Biblioteca:Quinto Smirneo, Posthomerica, Libro XII

Ma poiché molto ebber pugnato intorno
Alle Troiane mura i forti Greci,
Non alcun fin però n’avea la guerra.
Allor Calcante i principi dell’oste
Tutti adunò in consiglio, a pieno esperto,
Per lo favor del sagittario Apollo,
Del volar degli augei, degli astri, e insieme
Di tutti gli altri segni, che a’ mortali
Soglion mostrarsi per voler divino.
Quinci a lor congregati, in questa guisa
Incominciando, a ragionar si diede:
Omai non più, signori, in quest’assedio
Da voi si tenti d’espugnar le mura
Per forza d’armi, ma fra voi pensate
Qualche arte, o qualche inganno, onde salute
A voi n’avvenga insieme, ed alle navi.
Perché di cosa tal vid’io pur ieri
Quà chiaro indizio; uno sparvier vid’io
Cacciare una colomba, che fuggendo
Incalzata da lui, s’appiattò dentro
Il fesso d’una pietra, ed egli irato
Contro lei gravemente, appresso al foro
Gran tempo indarno si trattenne, ed ella
Salvossi; ond’ei nell’animo serbando
Il già concetto sdegno, in un cespuglio
S’ascose, ed essa follemente fuori
Uscìo, pensando lui trovarsi lunge,
E quegli alzato, all’infelice augello
Diede in quel punto dolorosa morte.
Dunque non tentiam più d’espugnar noi
La Troiana città per via di forza,
Ma vediam quel, che in questo fatto possa
Ritrovata da noi macchina, o fraude.
Così diss’egli, e pur non v’era alcuno,
Che ritrovar sapesse all’aspro affanno
Opportuno rimedio, ancorché tutti
Gisser cercando, e stratagemmi, ed arti.
Solo fra gli altri con l’astuto ingegno
Immaginolla il figlio di Laerte,
E nel cospetto lor disse parlando:
O caro agli alti Numi, ed onorato,
Se veramente è pur fatal, che i forti
Achivi debellar deggian le mura
Di Priamo con inganno, a me parrebbe,
Che si formasse un gran cavallo, e tutti
Noi, che più forti siam di buon coraggio
Entrassimo entro a quel posti in aguato;
E quindi poi l’esercito partendo
Gisse co’ legni a Tenedo, abbruciando
Gli alloggiamenti tutti, acciocché i Teucri
Dalla città mirando, uscisser fuori
Senza sospetto alcun quaggiù nel piano.
E intanto uom di buon cor, né conosciuto
Da qual si voglia de’ Troiani, vorrei,
Che invitto ardir chiudendo, in se, restasse
Fuor del cavallo, e da’ superbi Greci
Fingesse esser campato, avendo lui
Offrir voluto in sacrificio, affine
D’avere il cielo al lor partir secondo:
E soggiungesse poi quanto s’aspetta
Al ben fatto cavallo, il fabricaro
Essi a Atena contra loro irata
Sol per cagion de’ bellicosi Teucri.
E queste cose rivelasse dopo
Lunga richiesta, ed importuna, affine
Che le credesser pur, benché di mente
Siano indomita, e fiera, onde guidando
Lui miserabil sì nella cittade
Egli potesse poi sicuro segno
Donar di guerra, alzando accesa face,
All’esercito nostro, e parte noi
Fare avvertiti, quando fosse d’uopo
(Essendo già nel sonno i Teucri involti)
Uscir dall’ampio sen del gran cavallo.
Così diss’egli; e i detti suoi lodaro
Ad una voce tutti, e sovra gli altri
Calcante l’ammirò, come proposto
Bella macchina, e inganno avesse a’ Greci
Atto ad apportar lor della vittoria
Conforto, ed a’ Troiani estremo danno.
