spontaneamente, e non aspettiate che i nemici vi astringano; perché non è vergogna che i nazionali cedano ai nazionali, o un dorico all'altro dorico, o un calcidiese ai consanguinei; in una parola, popoli tra sé vicini coabitanti di un medesimo paese bagnato intorno dal mare, e chiamati tutti con un sol nome Siciliani. Pur quand'occorra guerreggeremo tra noi, e fra noi nuovamente ci accorderemo mediante i comuni parlamenti: ma ora, se abbiamo senno, corriamo tutti insieme a respingere gli stranieri, se pure è vero che il danno di ciascuno è pericolo comune. Non chiamiamo più d'ora innanzi né alleati né pacieri, essendo ché per questo modo non defrauderemo al presente la Sicilia di due beni, cioè d'esser libera dagli Ateniesi e dalla guerra domestica; ed in avvenire noi soli la riterremo libera e meno insidiata dagli altri» .
65. Persuasi i Siciliesi dalle parole di Ermocrate convennero tra sé doversi cessar la guerra con questo inteso che ciascuno ritenesse quel che aveva; e che Morgantina resterebbe ai Camarinei purché sborsassero ai Siracusani certa somma di danaro. Gli alleati d'Atene chiamarono a sé i capitani ateniesi e dissero, che gradirebbero di accedere a quell'accomodamento, e che le tregue sarebbero comuni anche a loro. Avutone il consenso stipularono il concordato, e la flotta ateniese partì poi di Sicilia. Tornati i generali alla città, gli Ateniesi confinarono Pitodoro e Sofocle, e taglieggiarono Eurimedonte, allegando che potendo essi assoggettare la Sicilia, se ne erano ritornati corrotti dai donativi. Cotanto misusavano della presente loro felicità, che pretendevano nessuno ostacolo doversi attraversare ai loro disegni, e le imprese fattibili e le più difficoltose doversi del pari effettuare, sia con grandi, sia con insufficienti apparecchi. E ciò nasceva dalla inopinata fortuna nella maggior parte delle imprese, la quale nutriva in essi animosa speranza.
66. Nella medesima estate quei di Megara, stretti dagli Ateniesi che costantemente due volte l'anno assaltavano con tutto l'esercito le loro terre, e dai fuorusciti che nel bollore delle fazioni essendo stati cacciate dai popolani e raccoltisi a Pega riuscivano incomodi coi ladronecci, tenevano discorso fra loro del doversi levare il bando ai fuorusciti per non rovinare da due parti la città. A tal rumore i fautori dei banditi più apertamente di prima anch'essi insistevano non esser da trascurare tal proposta: ma i demagoghi temendo che il popolo, per le correnti calamità, non vorrebbe tenere il fermo nella loro parte, vengono a parlamento con Ippocrate di Arifrone, e Demostene di Alcistene, capitani ateniesi, con intenzione di render la città perché giudicavano ciò meno a sé pericoloso, che il rimettere in patria quelli che avevano discacciati. Convennero dunque per primo che gli Ateniesi occupassero le mura lunghe distanti circa otto stadi dalla città inverso Nisea loro porto, acciò i Peloponnesi non potessero correre in aiuto uscendo di Nisea stessa, ove soli stavano di presidio per tenere in rispetto Megera: quindi farebbero di tutto perché si rendesse anche la cittadella; e quando ciò fosse avvenuto, anche gli altri Megaresi più facilmente calerebbono agli accordi.
67. Discorso e preparato il tutto da ambe le parti, gli Ateniesi con seicento di grave armatura comandati da Ippocrate sull'imbrunire navigarono a Minoa isola dei Megaresi, e si posarono in un fosso scassato per ammattonare le mura, non molto lontano da Megara. Le genti leggieri dei Plateesi, e le altre della ronda guidate dal secondo capitano Demostene, si imboscarono presso al sacro recinto di Marte che ne è anche men lontano. A Megara nessuno sapeva di ciò, fuorché quelli cui premeva di essere avvertiti di codesta notte. Sul far dell'aurora quei tra i Megaresi autori del tradimento misero in opera tale frode: fingendosi pirati avevano un pezzo prima coi buoni ufizi indotto il capitano della porta ad aprirla; e di notte solevano sopra un carro trasportare pel fosso fino al mare una barca a due remi e mettersi in corso: poi sul medesimo carro la riportavano sino al muro, e la introducevano per la porta prima del giorno, perché non fosse veduta dalle sentinelle ateniesi di Minoa, tanto più che nel porto non si vedeva barca veruna. Allora già il carro era alla porta, che al solito fu aperta per la barca. A tal vista gli Ateniesi, poiché la cosa era di concerto, correvano in fretta dall'agguato volendo arrivar prima che si richiudesse la porta, e mentre vi era appunto la barca che serviva d'impaccio a rabbatterla; e sostenuti dai Megaresi complici della trama, uccidono le guardie della porta. I Plateesi con Demostene e i soldati della ronda furono i primi a correre laddove ora è il trofeo; e subito dentro la porta azzuffatisi coi Peloponnesi che essendo vicinissimi ed avvistisi del fatto vi erano accorsi, n'ebbero vittoria, e resero sicura la porta pei soldati gravi ateniesi che sopravvenivano.
68. Dopo ciascuno degli Ateniesi che a mano a mano passava la porta, si avviava verso le mura, ove pochi del presidio peloponnesio fecero in principio resistenza, ed alcuni rimasero morti: i più però si diedero alla fuga impauriti da quel notturno assalto dei nemici, e dal vedersi a fronte quei cittadini traditori; onde stimavano che tutti i Megaresi si fossero accordati a tradirli. Occorse inoltre che un araldo ateniese di suo capriccio bandì che chiunque dei Megaresi volesse esser con gli Ateniesi prendesse le armi. A tal voce non ressero più, ma pensando di aver veramente nemico tutto il popolo, si ricovrarono a Nisea. Sul far dell'alba erano già espugnate le mura; e in mezzo allo scompiglio della città i parteggianti degli Ateniesi e con loro gran moltitudine di popolo informati del segreto gridavano doversi aprire le porte ed uscire a battaglia. Avevano già tra loro stabilito che ungendosi per contrassegno con del grasso a fine di non essere offesi, aprirebbero le porte, ed entrerebbero a furia gli Ateniesi; lo che potevano fare tanto più francamente, in quanto che da Eleusi, giusta il convenuto, erano arrivati marciando di notte quattro migliaia di fanti gravi ateniesi e sei centinaia di cavalli. Ma quando i congiurati già unti erano presso alle porte uno di questi consapevole del tutto dichiara agli altri la trama: il perché raccoltisi insieme recaronsi tutti alla porta e dicevano non doversi aprire, né far sortita veruna, lo che non avevano osato di fare neanche innanzi quantunque avessero maggiori forze, né gettare la città in manifesto pericolo; che se alcun si opponesse, ivi s'aveva a decidere coll'armi. Mostravano al tempo stesso non saper nulla di quei maneggi, ma insistevano come che consigliassero il migliore, ed intanto restavano fermi a guardia della porta, di sorte che gli orditori della trama rimasero delusi.
69. Conoscendo i generali ateniesi che era nato qualche ostacolo, e che d'altronde non avevano forze sufficienti a prendere d'assalto la città, si diedero immediatamente a cingere di mura Nisea, persuasi che espugnandola prima che le venisse qualche soccorso, sarebbe stata anco più sollecita la resa di Megara. A tale oggetto arrivarono subito da Atene ferramenti, scalpellini ed ogni altra bisogna. Pertanto incominciando dalle mura già occupate, edificarono un muro trasversale per chiuder fuori Megara; e dalle due estremità di esse lo condussero fino al mare di Nisea. L'esercito si distribuì il lavoro del fosso e delle mura, valendosi dei sassi e dei mattoni del suburbio; fabbricava palizzate ove abbisognasse, tagliando alberi ed altro legname; e le case del suburbio stesso con merli onde venivano fornite servivano anch'esse di battifolli. Vi lavoravano tutto questo giorno, e sulla sera del di seguente il muro era quasi finito. Però le genti di Nisea intimorite perché mancavano di viveri (dovendo giorno per giorno consumare quelli che venivano mandati dalla cittadella di Megara) e perché non speravano pronto soccorso dai Peloponnesi e credevano nemici tutti i Megaresi, si composero con gli Ateniesi per esser liberi pagando capo per capo una taglia, con questo inteso che fossero rese le armi; ed i Lacedemoni col loro capitano, e qualunque altro vi si trovasse, lasciati a discrezione degli Ateniesi. Stipulato questi patti uscirono fuori, e gli Ateniesi demolirono le mura lunghe dalla parte di Megara, ed avuta in mano Nisea si accingevano ad altre imprese.

III
70. In questo tempo Brasida lacedemone figliolo di Tellide che si trovava in vicinanza di Sicione a Corinto per allestire un esercito contro la Tracia, avendo inteso la presa delle mura lunghe di Megara, venne in timore per il presidio peloponnesio di Nisea e per l' espugnazione di Megara. Laddove spedisce ai Beozi ordinando che tostamente dovessero venirgli incontro con tutto l'esercito al castello chiamato Tripodisco nella Megaride alle falde della montagna Geranea, ove anch'egli si recava con duemila settecento Corintii di grave armatura, quattrocento Fliasii e seicento Scionesi, senza contare le altre genti che aveva intorno a sé raccolte. Stimava'egli che Nisea fosse ancor salva; ma come marciando di notte alla volta di Tripodisco ebbe inteso esser presa, scelti trecento dell'esercito prima che nulla si sapesse di sua venuta, si appressava a Megara, celatamente agli Ateniesi che erano presso al mare. Dava voce, edera anche vero, di voler tentare, se fosse possibile, 1'impresa di Nisea: ma la cima dei suoi pensieri era di penetrare in Megara per assicurarsene. Onde faceva istanza ai Megaresi che dovessero riceverlo con l'esercito, dicendo di essere nella speranza di recuperare Nisea.
71. Ma le fazioni dei Megaresi erano venute in sospetto; perciò temevano gli uni. che Brasida fatti rientrare gli usciti, non cacciasse lor fuori; gli altri che per questa cagione appunto i popolani non gli assalissero, e così la città agitata da guerra cittadina non venisse a perdersi, mentre gli Ateniesi stavano d'appresso alle vedette. Però non lo ricevettero in Megara, ma piacque ad ambe le parti di star sulle sue per veder quello che succedesse, avvenga ché sperassero ambedue che si verrebbe a battaglia fra Ateniesi e Lacedemoni accorsi in aiuto, e così miglior partito sarebbe che si mettessero dalla parte del vincitore coloro che gli fossero affezionati. Brasida intanto, non avendo potuto indurre i Megaresi a riceverlo, tornò a raggiungere il rimanente dell'esercito.
72. Arrivarono a giorno i Beozi che prima dell'ambasciata di Brasida avevano avuto in animo di soccorrer Megara, perché non era loro estraneo quel pericolo, e perché erano già con tutte le loro truppe a Platea. Ma dopo l'ambasciata si inanimarono maggiormente e spedirono a Brasida una banda di duemila di grave armatura con seicento di cavalleria, e tornarono indietro col maggior numero; talché tutto l'esercito, di Brasida riunito insieme montava a non meno di seimila soldati di grave armatura. Gli Ateniesi avevano disposte in ordinanza le genti gravi presso Nisea in sul mare, e le leggere erano sparse per la pianura; quando i Beozi assaltando quest'ultime inaspettatamente, perché nessun soccorso era di prima venuto ai Megaresi, le cacciarono fino alla marina. Allora spintasi addosso al vincitore la cavalleria ateniese si venne alle mani; e durò un pezzo questa zuffa equestre in cui ambe le parti pretendono non avere avuta la peggio. Bene è vero che il comandante della cavalleria beozia e pochi altri si avanzarono fin sotto Nisea, e vi furono uccisi e spogliati dagli Ateniesi, i quali impadronitisi dei cadaveri dei Beozii li resero poi con salvacondotto, ed ersero trofeo: nondimeno però, se si riguardi la totalità di questo fatto d'arme, gli uni e gli altri si separavano con esito dubbioso. Anzi i Beozii tornarono al loro campo, e gli Ateniesi a Nisea.
