Biblioteca:Teocrito, Idilli, XXIV - Il piccolo Eracle

Una volta Alcmena di Midea,
dopo averli lavati tutti e due
e riempiti di latte, mise stesi
Eracle che contava dieci mesi
ed Ificle, più indietro di una notte
nello scudo di bronzo, l'arma bella
tolta al vinto Pterela da Anfitrione.
E sfiorando la testa dei bambini
la donna disse: "Fate un dolce sonno
fino al risveglio, piccoli miei figli,
dormite, anima mia, voi due fratelli;
siete al sicuro, figli. Beatamente
possiate riposare e beatamente
vi sia dato di giungere all'aurora".
Così dicendo scosse il grande scudo
e il sonno li afferrò. Ma a mezzanotte
quando l'Orsa tramonta in faccia a Orione
che mette fuori la sua grande spalla,
due terribili mostri, due serpenti
irti di scaglie nelle nere spire
Era, che non è a corto di trovate,
fece levare contro l'ampia soglia,
là dove c'era un vuoto negli stipiti,
della porta di casa minacciando
di fare divorare in un boccone
Eracle appena nato. I due serpenti
srotolando le spire sulla terra
strisciavano col ventre sanguinario
e mentre si muovevano dagli occhi
un malefico fuoco lampeggiava
e sputavano un tossico pesante.
Ma quando si accostarono ai bambini
con le lingue vibranti, poiché Zeus
d'ogni cosa s'avvede, in quel momento
si svegliarono i figli di Alcmena
e una luce brillò dentro la casa.
Gridò sùbito Ificle, scorgendo
le brutte bestie sul ricurvo scudo
e alla vista dei denti spaventosi
e respinse, cercando di fuggire,
la coperta di lana con i piedi.
Eracle li affrontò, stringendo entrambi
nella morsa pesante delle mani,
prendendoli alla gola, che è la sede
del mortale veleno dei serpenti
portatori di morte, detestato
perfino dagli dèi. Quelli frattanto
circondarono entrambi con le spire
quel bimbo nato tardi, ancora a balia,
che non piangeva mai, ma poi di nuovo
lo scioglievano vinti dallo sforzo,
cercando in tutti i modi di sottrarre
la schiena dalla stretta inesorabile.
Udì gridare e si svegliò per prima
Alcmena: "Non posso fare un passo,
Anfitrione, son piena di paura,
àlzati, non calzare ai piedi i sandali,
àlzati: non lo senti come grida
il bambino più piccolo, non vedi
che è ancora notte fonda, ma le mura
brillano tutte di una luce chiara
come di aurora limpida? Per me,
marito caro, c'è qualcosa in casa
di molto strano". Lei così diceva
e quello si levava dal suo letto
dando ascolto alla moglie. Si gettò
sulla spada sbalzata che era sempre
sopra il letto di cedro appesa a un chiodo
e cercava di prendere la cinghia
nuova intessuta, mentre l'altra mano
reggeva il grande fodero di loto.
E allora l'ampia stanza fu di nuovo
invasa dalla tenebra. Egli diede
la voce ai servi che pesantemente
nel sonno respiravano: "Al più presto
portate il fuoco dal camino, servi,
e rimuovete le robuste sbarre
della porta d'ingresso". "In piedi, servi
dall'indole paziente, è lui che chiama!"
disse allora la donna di Fenicia
che aveva il suo giaciglio sulla mola.
Con le lampade accese in un momento
vennero i servi e si riempì la casa
di gente che accorreva da ogni parte.
Ma levarono un grido di stupore
quando Eracle lattante apparve loro
con le due bestie saldamente strette
nelle tenere mani. Sollevava
verso il padre Anfitrione quei serpenti
e saltava di gioia allegramente
e i mostri orrendi nel mortale sonno
pose ridendo ai piedi di suo padre.
Alcmena prese in braccio Ificle rigido,
sconvolto dal terrore, ed Anfitrione
dopo avere disteso l'altro bimbo
nella coltre di agnello, tornò a letto
con l'intenzione di riprender sonno.
Da poco i galli avevano cantato
i primi albori per la terza volta,
che Alcmena mandò a prendere Tiresia,
L'indovino che dice sempre il vero,
e, narrato il motivo straordinario,
esigeva da lui che rivelasse
come le cose andrebbero a finire.