Onde così co’ principi del campo
Guerrieri a parlar prese: Omai si lasci
Da voi di ricercar qualsiasi inganno,
Amici, anzi a quel sol da voi s’attenda,
Che n’ha proposto il valoroso Ulisse:
Perché invan non cadrà questo pensiero
Del suo bell’intelletto, essendo omai
Per far gli Dei, quanto gli Argivi han voglia.
Mille segni di ciò securi, e certi
Zeus ne mostra, di maniera i tuoni
Fremon per l’aere in compagnia de’ lampi,
E sì volando agli uomini alla destra
Lungo spargono omai gli augelli il canto.
Ma non stiam consumando omai più tempo
Alla cittade intorno, poiché i Teucri
Dura necessitade ha fatto arditi,
Necessità che anco talora uom vile
Suol far gagliardo, e valoroso in armi:
Perocché allor fierissime in battaglia
Le genti son, che non curando vita,
Prodighe dansi a dolorosa morte.
Ed ora in guisa tal senza paura
I figli de’ Troiani la lor cittade
Difendon tutti furiosi, e feri.
Detto queste parole, a lui rispose
Così d’Achille il valoroso figlio:
Sempre, o Calcante, uom di coraggio a fronte
Pugna con l’inimico, e vile è quegli
Che fugge, e di pura il petto carco
Dalle torri combatte. Eh non pensiamo
Dunque noi fraude, od altro ingegno, poscia
Che col sudore, e con la lancia uom deve
Mostrarsi prode; e sempre è quei migliore,
Che ardito pugna in disperata guerra.
Poiché si tacque, in cotal guisa a lui
Di Laerte rispose il forte germe:
Valoroso figliuol d’Achille invitto,
Queste parole tue ben proprie sono
D’uom qual tu poderoso, e prode in armi,
E ch’aggia di se fatto ardite prove:
Ma or più non tardiamo, e per consiglio
Gìam di Calcante alle veloci navi
A far ivi il destrier per man d’Epeo,
Che nell’arti simili è il più perfetto
Di tutti gli altri Argivi, e dalla stessa
Maestra Pallade have imparato l’opre.
Così diss’egli, e persuasi tutti
Restaro a’ detti i principi del campo.
Neottolemo sol rimase il forte,
Né si piegò la coraggiosa mente
Di Filottete, che nel cor volgea
Animosi pensier d’opre sublimi.
Sazj non eran questi ancor di guerra,
Ed ardean di desio di provarsi anco
Nella battaglia: onde alle genti loro
Comandar, ch’esse appresso al largo muro
Tutti portasser quegli armeggi, ond’have
Mestier murale assalto, avendo speme
Di ruinar quel dì l’inclite mura,
Sendo ambedue venuti in quella guerra
Per divino volere. Ed eran tosto
Il concetto pensier per trarre al fine,
Se contro a lor non sì movea dall’etra
Zeus a disdegno, il qual tremare il suolo
Fè tosto a’ piè de’ Greci, e tutto scosse
L’aere di sopra, e il folgore tremendo
Lanciò d’avanti ai due campioni, e tutta
Rimbombar fece la Dardania terra.
L’animo lor feroce allor divenne
Timido, ed obliar l’ardir primiero,
E la primiera lor guerriera forza,
E contro al lor voler dier fede ai detti
Dell’inclito Calcante, ed alle navi
Tornar con gli altri Greci, e l’indovino
Poscia ammiraro, ed affermar, che Zeus
Gli fosse amico, o Febo, e in ogni cosa
Alle parole sue quinci dier fede.
Quando giran nel ciel le ardenti stelle
Per tutto scintillando, e le fatiche
Ogni stanco mortal dona all’oblio,
Atena altor dalle beate genti
Partendo, scese a’ Greci, ed alle navi,
Di pargoletta, e semplice fanciulla
Preso in tutto il sembiante, e sovra il capo
Nel sogno si fermò del forte Epeo,
Ed a lui comandò, che far volesse
Il gran destrier di legno, e promise anco
D’esser con lui nelle fatiche a parte,
E soggiunse di più, spingendo lui
All’opra, di volere essa medesma
Entrarvi dentro. Ed egli i detti udendo
Della Dea, rallegrossi, e baldanzoso
Abbandonò le piume, e il pigro sonno,
Perché l’immortal Dea conobbe; ed indi
Ad altro non pensò, ma sempre il core
Fisso ebbe alla grand’opra, e per la mente
L’industre forza a lui girò dell’arte.