73. Dopo questo conflitto Brasida e il suo esercito si avvicinarono al mare e alla città di Megara: e occupato un posto vantaggioso fermaronvisi in ordinanza, perché stimavano che gli Ateniesi verrebbero ad assalirli, e non ignoravano che i Megaresi starebbero oziosi a vedere di chi avesse ad essere la vittoria. Davansi essi a credere che questo compenso porterebbe loro due vantaggi: uno, che non sarebbero i primi a dar battaglia né a mettersi deliberatamente all'avventura; e che siccome si erano chiaramente mostrati disposti a resistere, così senza muover foglia verrebbe loro a ragione attribuita la vittoria: l'altro, che potevano sperare buon esito rispetto ai Megaresi; perciò se non fossero comparsi colà la cosa non resterebbe tuttora indecisa, ma creduti manifestamente vinti avrebbero senz'altro perduta quella città: mentre adesso potrebbe darsi il caso che gli Ateniesi non volendo combattere, essi senza battaglia conseguano il fine per cui erano venuti; come di fatto avvenne. Con ciò gli Ateniesi erano usciti di Nisea e si erano attelati dinanzi alle mura lunghe, ma non essendo assaliti dal nemico stavano ivi fermi, perché i loro generali consideravano la sproporzione del proprio pericolo con quello dei nemici. Infatti, se dopo aver avuto prospero successo nella massima parte delle imprese, ingaggiassero la battaglia contro un esercito più numeroso, ne avverrebbe che vincendo acquisterebbero Megara, perdendo verrebbe anche a perdersi il fiore delle genti di grave armatura: laddove il rischio di tutto l'esercito peloponnesio ivi presente era diviso in ciascuna città, e però con ragione dovevano i Lacedemoni desiderare di venire a giornata. Ma poiché trattenutisi del tempo nessuno dei due campi si moveva, gli Ateniesi tornarono i primi a Nisea, e quindi i Peloponnesi al luogo onde erano partiti.
74. Allora incoraggiati maggiormente quei Megaresi fautori dei banditi aprono le porte ai capitani delle città peloponnesie ed a Brasida, riguardandolo come vincitore dacché gli Ateniesi s'erano tenuti di combattere. Introdotti costoro in città ove stavano costernati i partigiani degli Ateniesi, vengono a parlamento: dopo si sciolse l'esercito della lega per tornar ciascuno alla sua patria: e Brasida recatosi a Corinto ordinava la spedizione di Tracia ove sin da principio era indirizzato. Partiti appena gli Ateniesi per alla volta di Atene, quei Megaresi rimasti in città che più degli altri si erano mescolati nelle cose di essi, vedendosi scoperti tosto partirono di soppiatto: e gli altri abboccatisi insieme con gli amici dei banditi permettono di rimpatriare ai rifuggiti in Pege, obbligandoli con giuramento di solenni promesse a dover dimenticare qualsi voglia torto, e a consigliare il meglio per la città. Ma costoro quando furono di magistrato, all'occasione di fare la rivista dell'armeria spartirono in varii luoghi le compagnie dei soldati, e cappati da cento dei loro nemici fra quei che passavano per più affezionati agli Ateniesi, costrinsero il popolo a dare sopra di loro il voto scoperto, per cui essendo stati condannati li uccisero. Così ridussero la città, può dirsi, ad una assoluta oligarchia, e questo cambiamento, causato dalla sedizione che portò il governo in mano di pochissimi, durò per assai lungo tempo.
75. Nella medesima estate essendo i Mitilenei vicini ad effettuare il loro disegno di munire Antandro, Demodoco ed Aristide capitani degli Ateniesi, deputati esattori del tributo, trovandosi attorno all'Ellesponto (mentre Lamaco loro terzo collega con dieci navi era entrato nel Ponto) quando riseppero i preparamenti di quella terra vennero in apprensione che ella potesse diventare quel che a danno di Samo era Anea, ove ridottisi i fuorusciti Sami aiutavano in sul mare i Peloponnesi mandando loro dei piloti, fomentavano turbolenze tra i Sami restati in città, e raccettavano gli usciti. Però messa insieme un'armata di alleati, navigano ad Antandro ove, superati in battaglia quei che ne erano venuti ad opporsi, riprendono di bel nuovo la terra. Non molto dopo Lamaco che già era entrato nel Ponto approda alle rive del fiume Caleci in su quel d'Eraclea; ma venuta dell'acqua dalle parti montane e calata un'improvvisa corrente, vi perde le navi. Nondimeno egli traversando colle sue genti il paese dei Traci Bitinii, che sono sulla spiaggia opposta in Asia, giunge per terra a Calcedonia, colonia dei Megaresi, situata in sulla bocca del Ponto.
76. Nella medesima estate anche Demostene capitano degli Ateniesi partito appena dalla Megaride va con quaranta navi a Naupatto, avvenga ché alcuni delle città beozie tenessero segrete pratiche con lui e con Ippocrate sugli affari della Beozia, con intenzione di mutare lo stato e voltarlo, come gli Ateniesi, alla democrazia. Pertanto guidati principalmente da Pteodoro esule tebano avevano disposto la cosa in questo modo: che alcuni renderebbero per tradimento Sifa castello marittimo del territorio tespico in sul golfo di Crisa; ed altri d'Orcomeno consegnerebbero Cheronea che è nel medesimo distretto d'Orcomeno denominato prima Minieo ed ora Beozio. Si erano uniti in queste pratiche più che altri i banditi orcomeniesi, e soldavano genti del Peloponneso; e siccome Cheronea è su i confini della Beozia, così vi avevano le mani ancora alcuni Focesi. Gli Ateniesi poi occuperebbero Delio consacrato ad Apollo, che resta nel Tanagrese e guarda Eubea; e tutte queste cose dovevano farsi in un determinato giorno perché i Beozii non potessero tutti accorrere in soccorso di Delio, ma ciascuno avesse di che darsi moto per i propri affari. Se il tentativo andasse bene e si potesse munir Delio, speravano agevolmente che, posto anche non nascesse subito qualche innovazione del governo beotico, nondimeno l'occupazione di questa terra dando abilità agli Ateniesi di corseggiar la campagna, ed essendo un vicino ricovero ai malcontenti, le cose dei Beozi non rimarrebbero tranquille; e che gli Ateniesi unendosi ai ribelli, mentre i Beozi non potevano raccogliere insieme le loro forze, riuscirebbero col tempo a stabilirvi reggimento acconcio al loro disegni. Queste erano le insidie che si tramavano.
77. Intanto Ippocrate, che quando fosse il tempo doveva marciare alla testa degli Ateniesi contro i Beozi, fece avviare Demostene a Naupatto colle quaranta navi, acciocché raccolto da quei luoghi un esercito tra di Acarnani e d'altri confederati navigasse a Sifa, che ella verrebbe resa per tradimento. Già avevano fra sé convenuto del giorno in cui dovevano tutte insieme queste cose effettuarsi. Demostene dunque al suo arrivo ricevette nell'alleanza degli Ateniesi gli Eniadi costrettivi dall'intero corpo degli Acarnani, e poi commosse da sé stesso tutta la lega di quelle parti; cominciò da portar le armi contro Salintio e gli Agrei, e recato in sua mano la somma delle cose si disponeva quando che occorresse a raggiungere gli Ateniesi a Sifa.
78. Circa il medesimo tempo di questa estate Brasida con mille settecento di grave armatura messosi in cammino per la sua impresa di Tracia, non prima pervenne ad Eraclea della Trachinia che spedì innanzi un messaggio in Farsalo, pregando i suoi fautori a dover concedere il passaggio per la Tessaglia a lui ed alle sue genti. Vennero di fatti a Melizia dell'Acaia Panero, Doro, Ippolochide, Torilao e Strofaco pubblico ospite dei Calcidesi; e allora egli riprese il suo cammino accompagnato, tra gli altri Tessali, da Niconida larisseo che era molto innanzi con Perdicca, avvenga ché non sia facile traversar la Tessaglia senza scorta in specie per gente armata, anzi suole generalmente presso tutti i Greci esser preso in sospetto chi passi su quel di altrui senza consenso. Si arroge di più che la moltitudine del Tessali era mai sempre bene affetta agli Ateniesi; di modo che se invece d'esser retti da una balìa dominante si fossero governati con uguaglianza popolare di diritto, Brasida non sarebbe potuto passare avanti. Perciò anche quando egli s'era messo in via essendoglisi fatti incontro sul fiume Enipeo quelli della fazione contraria alle sue guide, volevano contrastargli il passaggio chiamandosi offesi perché egli passasse innanzi senza il consenso di tutto il comune. Rispondevano le scorte che non intendevano di condurlo a malgrado di essi, ma solo per titolo di ospitalità da che era comparso repentinamente. E Brasida diceva di propria bocca esser venuto amico al suolo tessalo ed ai Tessali, portare le armi contro gli Ateniesi suoi nemici, non già contro loro, non vedere alcuna inimicizia fra i Tessali e i Lacedemoni per cui dovessero scambievolmente impedirsi l'uso del territorio, non volere proseguire il cammino a loro dispetto (né quando il volesse potrebbe farlo), ma solo pregarli che non dovessero impedirglielo. Costoro udito ciò partirono; e Brasida, ad istanza dei suoi conduttori prima che si adunasse più gente a contrastargli il passo, senza punto trattenersi marciò con tanta fretta, che il giorno medesimo che s'era mosso da Melizia fece capo a Farsalo, e si pose ad oste sul fiume Apidano. Di li passò a Facio, e quindi a Perebia, donde finalmente i suoi conduttori tessali tornarono indietro. Ed i Perebii vassalli degli stessi Tessali lo fecero passare a Dio cittadella del regno di Perdicca, posta alle falde dell'Olimpo di Macedonia inverso la Tessaglia.
79. Così Brasida fu in tempo di trascorrere la Tessaglia prima che alcun fosse preparato ad opporsegli; ed arrivò presso Perdicca e nelle terre Calcidesi, ove intimoriti della fortuna degli Ateniesi tanto i Traci che si erano loro ribellati quanto Perdicca avevano invitato questo esercito peloponnesio. I Calcidiesi, ai quali si univano segretamente le vicine città (tuttoché ancora non ribellate), avevano fatto gran calca per ottenere questo soccorso, perché credevano che gli Ateniesi prima di tutto moverebbero le armi contro loro; Perdicca poi, perché sebbene non fosse aperto nemico di Atene pure temeva delle differenze avute con quella Repubblica, e soprattutto perché voleva soggiogare Arribeo re dei Lincesti. I cattivi successi delle armi di Sparta facilitarono ad essi la via ad ottenere dal Peloponneso questo esercito.
80. Speravano i Lacedemoni che, siccome gli Ateniesi soprastavano al Peloponneso e principalmente al territorio di Sparta, valevolissimo mezzo a divertirli sarebbe se anche essi li inquietassero collo spedir genti ai loro alleati, che di ciò li ricercavano per ribellarsi, obbligandosi ancora al nutrimento dei soldati. Desideravano inoltre d'avere un pretesto per mandar fuori degli Iloti, perché di presente essendo Pilo in potere degli Ateniesi, non dovessero tentare qualche novità. Avevano già i Lacedemoni usato molti compensi per tenersi sempre ben guardati dagli Iloti; ed allora che molti erano e giovani, e però mettevano loro paura, ricorsero a quest'astuzia. Bandirono che quelli tra loro che pretendessero di essere stati i più valorosi nelle cose di guerra a pro dello stato si separassero dagli altri, che verrebbero fatti liberi. Era questa una tenta per scoprirgli, perché i Lacedemoni facevano a dire che quelli i quali avessero presunto d'essere i primi ad ottenere la libertà, avrebbero anche avuta maggior baldanza degli altri ad assalirli. Così sceltine duemila li menarono inghirlandati attorno ai templi come costumasi coi libertini; ma poco dopo gli fecero sparire senza che nessuno sapesse con qual genere di morte, e spedirono prontamente settecento degli altri armati alla grave sotto il comando di Brasida che ardentemente lo desiderava, e che si procacciò col soldo altre milizie del Peloponneso.