"Neppure se qualcosa di penoso
hanno in mente gli dèi devi celarlo
per un riguardo. Anche così evitare
ciò che la Moira incalza col suo fuso
all'uomo non è dato. A te l'insegno,
anche se è grande il senno tuo, indovino,
figlio di Evèro". Ed egli alla regina
rispondeva in tal modo: "Tranquillizzati,
donna, madre di figli di gran razza,
tranquillizzati, tu, sangue di Perseo,
ed immagina il meglio del futuro.
Sì, per la dolce luce dei miei occhi
da tempo andata via, sulle ginocchia
a sera torceranno il molle filo
molte Achee con la mano e canteranno
per nome Alcmena e tra le donne argive
sarai tenuta in alto. Un uomo tale,
il figlio tuo, dovrà salire al cielo
che regge gli astri, eroe dal vasto petto,
e non lo vincerà bestia né uomo.
E quando avrà portato a compimento
dodici gravi prove, è stabilito
che stia con Zeus, ma quanto ha di mortale
sarà preda del rogo eretto in Trachis.
E sarà celebrato come genero
di chi tra gli immortali gli aizzò contro
questi mostri che vivono nei covi
per farlo dilaniare da bambino.
[Giorno verrà che dentro la sua tana
un lupo dalle zanne acuminate
vedrà un cerbiatto e non gli farà male.]
Ma tu, donna, conserva vivo il fuoco
sotto la cenere e già pronta all'uso
legna secca di aspalato o paliuro,
o rovo o d'un arbusto disseccato
scosso dal vento e brucia a mezzanotte
sulle schegge selvatiche i serpenti
nell'ora che volevano ammazzare
il tuo bambino. Ed una delle serve,
radunata la cenere del fuoco,
al mattino la getti via sul fiume
senza lasciarne traccia, oltre il confine,
tra le rupi scoscese e torni indietro
senza voltarsi. Liberate inoltre
la casa dal contagio con la fiamma
di puro zolfo prima, poi aspergendola
d'acqua limpida e sale con un ramo
incoronato, come è consuetudine.
Offri un porcello maschio in sacrificio
a Zeus che sta più in alto, per restare
più in alto dei nemici in ogni tempo".
Disse così Tiresia e, spinto indietro
il sedile d'avorio, se ne andava
sotto il pesante carico degli anni.
Ed Eracle, indicato come figlio
dell'argivo Anfitrione, dalla madre
era allevato, come nel giardino
una giovane pianta. Il vecchio Lino,
figlio d'Apollo, eroe e custode insonne,
fu maestro di lettere al bambino;
ricco di estese terre dei suoi padri
Eurito gli insegnò a tirare d'arco
e a mandare la freccia sul bersaglio,
e lo fece cantore e gli adattò
Eumolpo di Filammone le mani
alla lira di bosso. E quante astuzie
scoprirono atterrandosi l'un l'altro
con un colpo di gamba nella lotta
gli uomini d'Argo, mobili sui fianchi,
quante i pugili validi nei cesti
e quante, utili all'arte, i pancraziasti
che cadono per terra, tutte apprese
da Arpàlico Panòpeo, figlio d'Ermes,
che nessuno a piè fermo avrebbe atteso
vedendolo provarsi da lontano
nel gareggiare. Un tale sopracciglio
gli si aggrottava sopra il volto fiero.
Ma a spingere i cavalli sotto il carro
e a badare che l'asse della ruota
giri con sicurezza sulla mèta
istruì il figlio diletto, di persona,
Anfitrione assennato, poiché vinse,
in Argo allevatrice di cavalli,
moltissimi tesori nelle gare
della corsa veloce ed ai suoi carri
su cui montava, privi di ogni danno,
le cinghie si usurarono col tempo.
E a colpire il nemico, lancia in resta,
riparandosi il dorso con lo scudo
e a sostenere il colpo delle spade
ed a mettere in riga la falange
e a calcolare con accuratezza
l'entità dei nemici nell'attacco
gli fu maestro Castore di Ippalo,
giunto esule da Argo dove allora
tutti i suoi beni e i suoi vasti vigneti
occupava Tideo, presa da Adrasto
Argo percorsa dai cavalli. E pari
a Castore non c'era alcun guerriero
tra i semidei, finché dalla vecchiaia
la giovinezza non gli fu consunta.
Così dunque la madre educava Eracle:
il letto del fanciullo era disposto
accanto al padre, un vello di leone
che gli piaceva molto, per il pasto
aveva carne cotta e, in un canestro,
un grande pane dorico, senz'altro
sufficiente a saziare un lavorante
addetto alla fatica dello sterro,
ma di giorno prendeva poco cibo
non cucinato ed indossava vesti
senza ornamenti, corte a mezza gamba.