Quando poscia a’ mortai l’Aurora apparve
Le tenebre cacciando inver l’Inferno,
E vermiglio splendor l’aere dipinse,
Allora il divin sogno, e quanto vide,
E quanto udì, narrando a parte a parte
A’ desiosi Greci espose Epeo,
Che nell’udir le raccontate cose
Sentian nell’alma inusitata gioja.
I figli allor d’Atreo nelle fiorite
Valli mandar degli alti monti Idei
Uomin veloci, che facendo oltraggio
Nelle selve agli abeti, ivan troncando
L’eccelse piante, e rimbombar le valli
S’udiano a’ colpi, e impoverian di boschi
Gli alti gioghi de’ monti, e le distese
Piaggie, e scopriasi ogni più chiusa valle:
Inaridirsi i tronchi, e della forza
De’ venti avean bisogno: indi tagliando
Lor con le scuri, dal selvoso giogo
Gli conducean con molto studio al lido
Dell’Ellesponto. E pronti erano all’opre
Gli uomini, e i muli, e con frequenza grande
Affannavan le genti in questa, e quella
Parte ad Epeo ministre: altri col ferro
Stridulo dividean le travi, ed indi
Tavole ne faceano, altri da’ tronchi
Non segati anco recideano i rami
Con le bipenni, ed altri altra fatica
Prendeansi travagliando. Intanto Epeo
Del caval fece i piedi, e poscia il ventre:
Quindi sopra adattogli il dorso, e dietro
La groppa fegli, e il collo avanti, e sopra
L’alta cervice accomodò la coma,
Che qual vera scoteasi: il sommo capo
Di pel vestigli, e la volubil coda:
L’orecchie fegli, e trasparenti i lumi,
E l’altre parti tutte, onde i corsieri
Muovonsi; e tal sorgea l’opra sacrata,
Qual se veracemente e vivo, e vero
Cavallo ei fosse, poiché la Dea stessa
All’uom donato avea la nobil arte,
Onde in tre giorni sol, così volendo
Pallade, condotta fu l’alt’opra al fine.
Tutta si rallegrò l’Argiva gente,
E si maravigliò, come potesse
Vita darsi ad un legno, ed onde il moto
Rapido avesse il piè; perocché tale
Era il destrier, che dar parea nitrito.
Allora il divo Epeo levò le mani
All’indomita Pallade, e per il vasto
Destrier così parlò, breve pregando:
Esaudiscimi, o Dea d’animo invitto,
E da’ salute a me col tuo corsiero.
Disse; ed esaudì lui la consigliera
Atena, e fè, che l’opra sua miranda
Fosse ad ogni mortal, che la vedea,
Ed a color, che nell’età future
Udissero di lei parlar la fama.
Mentre i Greci così godean mirando
Lieti l’opra d’Epeo, dentro alle torri
Stavan racchiusi, e timidi schivando
La morte i Teucri, e l’implacabil Parca.
Intanto essendo gito il sommo Zeus
Dell’Oceano all’onde, ed alle grotte
Di Teti, e dagli Dei tratto in disparte,
tacque fra gl’Immortai grave contrasto,
Essendo i lor pareri in due divisi:
Quinci tumultuando ascesi sopra
I turbini ventosi, a terra tosto
Calar dal ciclo, e nel calar tremava
L’aere lor sotto: e poiché giunti furo
Sovra l’onde di Xanto, incontro posti
Fra lor fermarsi, e la difesa questi
Prendendo degli Achei, de’ Teucri quelli,
S’accese in lor desio di far battaglia.