81. Avevano già anche i Calcidesi bramato di aver Brasida che in Sparta era tenuto in concetto d'uomo attivo e sufficiente a qualunque impresa, e che per quella spedizione venne in grandissima reputazione appresso i Lacedemoni. Con ciò mostrandosi innanzi tratto giusto e moderato verso le città, molti luoghi indusse a ribellarsi, ed alcuni ne ebbe per via di trattati; talché avvenne che volendo i Lacedemoni accomodarsi con gli Ateniesi (siccome fecero), potessero rendersi a vicenda e scambiarsi le terre, e respirar nella guerra allontanata dal Peloponneso. Ed in seguito quando si venne all'armi dopo gli affari di Sicilia, la virtù e la prudenza di Brasida, conosciute da alcuni per prova da altri credute per udita, indussero principalmente nei confederati Ateniesi il desiderio dei Lacedemoni; perché uscito egli il primo di Sparta e procacciatosi grido di uomo probo per ogni conto, lasciò in essi ferma speranza che gli altri dovessero essere simili a lui.
82. Ma gli Ateniesi, quando intesero che egli era giunto in Tracia, tennero per loro nemico Perdicca incaricandolo della venuta di Brasida, e rinforzarono i presidi presso i confederati di quei luoghi.
83. Intanto Perdicca unite subito le sue genti con quelle di Brasida marcia contro Arribeo figliolo di Bromero, re dei Lincesti Macedoni, suo confinante, non tanto per delle differenze che seco aveva, quanto perché voleva soggiogarlo. Ma quando egli e Brasida con l'esercito erano per metter piede sul territorio di Linco, Brasida disse che prima di venire all'armi voleva abboccarsi con Arribeo per tirarlo, se gli riuscisse, nella lega dei Lacedemoni; tanto più che Arribeo aveva mandato un trombetta dichiarandosi pronto a rimettersi in Brasida ove volesse esser mezzano tra loro. Similmente i legati calcidesi che si trovavano nel campo significavano a Brasida, per averlo più pronto ai loro bisogni, di non volere entrar nel pericolo per cavarne fuori Perdicca, i cui ambasciatori avevano a un dipresso spacciato lo stesso a Sparta, quando dissero che riuscirebbe a lui di render molte terre sue confinanti alleate dei Lacedemoni. Laddove Brasida giudicava di dover trattare come comuni gli interessi d'Arribeo: ma Perdicca rispondeva non averlo condotto colà perché si facesse l'arbitro delle loro differenze, ma bensì perché sterminasse quelli che da lui gli venissero indicati come suoi nemici, e che gli farebbe un torto mettendosi dalla parte di Arribeo, mentre egli sostentava la metà dell'esercito. Nondimeno Brasida ripugnando e dissentendo Perdicca va a trovare Arribeo, dal quale persuaso ritirò l'esercito prima di mettere piede nelle sue terre. Perdicca dopo questo fatto ritenendosi ingiuriato, invece della metà dava il terzo del foraggio.
84. Immediatamente nella medesima estate poco prima della vendemmia Brasida conducendo seco anche i Calcidesi portò la guerra ad Acanto colonia degli Andri, dove i fautori dei Calcidesi che lo avevano invitato ed i popolani contendevano insieme se dovesse o no riceversi. Tuttavia temendo il popolo pei frutti della campagna che tuttora erano fuori, Brasida lo induce a dover ricever lui solo, ed ascoltarlo prima di risolvere. Onde presentatosi al popolo con un bel porgere per spartano, parlò in questo tenore.
85. « Cittadini d'Acanto, la spedizione di me e del mio esercito fatta dal lacedemoni viene a verifìcare il motivo di questa guerra da noi divulgato in principio, cioè che noi guerreggeremmo per liberare la Grecia. E nessun ci apponga a colpa se falliti nella nostra credenza quanto alla guerra fatta colà, per cui speravamo di presto abbattere gli Ateniesi senza vostro pericolo, venimmo qua un poco tardi; perché arrivati adesso, quando ci fu possibile, daremo opera insieme con voi a debellarli. Stupisco però di vedermi chiuse le porte e di non giungervi grato. Perciò laddove noi Lacedemoni stimando anche prima del nostro arrivo di dover venire presso un popolo alleato almeno per volontà, ed a cui saremmo accetti, ci siamo gettati in tanto pericolo facendo viaggio per molte giornate in terra straniera, e mostrando ogni sollecitudine, sarebbe un'indegnità se voi aveste in mente altri pensieri, e contrariaste la libertà vostra e quella degli altri Greci. Essendo ché non solo voi mi vi opponete, ma farete anche sì che ovunque mi presenti meno prontamente si uniscano a me gli altri, i quali si adombreranno, perché essendo primieramente venuto presso voi che avete città considerevolissima e nomea di prudenza, non mi abbiate ricevuto. Né io potrò giustificare il motivo di mia venuta, ma sarò creduto o di volere imporre una iniqua libertà, o di trovarmi qui debole e inabile a protegger quelli che vengano assaliti dagli Ateniesi. Eppure questi Ateniesi, essendo io andato a soccorrere Nisea, tuttoché fossero in maggior numero non vollero azzuffarsi con quelle medesime genti che adesso ho meco. Ora non è presumibile che essi siano per mandare contro di voi un esercito così grosso come l'armata di Nisea.
86. « Io però son qua venuto non per danneggiare, ma per liberare i Greci; ed ho astretto i magistrati di Sparta a giurarmi solennemente che sarebbero indipendenti coloro che io tirassi nella mia lega. E nemmeno mi trovo qua perché voglia aggiungervi alla nostra confederazione o per forza o per inganno, ma all'opposto perché vi uniate con noi a guerreggiare gli Ateniesi che vi tengono schiavi. Per lo che mentre vi do pegni grandissimi, credo che io non debba esser tenuto uomo sospetto o vendicatore insufficiente, e che voi vi accosterete a me pieni di confidenza. Se poi vi ha chi temendo in particolare di chicchessia sta perplesso perché forse io voglia mettere la città in balìa di alcuni, costui si rassicuri sommamente; perché non vengo a fomentare sette, e credo che non apporterei manifesta libertà se trascurando i vostri statuti assoggettassi o la plebe ai nobili, o i nobili alla plebe. Sarebbe questa una libertà più grave d'un dominio straniero, e a noi Lacedemoni non frutterebbe riconoscenza delle nostre fatiche, ma piuttosto colpa invece d'onore e di gloria. Così mostreremmo di tirarci addosso quelle accuse stesse per cui guerreggiamo contro gli Ateniesi in modo anche più odioso di chi non professò mai alcuna virtù. Con ciò per chi è in credito è più vergogna sopraffare altrui con speziosa frode che con aperta violenza; perché in questo caso assale col diritto del più forte datogli dalla fortuna; in quello, coll'insidia propria di un animo iniquo. Il perché usiamo molta circospezione nelle controversie che sono per noi rilevantissime.
87. « Né, oltre ai giuramenti dei Lacedemoni, maggior sicurezza potreste avere di quelli argomenti i quali, confrontando esattamente i fatti colle promesse, vi conducono necessariamente a credere che torna anche in vostro vantaggio quello che ho detto. Se poi a queste mie profferte risponderete non poterle accettare, e la qualità di nostri amici darvi il diritto di rigettarci impunemente, e la libertà sembrarvi pericolosa, ed esser giusto portarla a quei popoli che hanno la possibilità d'accettarla, e non astringervi alcuno suo malgrado; io prenderò in testimoni gli Dei e gli Eroi del paese che venuto qua con buon fine non riesco a persuadervi, e che mi sforzerò di violentarvi col guasto delle vostre terre. E non crederò di procedere ingiustamente, ma d'avere la ragione dal canto mio per due pressantissimi motivi: primo, affinché i Lacedemoni con tutta la vostra cordialità non abbiano ad esser danneggiati dalle vostre ricchezze che colerebbero ad Atene quando ricusiate d'unirvi con loro; secondo, affinché i Greci non siano impediti da voi a trarsi di servaggio. Questa nostra condotta non sarebbe onesta. Non dobbiamo noi Lacedemoni dar libertà a chi non la voglia, salvo che per cagione d'un qualche pubblico bene. E nemmeno agognarne il dominio, ma ci studiamo di tenere in freno quei che lo agognano: e però faremmo ingiuria alla maggior parte dei Greci se mentre vogliamo apportare libertà a tutti, trascurassimo che voi vi opponeste. Laddove deliberate bene, e gareggiate di esser fra i Greci il primo esempio a libertà, e di acquistarvi gloria sempiterna, e di non leder punto i vostri interessi, e di procacciare alla città vostra il più bello dei nomi» .
88. Così parlò Brasida: e gli Acanti dopo molti discorsi pro e contro, indotti parte dalle persuasioni di esso, parte dal timore pei frutti della campagna, con maggioranza di voti segreti risolvettero di staccarsi dagli Ateniesi, e vollero ch'egli si obbligasse coi giuramenti medesimi giurati già dai magistrati di Sparta quando lo spedirono, cioè: che sarebbero confederati, ma indipendenti, tutti quelli che egli tirasse alla sua lega; e allora finalmente ricevono l'esercito. Non molto dopo si unì a questa ribellione anche Stagiro colonia degli Andri. Tali cose successero in questa estate.
89. Al primo cominciare del seguente inverno la Beozia era sul punto di rendersi ai generali ateniesi Ippocrate e Demostene, i quali dovevano incontrarsi insieme, andando questi colle navi a Sifa, e l'altro a Delio. Ma essendo occorso sbaglio nel computo dei giorni in che ciascuno doveva movere la sua gente, Demostene fu il primo a navigare a Sifa; e con tutto ché avesse seco sulle navi gli Acarnani e molti alleati di quei luoghi, pure la cosa andò a voto, perché Nicomaco focese di Fanoteo aveva scoperto la trama ai Lacedemoni, e questi ai Beozi. Onde i Beozii accorsi colà a stormo, giacché Ippocrate ancora non li inquietava sulle loro terre, preoccupano Sifa e Cheronea; ed i cospiratori, accortisi dello sbaglio, non fecero movimento veruno in quelle città.
90. Intanto Ippocrate, che aveva sollecitato gli Ateniesi tutti, cittadini, inquilini e quanto vi era di forestieri, arriva a Delio, ma troppo tardi, quando già i Beozi si erano ritirati da Sifa. Ivi postosi ad oste prese a fortificare Delio, luogo sacro ad Apollo, nel seguente modo. Scavavano intorno al sagrato ed al tempio una fossa circolare, e dallo scasso gettavano su il cavaticcio per formare un argine, e rasente ad esso ficcarono sui due lati dei pali tolti da una vigna attorno al sacro recinto, la quale tagliarono, e gettavano nel mezzo i tritumi di essa insieme con sassi e mattoni, levandoli dai pavimenti delle vicine case cui demolivano; e in ogni maniera si ingegnavano di alzare quel riparo. Collocavano ancora, ove fosse opportuno, delle torri di legno, di modo che nel sacro recinto non restava punto di fabbricato, poiché anche dove sorgeva il portico era già andato in rovina ogni cosa. Avevano cominciato questo lavoro il terzo giorno da che si erano partiti da casa, e vi si occuparono questo giorno medesimo e il quarto e il quinto fino all'ora del pranzo. Dopo essendo quasi tutto fornito il lavoro, primieramente l'esercito si scostò da Delio circa dieci stadi, con animo di tornarsene a casa. La milizia leggera, che formava il maggior numero, seguitò immediatamente il suo cammino; ma quella di grave armatura fermato il campo, si teneva quieta. Ippocrate continuò a trattenersi a Delio per mettervi guardie e dar l'ultima mano, secondo il bisogno, a quanto mancava ai ripari di quella terra.
91. I Beozii che in questi giorni si riunivano a Tanagra, essendo ivi concorsi da tutte le città alla nuova che gli Ateniesi si avviavano a casa, gli altri Beotarchi, i quali sono undici, li sconfortavano dal combattere, poiché i nemici non erano più nella Beozia: infatti gli Ateniesi quando piantarono il campo erano precisamente sui confini della Oropia. Ma Pagonda di Eolade beotarco di Tebe, a cui toccava il comando dell'esercito insieme con Ariantide di Lisimaco, desiderando venire a battaglia, e credendo miglior partito l'arrischiarvisi, chiamatine a sé tanti per compagnia acciocché non tutti abbandonassero il campo, con queste parole persuadeva i Beozii ad andar contro gli Ateniesi e far giornata.
92. « Valorosi Beozi, egli faceva di mestieri che a nessuno di noi magistrati non venisse pure in pensiero, che non si voleva venire a battaglia con gli Ateniesi, eccetto che se li trovassimo tuttora nella Beozia. Perciocché con quel riparo da essi piantato ai confini della Beozia vogliono avere un luogo onde muoversi a rovinarla: ond'é che ci sono certamente nemici ove che si trovino e dovunque partano per commettere ostilità. Che se ancora vi è cui sembri più sicuro il non combatterli, costui muti pensiero: atteso ché la prudenza in chi è assalito da altri con pericolo di perdere il proprio non ammette una ponderazione così esatta, come in chi ritenendo le proprie cose, ma bramandone delle maggiori, invade altrui per mero capriccio. Inoltre è vostra patria costumanza far fronte agli assalti di straniero esercito nelle vostre terre del pari che nelle altrui: ciò che dovete fare con assai maggiore sollecitudine contro gli Ateniesi che vi confinano. Conciossiaché se, trattandosi di confinanti, la libertà consiste nella parità delle forze; come non dovrassi venire fino all'ultimo del cimento contro costoro che non solo i vicini ma anche i lontani si brigano di fare schiavi? Ci sia d'esempio lo stato a che son da loro ridotti gli Eubeesi dell'opposto lido, e la maggior parte degli altri Greci. Dobbiamo altresì persuaderci che laddove gli altri battagliano coi loro vicini per i termini del territorio, noi all'opposto, se restiamo vinti, non potremo piantare in tutto il nostro dominio un sol termine incontrastabile: perocché entrati costoro nelle nostre terre vorranno a forza insignorirsi di tutto; cotanto la vicinanza di costoro più che degli altri, è per noi pericolosa. Considerate poi che quelli i quali (siccome ora gli Ateniesi) baldanzosi di loro forze assaltano altrui, sogliono portar con più audacia le armi contro chi stia a sé, e solo si difenda nel proprio paese; ma insistono con meno ardore contro chi si faccia innanzi ad incontrarli fuori dei confini, e ad attaccarli se l'occasione si presenti. Ne abbiamo contro di loro l'esperienza; allorché per sedizione insorta avendo essi occupato il nostro suolo, noi li vincemmo a Cheronea e ristabilimmo in Beozia quella sicurezza che dura anche adesso. Le quali cose rammemorando noi più vecchi sforziamoci di imitare i fatti d'allora, e voi giovinetti figli di padri già valorosi procurate di non profanare quelle virtù che per retaggio vi appartengono. Pertanto affidati al Nume che sarà per noi, il cui santuario ritengono sacrilegamente afforzato, ed alle vittime che nei nostri sacrifici ci si mostrano propizie, corriamo tutti ad affrontarli, e mostriamo loro che assalendo gente che non sappiano respingerli, potranno appagare le proprie voglie, ma trattandosi di un popolo che per innata generosità vuole combattendo mantenere sempre libera la sua patria, e non assoggettare ingiustamente l'altrui, essi non torneranno indietro senza venire al paragone dell'armi» .
93. Con questa esortazione Pagonda persuase i Beozi ad andar contro gli Ateniesi; e poiché era già sul tardi del giorno, mosso subito il campo si mise alla testa dell'esercito. Quando fu vicino all'accampamento degli Ateniesi fece alto ove una collina frapposta impediva ai due eserciti di vedersi scambievolmente; schierò le sue genti e si disponeva alla battaglia. Ippocrate che era a Delio, avuto contezza che i Beozi gli venivano addosso, spedisce al suo esercito imponendo di mettersi in ordinanza: e poco dopo partì anch'egli, lasciati circa quattrocento cavalli nei contorni di Delio per guardarlo, se mai qualche corpo nemico volesse assalirlo, e per cogliere insieme l'opportunità di sorprendere i Beozi nell'atto della battaglia. E i Beozi destinarono alcune squadre per far fronte a costoro, e quando ebbero tutto in ordine si fecero vedere di sulla collina, e si misero sulle armi in quella ordinanza colla quale dovevano combattere. Erano in tutti forse settemila di milizia grave, e di leggera sopra diecimila, con mille cavalli e cinquecento palvesari. I Tebani con quelli del loro comune tenevano l'ala destra, il centro gli Aliarti, i Coronei, i Copeesi, e gli altri abitanti sul lago di Copa; la sinistra i Tespiesi, i Tanagresi e gli Orcomeni. L'una e l'altra ala era coperta dalla cavalleria e dalle genti leggere. I Tebani erano schierati con venticinque di fronte, e gli altri senza veruno ordine stabilito. Tale era l'apparecchio e l'ordinanza dei Beozi.
94. Dalla parte degli Ateniesi i soldati gravi, che erano pari di numero ai nemici, si schieravano con otto di fronte, e sulle due ali era la cavalleria. Non si trovavano presenti nell'esercito milizie leggere, e nemmeno ve n'erano in Atene; e quelle che con Ippocrate erano entrate nella Beozia, sebbene in molto maggior numero dei nemici, lo avevano però seguito senz'armi, perche erasi fatta in Atene una leva generale sì di forestieri che di cittadini, e perché dopo ché da prima elle si furono mosse per tornarsene a casa, non erano più comparse salvo che poche. Ma quando i due erano ordinati a battaglia e vicini ad azzuffarsi, Ippocrate generale scorrendo le file dell'esercito degli Ateniesi gli incoraggiava con queste parole.
95. « ateniesi, breve è la mia esortazione, ma importa lo stesso per uomini valorosi. Non è dessa eccitamento ma ricordanza di prodezza: A nessuno di voi cada in mente che sulle terre altrui noi senza pro ci gettiamo in tanto pericolo, perché la battaglia nel suolo di questi sarà per salvezza del nostro. E se vinceremo, i Peloponnesi privati della cavalleria beozia non assalteranno più il vostro territorio: talché con una sola battaglia voi conquistate queste terre, e maggiormente affrancate le vostre. Marciate dunque contro di essi in modo da fare onore a quella città che ciascuno di voi si gloria di avere per patria, e che è la prima fra i Greci; non meno che ai padri vostri che guidati da Mironida vinsero costoro ad Enofite, ed allora conquistarono la Beozia» .
96. Mentre Ippocrate animava così le sue genti, era pervenuto a mezzo dell'esercito senza poter percorrere alla maggior parte; perché i Beozi incitati anch'essi brevemente da Peonida ed intonato il Peana, si avanzavano dalla collina. Onde gli Ateniesi si mossero loro incontro, e correndo si azzuffarono. Le ultime file di ambedue gli eserciti non poterono venire alle mani perché impedite egualmente dai torrenti; ma le altre si affrontarono con aspra battaglia e con incioccamento di scudi. L'ala sinistra dei Beozi fino al mezzo era vinta dagli Ateniesi, i quali incalzarono in questa parte anche gli altri, e singolarmente i Tespiesi. Perciocché avendo ceduto quei che erano schierati dirimpetto agli Ateniesi, i Tespiesi si trovarono circondati in angusto spazio: onde quelli che vi morirono furono tagliati a pezzi nel difendersi petto a petto. Alcuni poi degli Ateniesi che nel circondarli eransi disordinati, non riconoscendosi più tra loro, si ammazzarono scambievolmente. Pertanto i Beozi perdevano su questo lato e si ritiravano presso quelli che reggevano alla battaglia. All'opposto l'ala destra, ove erano i Tebani, superava gli Ateniesi: e dopo averli in breve respinti cominciava ad inseguirli. E accadde che Pagonda sentendo che pativa l'ala sinistra dei suoi, aveva spedito in giro alla collina per occulta via due squadroni di cavalleria; all'improvviso comparir dei quali, quell'ala degli Ateniesi, che era vincitrice, credendo che un nuovo esordio sopravvenisse, entrò in gran paura. Cosicché l'esercito ateniese parte costernato per questo stratagemma, parte inseguito e sbaragliato dai Tebani, si diede tutto a fuggire. Correvano alcuni verso Delio e verso il mare; altri ad Oropo, altri al monte Parnete; ed altri ovunque ciascuno avesse qualche speranza di salvezza. I Beozi, e specialmente i loro cavalli, insieme coi Locresi accorsi in rinforzo appena seguita la rotta li incalzavano e li uccidevano. Ma la notte sopravvenuta a questo conflitto facilitò lo scampo ai fuggitivi; e il giorno appresso quei che s'erano ricoverati ad Oropo e a Delio (il quale nondimeno tuttora ritenevano), lasciatovi un presidio ritornarono colle navi a casa.
97. I Beozi ersero il trofeo, ripresero i cadaveri dei loro, spogliarono quelli dei nemici, e lasciate ivi delle genti tornarono a Tanara coll'intenzione di assaltar Delio. In questo mezzo l'araldo degli Ateniesi spedito per riavere i cadaveri incontra quello dei Beozi, che lo fa tornare indietro col dirgli: che prima del suo ritorno non otterrebbe nulla. Quindi venuto alla presenza degli Ateniesi, disse da parte dei Beozi: aver essi operato nefandamente, violando gli istituti dei Greci, perciocché era presso tutti stabilito che entrando sulle terre gli uni degli altri, si risparmiassero i luoghi sacri del paese. Nondimeno (soggiungeva) avere gli Ateniesi munito Delio ed abitarlo; commettersi ivi tutto quello che nei luoghi profani si suole commettere; ed avere attinta l'acqua vietata a toccare, salvo che nelle abluzioni pei sacrifici. Che però i Beozii in riguardo del nume e insieme di sé stessi, invocale le divinità partecipi del culto, e Apollo principalmente, intimavano ad essi di andarsene dal sacro luogo portando seco le robe loro.
98. Dopo che l'araldo ebbe parlato così, gli Ateniesi spedirono al Beozi il loro, rispondendo: che essi non avevano in nulla violato il sacro luogo, e nemmeno volontariamente lo violerebbero in avvenire, che neanche da principio vi erano entrati con questa intenzione, ma solo per aver un ridotto onde meglio difendersi dalle loro ingiustizie; che gl'istituti dei Greci portavano, che chiunque fosse padrone di un territorio più o meno esteso, di lui fossero sempre ancora i luoghi sacri, per doverli onorare colle cerimonie ch'egli potesse, oltre le consuete; che i Beozi stessi, e gli altri non pochi che posseggono un paese dal quale, abbiano colla forza cacciati gli abitanti, per quanto da prima invadessero luoghi sacri appartenenti ad altrui, li ritengono ora in proprio, che se essi medesimi potessero acquistare qualche altra terra di più nella Beozia, la riterrebbero; e che ora, per quanto in loro stesse, non partirebbero da quella ove si trovavano, perché la credevano sua, Quanto all'acqua poi rispondevano; che l'avevano toccata per necessità, la quale necessità non si erano procurata colla propria insolenza: ma erano stati costretti ad usarne, nel caso di dover respingere i Beozi che i primi avevano invaso il loro territorio; che in ogni modo volevasi credere che ciò a cui costringe la guerra o altro grave pericolo, sarebbe pur perdonato anche dal nume, che però gli altari sono il rifugio dei falli involontari, e trasgressione si chiama quella commessa da chicchessia senza alcuna necessità, non quella a che i disastri ti spingano. Ond'è che essi, pretendendo rendere i morti per riscatto dei luoghi sacri, adoprano assai più empiamente degli Ateniesi i quali non vogliono riacquistare collo scambio di luoghi sacri ciò che loro si conviene. In ultimo ordinavano all'araldo di dir chiaramente che essi non uscirebbero da una terra dei Beozi che non più apparteneva ai Beozi, poiché era stata acquistata con l'armi, ma che intendevano di riavere i cadaveri mediante la tregua, secondo il patrio costume.