S’unir con loro insieme anco gli Dei,
Che del mar l’ampio flutto ebbero in sorte.
Gli uni chiedean terribilmente irati
L’ingannevol cavallo, e i greci legni
Struggere affatto, e gli altri a lor contrarj
L’onorato Ilion porre in ruina.
Vario impediva, e questi, e quegli il fato;
Onde alla pugna le divine menti
Rivolse, e Ares incominciò primiero
Ad attaccar la zuffa, e saltò incontro
Atena: e così gli altri si affrontaro
Fra loro: e nel gran moto a loro intorno
Risuonavano l’arme auree immortali;
Orrendo rimbombava il largo flutto
Del mare, e si scotea negra la terra;
Alzavan tutti spaventose voci,
Talché il terribil suono all’alto cielo
Giungeva, e discendea fin laggiù, dove
Have il baratro suo Pluton superbo,
Sovra cui posti timidi tremaro
Gravemente i Titani: alto muggito
Tutta ne diè la gran montagna Idea:
Rimbombarono ancor de’ fiumi eterni
L’onde sonanti, e le profonde valli
Con l’Argoliche navi insieme, ed anco
Di Priamo la città chiara, ed illustre.
Non s’accorgean però, così volendo
Gli Dei, di guerra tal le umane genti,
Né punto avean di tema. Eglino (egli) i gioghi
Frangendo con le man de’ monti Idei
Lanciavanglisi incontro, e i duri massi
Lieve si dispergean d’arena in guisa,
E toccando agli Dei le vaste membra
Si disalveano in picciolette parti.
Non era intanto al gran pensier di Zeus
Questo fatto nascosto, ancorché fosse
Là, dove è della terra il lido estremo:
Onde lasciando in un momento a tergo
Dell’Oceano i flutti, all’alto cielo
Ascese, e nell’andar traevan lui
Euro, Favonio, ed Aquilone, e Noto:
Cui, di varie bellezze adorna, e vaga
Sotto al giogo divin del carro eterno
(Che fabricò con le sue mani invitte
D’indomito, e durissimo diamante
L’Eternità immortale) Iride accoppia.
Poiché fu giunto al ciel, d’Olimpo salse
Sopra l’altero giogo, è d’ira acceso
Tutta tremar fè l’etra, e d’ogni parte
Sonaro, e lampeggiar baleni, e tuoni:
Cadeano a mille a mille a terra sparsi
I folgori, ed ardea l’immenso cielo;
Onde grave timor le menti assalse
Celesti, e degli Dei tremar le membra,
Benché immortali. Onde di lor salute
Avendo gran timor l’inclita Temi
Ratta come il pensier giù per le nubi
Venne d’un salto, ed accostossi a loro
Veloce, perchè sola essa in disparte
Se ne restò dalla crudel battaglia:
E per ritrargli dall’impresa guerra
A loro in guisa tal parlò dicendo:
Cessate, o Dii, dalla discorde mischia,
Perché non lice, essendo irato Zeus,
Che per cagion degli uomini, che sono
Di vita breve, aggiate voi contrasto,
Ch’eterni siete, e se cessar negate
Tutti sarete in un balen dispersi;
Perocché sopra voi quanti son monti
Frangendo spargeran nulla curando
Di figli, o di nipoti, e tutti insieme
Sotto rinchiuderà l’immensa terra,
Né più speme in voi sia di tornar poscia
A questa luce, ma terravvi ognora
In misera prigion la notte eterna.
Diss’ella, e persuasi a’ detti suoi,
Paventando il furor di Zeus irato
Cessar dalla tenzone, ed in disparte
Gittar gli sdegni, e ritornaro in pace.
Poscia mentre gìan questi al cielo, e quelli.
Al mare, ed altri rimaneansi in terra,
In questi detti ai bellicosi Achei
Parlò sagace di Laerte il figlio:
O voi, che degli Argivi avete impero;
Duci, e che di valor n’ite vantando,
Ora mostrate a me, che ciò desio,
Se n’ha fra voi, che sia guerriero, e forte:
Ora n’è il tempo, e necessaria è l’opra.
Su dunque tutti rimembrando Ares,
Nel ben fatto cavallo entriamo, affine
Che diam rimedio a sì nojosa guerra,
E buon sarà, siasi d’inganno, o d’arte,
Una volta espugnar la gran cittade,
Onde venuti quà, tanti disagj
Dalla patria lontani abbiam sofferto.
Su dunque,ardir prendiamo, e dentro al petto
Accogliamo valor, perché sovente
Dura necessità può sì, che in guerra
Tal, che dianzi fu vil, venuto audace,
Fortissimo guerrier pugnando uccide.
L’audacia animo grande altrui comparte,
Cosa, che all’uom mirabilmente giova.
Su dunque, o voi, che più degli altri forti
Siete, o signori, entro le gran caverne
Preparate l’insidie, e voi partendo
Altri, venite alla città sacrata
Di Tenedo, e cotanto ivi dimora
Fate, quant’aggian noi condotti dentro
La città gli avversarj, immaginando
Di trarvi dono a Pallade in volo offerto.
Ed un giovane prode a’ Teucri ignoto
Presso al caval rimanga, e, preso core
Di ferro, il tutto curi, il tutto guidi,
Com’io già dissi, ed a null’altro pensi,
Accio non forse manifeste quinci
Si faccian l’opre degli Argivi a’ Teucri.
Dello ch’ebbe così, tutti temendo,
Sinon rispose essendo già disposto
Di trarre a fin la grand’impresa: e lui
Com’uom d’animo saggio, e valoroso
Ammiraron le genti: ed egli in mezzo
Fattosi a tutti, in cotal guisa disse:
Ulisse, e tutti voi principi Achei,
Io l’opra eseguirò, che voi chiedete,
Benché me smembrin tutto, e nella fiamma
Consiglino fra lor vivo gettarmi.
Questo ho fermo tra me, voler per mano
Morir degl’inimici, ovver campando
Gran gloria a’ Greci addur, che si n’han voglia.
Così parlò pien di baldanza, ed alto
Ne sentiro piacer le genti Argive.
E disse alcun di loro: Oh come grande
Oggi dona a costui Zeus coraggio!
Tal non era egli avanti: ovver che il Fato
Vuol, che di tutti i Teucri sia ruina,
O di noi pure; avvenga ch’io mi stimi
Certo, che quinci la spietata guerra
Sia tosto per trovar fine, e rimedio.
Sì disse alcun fra’ bellicosi Greci
De’ popolari. E d’altra parte intanto
Nestore tutti avvalorando, tali
Dicea parole: Adesso, adesso, o cari
Figli, forza ci vuole, e vero ardire.
Or de’ travagli il fine, e fra le mani
Pongono a noi, che sì n’abbiam desio,
Total vittoria, e somma gloria i Divi.
Su dunque arditamente ognun di voi
Nell’ampio ventre al gran cavallo ascenda,
Poiché da grande ardir gran gloria nasce.
Oh! tal vigore, e tanta forza fosse
Nelle ginocchia mie, quant’era allora,
Che nella presta nave i forti eroi
Invitando venia d’Esone il figlio:
Primier volea di tutti gli altri duci
Entrarvi, e l’avrei fatto, se il divino
Pelia da ciò non m’impediva a forza.
Or giunto ha me l’aspra vecchiezza stanca;
Ma né perciò sarà, che arditamente
Nel cavallo io non entri al par d’ogni altro,
Che aggia la prima barba, e i più verdi anni:
Da Dio l’ardir sen vien, da Dio la forza.