99. I Beozi, credendo che Oropia (sui confini della quale giacevano per avventura i cadaveri, essendo ivi accaduta la pugna) fosse per titolo di vassallaggio degli Ateniesi, i quali però non potrebbero riprendere i morti, s'essi non lo permettessero, risposero: che se gli Ateniesi erano in Beozia se ne andassero da un paese beozio portando seco le robe loro; se poi erano in paese loro proprio, dovevano essi ben sapere quello che era da fare: che a loro non toccava certo a dare salvacondotto in terra altrui; ma che ove si trattasse di uscire da una terra dei Beozi il decoro esigeva si rispondesse, che partissero, e riprendessero le cose che richiedevano. A questa risposta l'araldo degli Ateniesi partì senza nulla concludere.
100. Ma i Beozi, essendo venuti in loro aiuto dopo la battaglia duemila Corinti di grave armatura, e quei soldati peloponnesi che erano di presidio a Nisea ed anche i Megaresi, spedirono subito per dei lanciatori e frombolieri dal seno Meliaco, marciarono contro Delio, e diedero l'assalto alla fortificazione. Tra gli altri tentativi fatti, accostarono al muro una macchina che lo espugnò, fatta in questa foggia. Segarono una grande antenna in due parti, le quali vuotate quanto erano lunghe le ricommessero esattamente a guisa d'una tromba. All'estremità vi attaccarono con catene una caldaia, e dall'antenna scendeva voltato verso la caldaia lo sfiatatoio di ferro, e di ferro era pur foderata non poca parte del resto dell'antenna. Portata questa per non piccolo spazio in su dei carri l'accostarono al muro in quel punto che era fatto, più che d'altro, di sarmenti e di legni: e quando fu vicina vi applicarono grandi mantici alla estremità dalla parte loro, e gonfiavano. Il fiato scorrendo ben serrato nella caldaia fornita di carboni accesi, di zolfo e di pece, suscitò fiamma grande che appiccò fuoco al muro tanto che, non potendo più alcuno rimanervi, lo abbandonarono, e si misero in fuga; e fu in questa maniera espugnata quella munizione. Alcuni del presidio morirono, duecento furono presi, e l'altra moltitudine montata sulle navi si ricondusse a casa.
101. Dalla battaglia alla espugnazione di Delio erano corsi diciassette giorni, e poco dopo il messaggio degli Ateniesi ignaro del fatto ritornò pei cadaveri, cui i Beozi restituirono senza più fare la medesima risposta. Nel combattimento d'Oropia mancarono poco meno di cinquecento Beozi, Ateniesi forse mille col generale Ippocrate, e gran numero di genti leggere e di saccardi. Poco tempo dopo questa battaglia Demostene, che non era riuscito in questa sua navigazione a prendere Sifa per tradimento, avendo sulla sua flotta una truppa di quattrocento soldati gravi tra Acarnani, Agrei e Ateniesi, fece scala sulla costa di Sicione. Ma prima che approdasse tutta la flotta i Sicionesi, corsi all'incontro di quelli che erano già smontati, li misero in fuga e li perseguirono fino alle navi, uccidendone alcuni, altri prendendone vivi: ed erettovi trofeo restituirono i cadaveri con salvacondotto. Circa i medesimi giorni dei fatti di Delio, Sitalce re degli Odrisi morì in una battaglia perduta nella sua spedizione contro i Triballi, e Seute di Sparadoco suo nipote regnò sugli Odrisi e sull'altra porzione di Tracia stata soggetta al dominio di esso.
102. Nel medesimo inverno Brasida con i confederati di Tracia marciò contro Amfipoli colonia degli Ateniesi sul fiume Strimone. Quivi appunto nel sito ove ora risiede la città si era prima provato a fondare una colonia anche Aristagora di Mileto. quando era fuggiasco dal re Dario; ma ne fu bruttamente scacciato dagli Edoni. Medesimamente trentadue anni dopo vi si provarono gli Ateniesi, avendovi spediti per prendervi stanza diecimila tra di loro e di altri volontari, i quali furono trucidati a Drabesco dai Traci. E nuovamente, passati ventinove anni, vi andarono gli Ateniesi con Agnone figliolo di Nicia speditovi a fondar la colonia, e cacciatine gli Edoni fabbricarono il castello che prima si chiamava le Nove Strade. Erano essi partiti da Eione, terra marittima e di commercio che avevano all'imboccatura del fiume, distante venticinque stadi dalla città presente, alla quale Agnone diede il nome di Amfipoli, o vogliamo dire città a due facce, perché la cinse con mura lunghe da un ramo all'altro del fiume, il quale, coi due rami, onde è diviso, abbracciandola, la bagna intorno da ambe le parti: e così la fabbricò in modo che avesse il prospetto della marina e della terraferma.
103. Brasida dunque movendo da Arne della Calcidica marciava col suo esercito contro Amfipoli. Arrivata sulla sera ad Aulona e a Bromesco, ove sbocca nel mare la palude Bolbe, cenò e la notte proseguì la sua gita. Faceva temporale con del nevischio, e però sollecitò la partenza volendo tenersi celato a quei d'Amfipoli, salvo che ai compiici del tradimento; perocché abitavano in quella città alcuni di Argilo, colonia degli Andrii, ed altri che favoreggiavano questo trattato, parte mossi da Perdicca, parte dai Calcidesi. Ma in questa trama adopravansi soprattutto quelli d'Argilo, sì perché vicinavano con Amfipoli, sì ancora perché dagli Ateniesi erano avuti in sospetto di male intenzionati contro questa città: laonde quando si offerse l'occasione all'arrivo di Brasida, che già molto prima teneva delle pratiche con quei di loro che avevano preso casa in Amfìpoli, trattavano del modo onde si dovesse rendere quella città. E non solo lo ricevettero in Argilo; ma ribellatisi agli Ateniesi, in quella medesima notte prima dell'alba collocarono l'esercito presso al ponte del fiume da cui Amfipoli è distante un poco più della larghezza del fiume stesso. Non vi erano ancora state tirate le mura come adesso, ma vi stava piccolo presidio, cui Brasida respinse agevolmente mediante il tradimento, il temporale e l'improvviso assalto. Traversato così il ponte s'impadroni delle cose fuori di città appartenenti agli Amfipolitani che abitavano tutto quel luogo.
104. Il suo tragitto inaspettato per quei di città, 1'arresto di molti di quei di fuori, e 1'essersi altri rifugiati dentro le mura, mise in grave scompiglio gli Amfipolitani, tanto più che non si fidavano l'uno dell'altro. E si dice che se Brasida non avesse voluto voltarsi colle sue genti al saccheggio, ma si fosse tosto diretto contro la città, l'avrebbe probabilmente espugnata. Il fatto sta che fermato il campo scorrazzava la campagna; e vedendo che dalla parte di quei di città nulla succedeva di quanto si aspettava, se ne stette quieto. Intanto quei che erano avversi ai cospiratori prevalendo di numero operarono sì che le porte non vennero subito aperte, e spedirono alcuni insieme col generale Eucleo, che inviato dagli Ateniesi comandava il presidio della città, domandando pronto soccorso all'altro generale di Tracia, Tucidide di Oloro, scrittore di queste storie, il quale era nell'isola di Taso colonia dei Parii, distante da Amfipoli circa mezza giornata di mare. A questo avviso partì egli subito colle sette navi che erano colà, volendo soprattutto arrivare ad Amfipoli prima che ella cedesse in nulla, o almeno assicurarsi per tempo di Eiona.

IV
105. Tra questo, Brasida temendo del soccorso delle navi di Taso, e informato che Tucidide aveva lì d'appresso in Tracia il lavorio delle miniere d'oro, per cui era uno dei più potenti di terraferma, si affrettava di occupare la città, se fosse possibile prima della sua venuta, perché il popolo amfipolitano all'arrivo di lui non ricusasse di rendersi, per la speranza ch'egli lo potesse salvare colle forze raccolte dalla Tracia e dal mare. Però proponeva discreto accomodamento per via d'un bando, ove dicevasi: che tanto i cittadini di Amfipoli, quanto gli Ateniesi che ivi si trovavano, potessero restare, se loro piacesse, al possedimento delle proprie cose, godendo con piena egualità dei diritti di cittadinanza: chiunque poi non stesse contento a ciò, dovesse partire dentro cinque giorni portando seco quel che aveva.
106. La plebe udito ciò mutò di pensiero, tanto più che in città vi erano pochi Ateniesi, e il più degli abitanti era un miscuglio di vari popoli, e molti erano parenti di quelli arrestati al di fuori. Insomma tutti, atteso il timore, tenevano per discreto quel bando: gli Ateniesi perché giudicavano loro pericoloso l'uscire, e perché non si aspettavano un pronto soccorso, il resto della moltitudine poi perché godrebbero come prima dei loro diritti, e contro ogni credenza si trarrebbero del pericolo. Cosicché i fautori di Brasida vedendo che la plebe mutata non udiva più il generale ateniese ivi presente, giustificavano oramai apertamente le proposizioni di Brasida, e si venne alla capitolazione per cui ricevettero gli Spartani colle condizioni del bando. Per tal modo resero la città. Tucidide sulla sera di questo stesso giorno approdò colle sue navi a Eiona. Avendo Brasida di poco occupata Amfipoli, stette solo per una notte che egli non prendesse anche Eiona: perocché se quelle navi non erano sollecitamente venute a soccorrerla, l'avrebbe occupata sul far dell'alba.
107. Dopo ciò Tucidide disponeva in Eiona le cose in modo da metterla in sicuro sì per allora, se mai Brasida venisse ad attaccarla, sì anche per l'avvenire, raccettando quelli che secondo il pattuito avevano preso il partito di ritirarsi da Amfipoli. E Brasida senza perder tempo calò per la corrente del fiume con molte barche verso Eiona per vedere di prendere quella lingua di terra che dalle mura si stende verso il mare, e così impadronirsi della bocca del fiume. Fece ancora sue prove dalla parte di terra, ma fu per tutto respinto. Aveva già acconciato le cose di Amfipoli, quando gli si rese Mircino città dell'Edonia, ove Pittaco re degli Edoni era stato ucciso dai figlioli di Goaxi e da Braune sua moglie; e poco dopo ebbe anche Gasselo ed Esime, due colonie dei Tasii. E subito dopo la presa d'Amfipoli era arrivato Perdicca il quale lo aiutava a bene stabilire queste cose.
108. Presa Amfipoli, vennero gli Ateniesi in gran timore, tanto più che quella città era ad essi utile non solo perché ne ricavavano legname da navi e provento di danaro, ma ancora perché ella offriva ai Lacedemoni condotti dai Tessali un passaggio fino allo Strimone contro i loro alleati. Che se gli Spartani non si fossero insignoriti del ponte, non avrebbero potuto progredire più oltre; avvenga ché dalla parte di terra sarebbero stati impediti per la vasta palude formata dal fiume; e dalla parte di Eiona le flotte ateniesi li avrebbero osservati. Ma occupato il ponte, il passaggio compariva ormai troppo facile. Temevano inoltre che gli alleati non si ribellassero; perocché Brasida in tutte le occasioni si mostrava discreto, e dappertutto dichiarava coi suoi discorsi di essere spedito a liberare la Grecia. Onde le città soggette agli Ateniesi udendo la presa di Amfipoli, e le profferte di Brasida, e la sua dolcezza, si invogliavano grandemente di novità; e di nascosto spedivano a lui messaggi, confortandolo a mostrarsi presso loro, volendo ciascuno essere il primo a ribellarsi. Pareva loro di potere fare ciò senza alcun pericolo, opinando falsamente non esser tanta la potenza ateniese, quanta mostrossi in processo di tempo, perché ne giudicavano più con mal fondato desiderio, che con sicura previdenza, secondo l'usato degli uomini, i quali sperano inconsideratamente ciò che bramano, e ciò che non gradiscono arbitrariamente rigettano. Animavansi inoltre alla ribellione per la recente sconfitta degli Ateniesi in Beozia, e pei seducenti non già veridici discorsi di Brasida, del non aver essi voluto a Nisea combattere con lui contro quel solo suo esercito; onde confidavano che nessuno si moverebbe contro di loro. Ma principalmente erano pronti ad esporsi a qualunque pericolo per quel momentaneo piacere che danno di sé le novità, e per esser quella la prima volta in che sperimenterebbero i Lacedemoni imperversiti contro Atene. Questi mali umori non erano ignoti agli Ateniesi ed a Brasida, e però quelli spedirono presidii nelle diverse città, secondo ché il permettevano il breve tempo e la vernata: e Brasida, intanto che si apparecchiava a fabbricar triremi sullo Strimone, mandò a Sparta sollecitando un nuovo esercito. Ma i Lacedemoni non lo compiacquero, parte per astio dei primari cittadini, parte perché amavano meglio di riavere la loro gente dell'isola Sfatteria, e così terminare la guerra.