Poich’ebbe così detto, in cotal modo
Rispose il figlio a lui del biondo Achille:
Nestore, di saper tu passi quanti
Uomini ha il mondo, ma t’opprime, ed ange
La nojosa vecchiezza, onde avvien poi,
Che, mentre tu ne’ fatti oprarti brami,
Non risponde al voler pari la forza.
Onde fia di mestier, che tu ten vada
Alle spiagge di Tenedo; entreremo
Nell’aguato noi giovani, e non anco
Sazj di guerra, come appunto, o vecchio,
Noi nel tuo dir volenterosi esorti.
Detto ch’egli ebbe in cotal guisa, a lui
Fattosi appresso il figlio di Neleo,
Ambe le man baciogli, e il viso insieme,
Poiché primiero egli ad entrar si offerse
Nel capace cavallo; e non piacea
Al vecchio, che di fuor con gli altri Greci
Se ne restasse, conoscendo lui
Volonteroso di provarsi in guerra.
Volto a lui dunque di combatter vago
Disse: Ben mostri tu di quel gran padre,
Di quel divino Achille esser figliuolo,
Tale è in te parlar saggio, e tal la forza.
Io spero, che in virtù della tua mano
Di Priamo ancor la gran cittade illustre
Sian per strugger gli Argivi, e sebben tardi
Dopo gran travagliar, dopo infiniti
Gravi disagj intorno a lei sofferti,
Pur riportiam dal faticar gran laude.
Gli affanni avanti a’ piedi hanno gli Dei
Posto a’ mortali, e i ben soverchio lunge:
Quinci a lor collocata han la fatica
Nel mezzo, onde il sentier, che l’uom conduce
Agli angosciosi mali, è piano, e lieve,
Ma duro è quel, che a gloria sal, fintanto
Che per l’aspre fatiche il piè trascorre.
Ciò disse: indi soggiunse il glorioso
Figlio d’Achille: O vecchio, appunto sia
Come tu speri, e noi preghiamo insieme,
Poiché questo è il miglior che avvenir possa
E se pure altramente hanno gli Dei
Disposto, siasi ciò, come a lor piace.
So ben quest’io, che con onore in guerra
Anzi morir vorrei, che presa fuga
Da ‘Troiani, portar meco obbrobrio, e scorno.
Così dicendo, si vestia le spalle
Degli arnesi immortal del suo gran padre,
E s’armavan così degli altri eroi
Quei, che maggior nell’alma avean coraggio.
Voi, Muse, a me che n’addimando, dite
Ad uno ad un veracemente quelli,
Che nel gran ventre al gran cavallo entraro.
Voi tutto nella mente a me dettasti
Il canto, anzi che avessi ancor vestite
Della prima lanugine le gote
Nel pian di Smirna, essendo intento al pasco
Di ricche greggie, tre fiate tanto
Lontan dall’Ermo, quanto altri udirebbe
La voce d’uom, ch’alto cacciasse il grido,
Nel libero giardin, che il tempio cinge
D’Artemi, sovra un colle, il qual non molto
È basso, né soverchio anco sublime.
Nel cavernoso sen del gran cavallo
Primier d’Achille il figlio ascese, ed indi
Menelao poderoso, e poscia Ulisse,
E Stenelo anco, e Diomede il divo.
Entrovvi Filottete, Anticlo, ed anco
Mnesteo, Toante illustre, e Polipete,
Il biondo Aiace, Euripilo, e il divino
Trasimede anco, e con Idomeneo
Merione, ambedue famosi, e chiari:
Il generoso Podalirio entrovvi,
Ed Eurimaco, e Teucro, e il valoroso
Ialmeno, Talpio, Antiloco, e il guerriero
Leonteo. V’ascese anco a’ Divi eguale
Eumelo, Eurialo, Demofoonte, e insieme
Anfimaco, e Agapenore robusto;
Ivi Acamante, e Mege di Fileo
Gagliardo figlio, ed altri anco v’entraro:
Insomma tutti quei, che fra gli eroi
Di verace valor tenean la cima,
E quanti nel capace ed ampio seno
La mole del cavallo accor poteo,
Entro saliro; e dopo gli altri tutti
Epeo vi volle entrar dell’opra mastro:
Perocché ben sapea, come s’aprisse
Ogni suo ripostiglio, ogni caverna,
E con qual arte si chiudeva, e quinci
Ultimo volle entrarvi, e trasse dentro
Le scale seco, ond’eran gli altri ascesi.
Poiché tutti ebbe chiusi, egli s’assise
Presso a’serragli, e con silenzio tutti
In mezzo si sedean fra morte, e vita.
Gli altri su’ legni il vasto mar solcando,
Gli alloggiamenti, ove dormiron dianzi,
Diero alle fiamme. Aveano il sommo impero
Di questi, e legge davan lor col cenno
Due generosi eroi, Nestore l’uno,
Agamennone l’altro il bellicoso.
A questi, che salir dentro al cavallo
Volean, divieto fer gli Argivi, affine
Che restasser ne’ legni, e comandando
Reggesser gli altri. Perché sempre meglio
Soglion le genti al fin condur qualche opra,
Se veggion, che il signor sia lor presente.
Per questo restar fuor, benché de’ primi
Capi fosser del campo. Or questi in breve
Tempo arrivar di Tenedo alla spiaggia:
Gittar l’ancore in fondo, e scesero essi
Presti da’ legni, e fuor legaro ai lidi
Le gomene, e sedendo ivi si stero
Taciti, e cheti in aspettando il punto,
Che si mostrasse lor la desiata
Facella. E intanto quei, che nel destriero
Stavan sedendo agli avversarj appresso
Varj volgean pensier: talor teneansi
Morti, e talor sorgeva in lor la speme
Di ruinar la gran città sacrata.
Fra questo lor sperar surse l’Aurora,
E viddero i Troiani là sovra il lido
Dell’Ellesponto, al cielo ergersi il fumo;
Né le navi mirar, che grave danno
Seco loro apportar dal suolo Argivo:
Onde con gran piacer prendendo l’arme
Verso il lido volar, temendo ancora.
Il pulito cavallo ivi miraro,
E stando intorno a lui stupian dell’opra.
Che sovra modo era superba, e grande.
L’infelice Sinon viddervi appresso,
E de’ Greci chiedendo, in cerchio accolti
Quinci il chiusero, e quindi, e pria con dolci
Parole il dimandar, poscia con gridi
Strani, e dell’astut’uom gran pezzo strazio
Fero; ed ei come pietra, invitte membra
Vestito soffria il tutto. Alfin gli orecchi
Troncargli, e il naso, e vitupero, e scempio
Fecer di lui, perché spiegasse il vero
Dell’andata de’ Greci, e di quel ch’era
Chiuso nel gran cavallo. Ed egli invitto
Ardir prendendo, a lor così nel mezzo
Astutamente a ragionar si diede:
Gli Argivi omai di così lunga guerra
Infastiditi, e stanchi, il mar solcando
Fuggon sovra le navi; or per consiglio
Han di Calcante alla prudente Pallade
Questo cavallo edificato, affine
Di placar l’ira della Dea, che contro
Lor per cagion de’ Teucri arde di sdegno.
Quinci ordinando in cotal guisa Ulisse,
Per cagion del ritorno, alla mia morte
Erano preparati, e in sacrificio
Sovra la sponda là del mar sonante
A’ marittimi Dei voleano offrirmi:
Ma non fu sì secreto il fatto ch’io
Nol presentissi; onde l’orrendo vino
Fuggendo, e il farro, per divin consiglio
Venni a cader qui del cavallo a’ piedi.
Ed essi lor malgrado a viva forza
Lasciarmi, non volendo ingiuriosi
Esser di Zeus alla guerriera figlia.
Così scaltro parlò, né si perdeo
D’animo per dolor delle ferite:
Perché conviene ad uom virile, e forte
Dura necessità soffrire invitto.