109. Nello stesso inverno i Megaresi ripresero le mura lunghe tolte già loro dagli Ateniesi e le spianarono. E Brasida coi confederati dopo la presa di Amfipoli porta la guerra nella provincia chiamata Acte, che dal canale scavato dal re sporge verso noi, e verso Ato montagna alta che finisce al mare Egeo. Questa provincia comprende la città di Sane colonia degli Andri situata proprio sul canale e voltata verso il mare dell'Eubea, ed altre, cioè Tisso, Cleona, Acrotoo, Olofisso e Dio, abitato da un miscuglio di genti barbare che parlano due lingue. Vi è inoltre piccola porzione di Calcidesi, ma i più sono Bisaltici, Crestonrci ed Edoni, e più che altro Pelasgi della razza di quei Tirreni che una volta abitavano Lenno ed Atene. Abitano costoro divisi in piccole castella; e la maggior parte si resero a Brasida. Sane e Dio gli fecero resistenza; e però si trattenne coll'esercito sulle loro terre e le devastava.
110. Non volendo costoro ascoltare le preposizioni di Brasida, egli marcia sopra Torona di Calcide occupata dagli Ateniesi, sollecitato da pochi disposti a render la città. E pervenuto colà mentre era ancora notte e verso l'alba fermava il campo presso il tempio dei Dioscuri, distante dalla città circa tre stadi, senza essere stato veduto né dal resto dei Toronesi, né dalla guarnigione ateniese. Ma quelli che facevano per lui, sapendo ch'egli doveva venire, escono furtivamente in piccolo numero per spiarne l'arrivo. Appena le videro presentarsi introducono in città sette soldati leggeri armati di pugnaletto; i quali soli, di venti che prima erano destinati, non dubitarono di entrarvi condotti da Lisimaco olintese. Entrati questi celatamente dalla parte delle mura verso il mare, salirono in cima alla rocca della città che è sulla schiena di un colle, ne uccisero le guardie, e ruppero la porticciola voltata verso il promontorio Canastreo.
111. Brasida avanzò un poco, e spediti innanzi cento palvesari acciocché si gettassero i primi nella città, quando venisse aperta qualche porta e fosse alzato il segnale convenuto, teneva fermo il restante dell'esercito. Ma quelli meravigliando dell'indugio che si frapponeva, si trovarono a poco a poco presso della città. Intanto quei Toronesi di dentro che insieme con gli altri introdottovi preparavano la cosa, poiché ebbero rotta la porticciola e tolta la sbarra alla porta verso il foro, primieramente fatto fare un giro ad alcuni di quei palvesari, li introducevano per la porticciola, perché spaventassero all'improvviso quelli di città ignari del fatto, assalendoli alle spalle ed ai lati. Quindi alzarono, come era convenuto, il seguale di fuoco, ed ormai dalla porta del foro ricevevano il rimanente dei palvesari.
112. Visto il segnale, Brasida ordinò la mossa, ed accorreva frettolosamente coll'esercito, che alzando insieme le grida mise in gran costernazione quelli di città. Alcuni vi si precipitavano addirittura per la porta, altri per certe travi quadrangolari le quali servivano a tirar su le pietre, e stavano casualmente appoggiate al muro rovinato che si andava riedificando. Brasida poi col grosso dell'esercito si rivolse alle parti più elevate della città, per occupare le alture, ed assicurare così la conquista. Il rimanente dell'esercito si sparse indistintamente per tutta la città.
113. Nella presa della quale grande era lo scompiglio del maggior numero dei Toronesi ignari del fatto; laddove i cospiratori e quelli che ciò gradivano, furono subito col vincitore. Quanto poi agli Ateniesi (circa cinquanta dei quali armati alla grave dormivano, per avventura nel foro), poiché intesero il fatto, alcuni pochi che capitarono nelle mani dei Brasidiani furono uccisi; gli altri, parte per la via di terra, parte ricoveratisi sulle due navi che vi stavano a guardia, scamparono nel forte di Lecito, che essi medesimi tenevano fino da quando occuparono l'estremità della città verso il mare, rinserrata nel piccolo istmo. Colà si rifugiarono anche tutti quei Toronesi che parteggiavano per Atene.
114. Fattosi giorno e bene assicurata la presa della, città, Brasida mediante una grida fece intendere ai Toronesi rifugiati presso gli Ateniesi che ciascuno poteva tornare a possedere le cose proprie, e vivere sicuramente da cittadino. All'opposto spedì agli Ateniesi un araldo intimando loro che portando seco ciò che avevano, sotto la sua parola, votassero Lecito, come appartenente ai Calcidesi. Rispondevano essi che questo non farebbero; e lo pregavano di far tregua un giorno per ripigliare i cadaveri. Brasida fece tregua per due; nel corso dei quali rafforzava le fabbriche vicine, e gli Ateniesi pure le loro. Tenne inoltre un'adunanza dei Toronesi, e a un dipresso disse lo stesso che aveva detto in Acanto: Non esser giusto che coloro i quali si erano adoprati per lui nella presa della città fossero tenuti cittadini meno che buoni, o traditori; avvenga ché non avessero fatto ciò per metterla in servitù, né per ingordigia di denaro, ma per bene e libertà della patria: che coloro i quali in questo trattato non avevano avuto parte, non dovevano credere di non avere a godere dei medesimi diritti di prima, perché egli non era venuto per rovinare né città, né privati: avere anzi diretta la sua grida ai rifuggiti presso gli Ateniesi, perché non gli credeva punto peggiori degli altri per l'amicizia avuta con essi: che quando avessero sperimentato i Lacedemoni si avvedrebbero che non sarebbero per riuscir loro meno benevoli degli Ateniesi, ma anzi più di essi, in quanto che più giustamente operavano; e che ora li temevano solo perché non gli avevano in pratica. Esortava poi tutti a disporsi a volere essere alleati costanti, persuasi che avrebbero solo la colpa di quello che d'ora in poi commetterebbero: e che per l'addietro non i Lacedemoni da loro, bensì i Toronesi erano stati offesi da un popolo più forte, e che però meritavano perdono se in nulla si fossero opposti.
115. Con tali parole Brasida rinfrancava i cittadini; e spirata la tregua prese a battere Lecito, ove gli Ateniesi, sebbene si difendessero da debole munizione e da case fomite di merli, pure nel primo giorno respinsero il nemico. Ma siccome il dì seguente volevano i Brasidiani avvicinare contro loro una macchina, colla quale intendevano di gettare il fuoco su' ripari di legname, così gli Ateniesi (quando l'esercito già si avanzava verso la parte dove il luogo era meno difendevole, e dove appunto si aspettava­no che verrebbe condotta la macchina) piantarono di faccia una torre di legno sopra una casa, portarono assai brocche e barili di acqua e sassi grossissimi, e vi salì su molta gente. Onde la fabbrica gravata di troppo peso a un tratto sfasciossi con grande strepito, e quella vista recò più do­lore che paura al vicini Ateniesi. Quelli però che ne erano distanti, e specialmente i più lontani, immaginatisi che su quel ponto fosse stata già espugnata la terra, si diedero a precipitosa fuga verso il mare e verso le navi.
116. Brasida, che si era trovato presente all'accadu­to, visti abbandonati i merli si avanza coll'esercito, prende incontinente il forte ed uccide tutti quelli che ci trovò; e gli altri, che avevano in questo modo abbandonato il po­sto, si condussero su barche e navi a Pallene. Qui è da sapere che in Lecito vi è un tempio di Minerva, e che Brasida quando era per dar l'assalto aveva fatto bandire che al primo salito sulle mura darebbe trenta mine di ar­gento. Ora però stimando essere stata presa quella terra in tutt'altro modo che umano, offerse alla Dea le trenta mine pel tempio, demolì Lecito e lo riacconciò in nuova foggia, e tutto il suolo consacrò a Minerva. Nel restante dell'inverno egli si occupava a dar buon sesto alle terre prese, senza abbandonare il pensiero sopra quelle che re­cavano. E col compiersi dell'inverno finiva l'ottavo anno di questa guerra.
117. Cominciando la primavera della estate seguente fu fatto tregua per un anno dai Lacedemoni agli Ateniesi. Credevano gli Ateniesi che Brasida in questo modo non potrebbe ribellar loro alcun'altra terra, prima che e' si fossero a bell'agio apparecchiati; e che se le cose passass­ero bene, essi otterrebbero un più lungo accomodamento. I Lacedemoni poi si davano a credere che gli Ateniesi do­vessero temere quei mali che di fatto temevano, e che però, dandosi luogo a cessamento di calamità e di fatiche, per questa esperienza e' sarebbero più bramosi di accomodamento e restituirebbero la gente di Sfatteria perché la tregua si concludesse per più lungo tempo. Il riscatto di quelle genti stava in cima de' loro pensieri, riflettendo essi alle continovate vittorie di Brasida; conciossiachè se egli facesse nuovi acquisti sino a mettere alla pari tra sé le due potente belligeranti, nondimeno (quantunque allora fossero in stato di combattere gli Ateniesi a forze eguali, e forse di vincerli) potrebbe darti il,caso di per­dere quelle genti. Pertanto fanno tregua insieme, com­prendendovi anche gli alleati, in questi termini.
118. « È tra noi risoluto potere, chiunque il voglia, usare del tempio è dell'oracolo d'Apollo Pitio senza frode o paura, secondo le patrie costumanze. Così piace ai La­cedemoni e agli alleati presenti; e promettono di mandare araldo per indurvi, quanto sta in loro, anche i Beozii e i Focesi. Quanto al tesoro del Nume, voi Ateniesi e noi Lacedemoni, e chiunqu'altro il voglia, dovremo procurare di cercarne gli espilatori seguendo tutti la rettitudine, la giustizia ed i pàtrii statuti. Di questo convengono i Lace­demoni e gli altri alleati, purché gli Ateniesi promettano nella tregua che entrambi dovremo restare al possesso dei luoghi che di presente tenghiamo; cioè che i Lacedemoni rimangano a Corifasio dentro i monti Bufrade e Tomeo; e gli Ateniesi a Citera; senza che noi ci mescoliamo nelle loro alleanze, né essi nelle nostre. Gli Ateniesi poi a Nisea e Minoa non oltrepasseranno la strada che dalla parte delle Termopile presso il tempietto di Niso va al tempio di Nettuno, e dal tempio di Nettuno va direttamente al ponte che accenna a Minoa. Ancora, i Megaresi ed i loro confederati non passeranno questa medesima strada, riterranno pure l'isola occupata già dagli Ateniesi (senza che nissuno entri su quel degli altri), e riterranno quel che ora posseggono in Trezene, oltre a tutto quello di che convennero con gli Ateniesi; e potranno usare il mare che bagna le loro terre, e quelle de' confederati. Ancora, non potranno i Lacedemoni e loro alleati navigare con navi lunghe, ma solo con altra sorta di barche che si spingano co9 remi, e che portino carico fino a cinquecento talenti. Ancora , il salvacondotto varrà per gli araldi, ambascerie e loro seguito quanto si creda conveniente nell'andare e nel tornare tanto per terra che per mare al Peloponneso e ad Atene, con commissioni relative allo scioglimento della guerra od altre controversie; ma in questo tempo non si riceveranno né da voi né da noi disertori, né liberi né ser­vi. Ancora, che nelle nostre controversie voi dobbiate esporre a noi le vostre ragioni, e noi all'opposto le espor­remo a voi conforme alle leggi della patria, decidendo così per la via giuridica non per quella delle armi. Queste sono le convenzioni dei Lacedemoni e dei loro confederati. Se credete di avere proposizioni più decorose e più giuste di queste, portatevi a Sparta ed esponetele; perocché né i Lacedemoni né i confederati si ritireranno da tutto quello che direte di giusto. Quelli che si porteranno colà vi vadano con pieno mandato, siccome voi pure ordinate a noi di fare. La tregua sarà per un anno. Così ha decretato il popolo» . In Atene allora la tribù Acamantide teneva il po­sto dei Pritani, Fenippo era il cancelliere, e Niciade il presidente. Lachete ne fece il rapporto in questi termini:
A buon augurio per gli Ateniesi vi sia tregua secondoché consentono i Lacedemoni e i loro alleati: e l'adunanza del popolo ratificò che la tregua fosse per un anno da comin­ciare quello stesso giorno quattordici del mese Elafebolione; che intrattanto gli ambasciatori e gli araldi andrebbero e verrebbero scambievolmente per trattare del modo di por fine alla guerra; che però i generali ed i pritani dovessero tenere adunanza, ove gli Ateniesi, prima d'ogni altra cosa relativa alla pace, dovessero deliberare del mo­do e condizioni colle quali verrebbero ammessi gli amba­sciatori che tratterebbero dello scioglimento della guerra; e che gli ambasciatori, i quali volta per volta intervenissero alle adunanze del popolo, appena giunti dovessero subito impegnare la loro fede di volere osservare costantemente la tregua per tutto l'anno.
119. Queste furono le convenzioni ratificate anche dagli alleati, che i Lacedemoni stabilirono con gli Ateniesi e loro confederati ai dodici del mese chiamato a Sparta Gerastio. Queste condizioni furono pattuite e confermate coi riti religiosi, per la parte dei Lacedemoni, da Tauro di Echetimida, da Ateneo di Pericleide, da Filocarida di Erissidaide: per quella dei Corintii, da Enea di Ocito, da Eufamide di Aristonimo: per quella dei Sidonesi, da Damotimo di Naucrate, da Onasimo di Megade: per quella de' Megaresi, da Nicaso di Cecalo, da Menecrate di Amfidoro: per quella degli Epidauri, da Amfia di Eupaide; per la parte poi degli Ateniesi, dai generali Nicostrato di Diotrefe, Nicia di Nicerato e Autocle di Tolmeo. Così dunque fu fatta la tregua, durante la quale continuamente sì l'una parte che l'altra mandavansi ambascerie per trattare di più decisivo accomodamento.
120. Nei giorni di queste scambievoli gite Scione, città in Pellene, si ribellò dagli Ateniesi per darsi a Brasida. Dicono gli Scionesi di essere Pellenii oriundi del Peloponneso; ma che i loro maggiori nel ritorno da Troia furono per tempesta sofferta dai Greci sbalzati in questo luogo, e vi presero abitazione. Brasida, per sostenere la ribellione, tragittò di notte a Scione preceduto da trireme alleata, tenendole egli dietro a qualche distanza in piccola barchetta, perché se s'incontrasse in una nave più grossa della barchetta, lo difenderebbe la trireme; e se altra trireme di egual forza lo sopraggiungesse, non si volterebbe al legno più piccolo, ma bensì contro la nave, ed egli intanto si salverebbe. Arrivato a Scione riunì a parlamento gli Scionesi e disse loro lo stesso che ad Acanto e a Torona: ed aggiunse, esser loro i più degni di lode, perocché, sebbene Pellene fosse tagliata fuori e riserrata nell'istmo dagli Ateniesi che tenevano Potidea, e sebbene per ciò essi potessero dirsi isolani, nondimeno erano spontaneamente corsi a libertà, e non avevano per codardia aspettato che la necessità li obbligasse a far quello che era di evidente vantaggio alla patria: ciò mostrare che avendo lo stato quella costituzione che si desidera, essi vorranno da prodi sostenere i più grandi cimenti; ed egli per la verità li stimerebbe i più fedeli amici dei Lacedemoni , e per ogni altro conto gli avrebbe in onore»
121. Li Scionesi imbaldanziti a queste parole, e tutti del pari incoraggiati, anche quelli che prima non gradivano queste pratiche, prendevano consiglio di sostenere generosamente la guerra; ed oltre alle altre onorevoli accoglienze fatte a Brasida, per decreto pubblico gli cinsero la frotte di corona d'oro come a liberatore della Grecia; ed i privati lo inghirlandarono di bende, corteg­giandolo come un'atleta. Egli per allora lasciata piccola guarnigione, ripassò a Torona; e poco dopo vi rimandò più gente, volendo insieme coi Scionesi fare dei tentativi contro Mende e Potidea. Era persuaso che gli Ateniesi pure tenendo quei luoghi per un'isola , vi andrebbero a soccorso; e però voleva prevenirli, tanto più che di sua intelligenza si ordiva in cedeste città qualche trama di tradimento: ed egli era nella determinazione di assalirle.
122. Ma in questo mezzo vengono a lui sopra una trireme i messi spediti in giro ad annunziar la tregua, cioè per gli Ateniesi Aristonimo, per i Lacedemoni Ateneo. Allora il suo esercito ripassò nuovamente a Torona; ed i legati ragguagliavano Brasida delle convenzioni, le quali tutti i confederati dei Lacedemoni in Tracia accettarono. Aristonimo andava d'accordo in tutte le altre cose: ma quanto agli Scionesi, rilevando dal calcolo dei giorni ch'e' si erano ribellati dopo la conclusione della tregua, diceva che non vi dovevano esser compresi. Brasida all'opposto con molta forza diceva che si erano ribellati innanzi, e non voleva abbandonar la città. Però quando Aristonimo riferì questi fatti ad Atene, immediatamente gli Ateniesi si mostrarono risoluti a portar le armi contro Scione. Se non che i Lacedemoni spedirono ambasciata per dir loro che romperebbero la tregua: e standosene, a Brasida pretendevano Scione esser sua, ed erano pronti a definire la cosa per via di giudizio. Gli Ateniesi però non vollero mettersi al rischio della lite, ma vi portarono incontinente la guerra indispettiti che anche gl'isolani si attentassero di ribellarsi per la fiducia delle forze terrestri dei Lacedemoni per loro inutili. Ciò non pertanto il fatto della ribellione era più vero di quel che pensavano gli Ateniesi stessi, poiché i Scionesi si erano ribellati due giorni dopo la tregua. Ma persuasi dal consiglio di Cleone decretarono subito di espu­gnare e trucidare gli Scionesi; e mentre tutto il resto era tranquillo, qua unicamente erano rivolte le loro mire.
123. Frattanto si ribella dagli Ateniesi Mende, città della Pellene, colonia degli Eretrii, cui Brasida ricevè credendo di non fare ingiustizia (benché fosse chiaro che si erano resi a tregua fatta), perché aveva egli pure di che accusare gli Ateniesi, che la trasgredivano. Laonde i Mendei vi si arrischiarono più francamente, vedendo l'animo risoluto di Brasida, e prendendo argomento da Scione che ei non abbandonava. Discorrevano inoltre che sebbene pochi fossero fra loro i complici, nondimeno e' non potrebbero tirarsi indietro nello stato in cui erano, mentre per la paura di essere scoperti avevano contro ogni aspettativa forzata la plebe ad unirsi con loro. Gli Ateniesi appena udito ciò, irritati maggiormente si preparavano contro le due città. E Brasida, che si aspettava la flotta nemica, fa passare ad Olinto di Calcide i fanciulli e le donne degli Scionesi e dei Mendei, e per fare spalla ai restanti vi mandò cinquecento Peloponnesi di grave armatura, e trecento palvesari calcidesi, tutti sotto il comando di Polidamida, i quali persuasi che presto comparirebbero gli Ateniesi, tutti insieme si apparecchiavano.
124. Intanto Brasida e Perdicca per la seconda volta uniscono in Linco le loro armi contro il re Arribeo. Questi conduceva le forze di Macedonia cui imperava, ed i soldati gravi dei Greci che vi si erano stanziati: quegli poi, oltre ai Peloponnesi che gli erano lì rimasti, conduceva i Calcidesi e gli Acantii, ed altri secondo la possibilità di ciascuno. Insomma tutto l'esercito era composto di tremila Greci di grave armatura, cui tenevan dietro forse mille cavalli tra dei Macedoni e dei Calcidesi, e inoltre gran moltitudine di barbari. Assaltarono gli stati di Arribeo, ma avendovi trovati i Lincesti già accampati per far fronte, presero anch'essi il campo in faccia a loro. Le genti da pié stavano ferme ai due lati sulle colline, nel mezzo era una pianura ove scesi i cavalli dei due eserciti attaccarono battaglia i primi. Dipoi avanzatasi la prima dal colle la fanteria grave dei Lincesti per sostenere la sua cavalleria, e mostrandosi disposta a battagliare, Brasida e Perdicca si fecero innanzi anch'essi. Qui vennero alle prese, fugarono i Lincesti, ne uccisero gran parte, e gli altri scamparono sulle alture, ove si tennero fermi. Dopo questo, eretto un trofeo vi si trattennero due o tre giorni per aspettare gl'Illirici che dovevano venire al soldo di Perdicca, il quale senza altro indugio voleva marciare contro le castella d'Arribeo. Ma Brasida, cui stava a cuore che Mende non patisse qualche cosa se prima di lui vi arrivassero gli Ateniesi, non inclinava a questo ma piuttosto a ritirarsi, tanto più che gl'Illirici non si vedevano comparire.
125. Stando essi così discordi, giunse la nuova aver gl'Illirici tradito Perdicca per darsi ad Arribeo. Per lo che ambedue impauriti di quella gente armigera, si erano determinati di retrocedere: ma perché non erano mai d'accordo insieme, non avevano nulla fermato del quando fosse da partire. In questa sopravvenne la notte: e come è solito ai numerosi eserciti sbigottirsi senza sapere il perché, così i Macedoni e la moltitudine dei barbari impaurirono, e credendo avvicinarsi i nemici assai più numerosi di quello che erano, e di averli poco men che addosso, si diedero a repentina fuga per tornarsene a casa. Perdicca, che da primo non ne sapeva nulla, intesa la cosa fu obbligato a partire senza poter vedere Brasida, perché i due campi erano molto distanti. E Brasida sul far dell'alba, poiché seppe che i Macedoni erano già partiti e che gl'Illirici con Arribeo or ora l'assalirebbero, fatto un quadrato delle genti gravi e poste in mezzo le leggere pensava di ritirarsi. Scelse ancora per iscorridori alcuni dei più giovani, caso che il nemico volesse da qualche parte assalirlo. Egli poi cappati trecento soldati, aveva in animo di ritirarsi l'ultimo per ributtare di pié fermo i nemici che fossero i primi ad assalirlo. E prima che essi si avvicinassero secondoché permetteva la strettezza del tempo, esortava in questa guisa le sue genti.
126. « Soldati Peloponnesi, se io non sospettassi esser voi costernati perché i Macedoni ci abbandonarono, e perché uno sciame di barbari viene ad assalirci, non mi sarei proposto di ammaestrarvi insieme ed incoraggiarvi. Ed è però che quanto all'abbandonamento dei nostri ed alla moltitudine dei nemici, voglio ora far di tutto per convincervi di cosa importantissima con breve ricordo ed esortazione. E vaglia il vero, a voi è richiesto esser sempre prodi in guerra non per la presenza degli alleati, ma pel vostro proprio valore; né deve intimorirvi la moltitudine altrui, siccome quelli che venite da repubbliche, ove non i molti su i pochi, ma piuttosto i meno hanno comando su i più, comando non in altra guisa acquistato che con le vittorie fra l'armi. Quanto poi ai barbari che per inesperienza temete, dovete imparare che e' non saranno formidabili, si dai combattimenti avuti contro loro in grazia dei Macedoni, sì da quello ch'io ne so per congettura e per udita. Imperciocché quando il nemico è debole di fatto, ma induce opinione di fortezza, il procacciare una verace istruzione intorno ad esso, rinfranca maggiormente chi vuol resistergli: ed all'opposto è temerario colui che assale un nemico veramente valoroso, senza prima brigarsi di conoscerlo. Or sono costoro spaventosi agli inesperti mentre s'indugia ad attaccarli, perché ti atterrisce la vista di lor moltitudine, ti sgomenta la grandezza delle grida, e perché quel vano crollar dell'armi ha in sé non so qual minacciosa significanza. Ma ove tu regga a queste apparenze, dessi non son più i medesimi. Avvegnaché non serbando nessun ordine, ove siano forzati non si fanno caso di abbandonare il suo posto; fuggire od assalire è per loro decoroso egualmente, onde al valore non resta modo a distinguersi; e poi quel battagliare a capriccio deve procacciare a ciascuno colorata occasione di salvarsi. Stimano più sicuro lo spaventarci da lungi senza pericolo, che venir con noi alle mani; altrimenti piuttosto ché di quello, avrebbero usato di questo modo. Voi vedete chiaro dunque che quel terrore che li precede, è ben piccola cosa nel fatto, e che solo confonde la vista e l'adito. Le quali cose sostenendo quando costoro vi vengano addosso, e dando addietro posatamente e con ordine, arriverete ben presto a salvamento, e conoscerete pel futuro che con chi regga al primo impeto, sì fatta marmaglia solo ostenta da lungi fortezza colle minacce prima del conflitto; con chi poi ceda, sopraggiungendo essa alle spalle, e così trovandosi al sicuro, fa mostra di valore coll'inseguir velocemente» .
127. Dopo questa esortazione Brasida ritirava le sue genti. Le videro quei barbari, e credendo che fuggissero e che raggiungendole ne farebbero strage furono loro addosso con alto urlo e tumulto. Ma gli scorridori paravansi loro davanti ovunque si presentassero; e Brasida stesso colla milizia scelta ne sosteneva l'impeto; talché con sorpresa dei barbari poterono reggere a quella prima furia. Inoltre i Greci, quando i barbari li assaltavano, facendo alto li ributtavano, quando si fermavano ei proseguivano la loro ritirata. Ma pervenuti i Brasidiani in luoghi aperti, allora desisterono i barbari d'incalzarli: lasciarono però alcune bande che seguitassero a tribolarli con frecce, e gli altri si misero a correr dietro ai fuggitivi Macedoni, ammazzandone quanti ne incontravano. Quindi occuparono i primi l'angusto sboccamento di una via tra due colli, che mette sulle terre d'Arribeo, sapendo non vi essere per Brasida altra strada di ritirata. E mentre ei si avvicinava, prendono a circondarlo appunto nel passo più scabroso della strada, tenendone per sicuro l'arresto.
128. Egli accortosi di ciò comandò ai suoi trecento di correre al più presto possibile senza ordine veruno a quel dei due colli che credeva più facile ad occupare, e di sforzarsi a respingere quei barbari che già vi salivano, prima che maggior numero venisse a circondarli. Scagliatisi i trecento sopra i barbari saliti sul colle, gli vinsero; onde al grosso dell'esercito greco riusciva oramai più agevole la montata sul colle stesso, essendo i barbari spaventati per la cacciata dall'altura toccata ai suoi. Così cessarono di più inseguire i Greci, credendoli ormai sulle frontiere ed in luogo di salvamento. Brasida presa la via dei monti marciava più al sicuro, ed il giorno stesso fece la sua prima fermata ad Antissa negli stati di Perdicca, ed i soldati stessi adirati contro i Macedoni, che se ne erano andati senza aspettarli, tutte le cose loro che incontravano per strada o carri tirati da bovi od altro bagaglio caduto per terra (come naturalmente avviene in una ritirata paurosa e di notte), staccandone i bovi parte mettevano in pezzi, parte appropriavano a sé stessi. Di quì Perdicca cominciò ad avere in odio Brasida, e d'allora in poi nutriva verso i Peloponnesi un odio non consueto, perché già disamava gli Ateniesi. Nondimeno riavuto dalle sue gravi calamità cercava pronta via di accomodarsi con questi, e di spacciarsi da quelli.
129. Brasida al suo ritorno di Macedonia a Torona trovando gli Ateniesi già padroni di Mende, non credendosi in stato di tragittare in Pellene per soccorrerla, teneva guardata Torona. Imperciocché nel tempo delle cose seguite a Linco, gli Ateniesi secondo gli apparecchi fatti si erano già messi in mare con cinquanta navi per riprendere Mende e Scione, dieci delle quali erano chie, con mille soldati di grave armatura e seicento arcieri dei loro, mille Traci presi a soldo ed altri palvesari somministrati dagli alleati di quei luoghi. Erano alla testa di quell'armata Nicia di Nicerato, e Nicostrato di Diotrefe. Fatto vela da Potidea presero terra presso il tempio di Nettuno, e marciavano contro i Mendei. I quali accorsi da sé stessi insieme con trecento Scionesi, e colle truppe ausiliarie dei Peloponnesi, in tutti settecento di grave armatura, guidati da Polidamide, si erano accampati fuori della città sopra un'altura forte per la sua situazione. Nicia con centoventi Metonesi armati alla leggera, e sessanta di scelta grave milizia ateniese e tutti gli arcieri tentava di salire sulla collina per un tragetto; ma ferito dai nemici non poté sloggiarli. Nicostrato poi il quale per un'altra via più lontana con tutto il resto dell'esercito saliva il colle che è disagevole, fu interamente disordinato; talché poco mancò che tutto l'esercito ateniese non fosse vinto. Nel medesimo giorno gli Ateniesi vedendo che i Mendei e loro confederati non si volevano arrendere, si ritirarono a riprendere il loro campo: e i Mendei, sopravvenuta la notte, rientrarono in città.
130, Il giorno appresso gli Ateniesi fecero colle navi il giro della costa, e presero terra dirimpetto a Scione; ne espugnarono il suburbio, e per tutta la giornata saccheggiavano la campagna, non essendo uscito alcuno a contrastarli dalla città, ove era insorto qualche tumulto. I trecento Scionesi la notte seguente tornarono a casa. Fattosi giorno Nicia con metà delle truppe si avanzò sui confini del territorio per devastare le campagne degli Scionesi, nel tempo che Nicostrato col resto dell'esercito si era accampato sotto Mende presso le porte di sopra onde si va a Potidea. Ma siccome quivi dentro le mura era il deposito delle armi dei Mendei e dei loro alleati, però Polidamida gli dispone in ordine di battaglia, e confortava i Mendei a far sortita. Ora un tale della parte del popolo, animato da spirito di sedizione gli si oppose, dicendo che e' non farebbero sortita, e che non conveniva ingaggiar la battaglia. Polidamida insisteva, quando ecco colui gli mise le mani addosso e sconcertollo; onde il popolo infuriato, colle armi alla mano correva sopra i Peloponnesi, e sopra quelli che d'accordo con loro avevano seguito la parte contraria al popolo. E venuti alle mani li mettono in rotta col repentino assalto, tanto più che erano impauriti dal pensiero che ciò fosse avvenuto d'intelligenza con gli Ateniesi, ai quali erano state aperte le porte. Quelli che non restarono decisi sul fatto si ritirarono nella cittadella, di cui anche di prima erano padroni. Mentre Nicia tornato indietro era vicino a Mende, gli Ateniesi tutti insieme si precipitano in città; e siccome le porte non erano state aperte per convenzione, così la corsero tutta come presa d'assalto, e con tanta furia che appena i generali poterono rattenerli che e' non trucidassero anche i cittadini. Dopo questo ordinarono che i Mende! si governassero siccome eran soliti, e facessero da sé stessi il giudizio di coloro che stimassero i colpevoli della rivolta, rinserrarono i Peloponnesi nella cittadella con un muro che da due parti andava sino al mare, e vi misero una guarnigione. In questo modo assicuratisi di Mende, marciarono sopra Scione.
131. Quivi gli Scionesi insieme coi Peloponnesi uscirono di città incontro a loro, e posaronsi sopra un colle forte per natura ed a sopraccollo della città, senza occupare il quale non potevano i nemici cingerli colle fortifi­cazioni. Gli Ateniesi diedero ad esso un vigoroso assalto, fecero quindi snidiare gli avversari, e vi si posero a campo; ed eretto il trofeo ordinavano la circonvallazione della città. E poco dopo, mentre erano sopra questo lavoro, gli ausiliarii Peloponnesi assediati nella cittadella di Mende sforzarono le sentinelle dalla parte di mare, e col favor della notte la maggior parte di loro trafugaronsi a traverso il campo degli Ateniesi posto sotta Scione, ed entrarono in città.
132. Frattanto che si costruiva la circonvallazione di Scione, Perdicca fa accordo con gli Ateniesi mediante un araldo spedito ai loro generali; il qual maneggio aveva già cominciato subito fino da quando gli venne in odio Brasida per la ritirata di Linco. Isagora lacedemone doveva per avventura in quei giorni condurre delle truppe a Brasida per la via di terra. Onde Perdicca, parte sollecitato da Nicia che, poiché era seguito l'accomodamento, volesse dare agli Ateniesi qualche chiaro argomento della sua fermezza, parte non volendo egli stesso che i Peloponnesi venissero d'ora innanzi nel suo territorio, acconciò la cosa coi suoi corrispondenti di Tessaglia, ove era in dimestichezza coi primi personaggi, e così frastornò l'esercito e gli apparecchi dei Peloponnesi, a segno che nemmeno si affacciarono ai Tessali. Tuttavia Isagora, Amenio e Aristeo spediti dai Lacedemoni per visitare lo stato delle cose, si portarono a Brasida, e contro il divieto delle leggi spartane vi condussero alcuni dei loro giovani per costituirli comandanti delle città, il governo delle quali non volevano commettere a chicchefosse. Brasida infatti stabilisce in Amfipoli Cleonida di Cleonimo, ed in Torona Epitalide di Egesandro.
133. Nella medesima estate i Tebani incolpando i Tespiesi di atticismo demolirono le loro mura, la qual cosa avevano sempre avuto in animo di fare; se non che allora si offerse ad essi più facil modo, per essere perito il fiore dei Tespiesi nel combattimento contro gli Ateniesi. Nella medesima estate bruciò in Argo il tempio di Giunone per colpa di Criside sacerdotessa, che posta una lucerna accesa vicino alle sacre cortine vi si addormentò; onde senza che alcuno se ne accorgesse appiccatosi il fuoco, fu tutto consunto dalle fiamme. E Criside per paura degli Argivi fugge subito nella stessa notte a Fliunte; e gli Argivi secondo che la legge disponeva crearono un'altra sacer­dotessa per nome Faenida. Quando Criside fuggì volgeva l'ottavo anno e metà del nono di questa guerra: e sul cadere di questa estate fornita interamente la circonvallazione di Scione, gli Ateniesi lasciaronvi presidio e partirono col rimanente dell'esercito.
134. Nell'inverno seguente gli Ateniesi e i Lacedemoni a cagione dell'armistizio stavano tranquilli; ma i Mantineesi e i Tegeati coi respettivi confederati vennero alle mani a Laodicea dell'Orestide. La vittoria fu indecisa perché entrambi fugarono l'ala che avevano a fronte, ed entrambi ersero trofeo, e spedirono a Delfo le spoglie. Molli furono i morti da tutte e due le parti in quel dub­bioso combattimento a cui pose fine la notte. I Tegeati pernottarono nel campo, e subito ersero trofeo, ed i Mantinei si ritirarono a Bucolione, e poi alzarono anch'essi un altro trofeo dirimpetto al primo.
135. In sullo scorcio del medesimo inverno, essendo vicinissima la primavera, Brasida volle tentar Potidea. Vi si accostò di notte, e gli riuscì di appoggiare le scale senza essere fino allora scoperto. Imperocché le scale furono appoggiate in quello spazio rimasto vuoto di guardie, quando la sentinella passata avanti per portare ad altra il campanello, non era ancora ritornata al suo posto. Ma poi scoperta la cosa prima che alcuno salisse, Brasida ritirò prestamente le sue genti senza aspettare che si facesse giorno. Così finiva l'inverno e l'anno nono di questa guerra che Tucidide ha descritta.