Dell’esercito allora altri credeangli,
E di Laocoonte altri il consiglio
Seguendo, traditor diceanlo, e mastro
D’inganni. Perché questi ottimi detti
Spargendo, dicea questa esser gran fraude
Ordita dagli Argivi, e quinci tutti
Spingeva, ed eccitava incontanente
A struggere col fuoco il gran cavallo,
Il cavallo di legno, e veder quello,
Che nel ventre ei chiudesse. E persuasi
Forano, ed evitata avrian la morte,
Se Pallade dentro a se commossa ad ira
Ver lui, verso i Troiani, ver la cittade,
Non fea tremar l’immensa terra sotto
I piè di Laocoonte. Orrenda tema
L’oppresse, ed un timor le membra affranse
Di lui superbo; e gli si sparse intorno
Al capo oscura notte, e fiera doglia
D’intorno alle palpebre a lui s’affisse:
Scoppiavan gli occhi fuor sotto le dense
Ciglia, e trafitte da dolere acuto
Gli erano le pupille, e da radice
Scoteansi: i lumi travolgeansi offesi
Di sotto, e il duol giungea fiero, ed intenso
Fino alle cartilagini, e là dove
Il cervello ha principio: ora vedeansi
Gli occhi apparir di molto sangue aspersi,
Or stralunati orribilmente, e biechi;
Talor anco spargean copia di pianto;
Qual suole onda cader dall’aspre rupi,
Quando ne’ monti si disfan le nevi.
Sembrava forsennato, e credea doppie
Tutte le cose, spasimando acerbo.
E pur così nulla slimando il duolo
Eccitava i Troiani, Alfin la cara
Luce la Dea gli tolse, e in tutto bianchi
Divenner lui fra le palpebre i lumi
Di sotto al sangue spaventoso; e intanto
Gemean le genti a lui d’intorno mosse
A gran pietà del travagliato amico:
E gran temenza avean, che l’immortale
Pallade, prevaricando in qualche cosa,
Ei non avesse follemente offeso:
E gran sospetto in loro entrò, che grave
Ruina avvenir lor dovesse, avendo
Del misero Sinon scempiato il corpo,
Stimando insieme, che veraci tutte
Fossin le cose, che narrato avea.
Onde con gran prontezza alla cittade
Dopo tarda pietà seco il guidaro.
Poscia insieme adunati, il gran cavallo
Cinser di funi all’alto collo intorno
Dalle superne parti: avendo il saggio
Epeo sotto adattato a’ vasti piedi
Legni, e volubil ruote, acciocché meglio
Seguir potesse, e viepiù agevolmente
Esser per man de’ Teucri entro alle mura
Della città condotto. Ed essi a stuolo
Frequenti lo traean puntando a gara;
Siccome allor che verso il mar sonoro
Varan sudando i marinar gran nave,
Stridonle sotto i curri oppressi, e geme
La carena altamente, ed ella intanto
Corre fuggendo entro l’ondoso flutto:
Cosi l’opra d’Epeo, ruina loro,
Unitamente faticando quelli
Traeano alla cittade, e intorno a lei
Di verdi frondi intesti ornati giri
Avean disposto coronati, ed anco
Fremer s’udìa del popolo il tumulto,
Mentre incoravan se l’un l’altro a prova.
Ridea Bellona in contemplando il fine
Misero della guerra, e godea d’alto
Era, e gran piacer sentìa Atena.
Essi alla città lor giunti, spezzaro
Di lei sì grande il muro, e trassero entro
Il funebre cavallo; e le Troiane
Femmine intanto alti ululati alzaro,
E tutte accolte, e fatto cerchio intorno
Stupian, mirando la terribil opra.
Ed essa il loro eccidio in sen chiadea.
Laocoonte ancor seguìa, spronando
I suoi compagni a consumar col fuoco
Ardente quel cavallo; ed essi fede
Non davan lui, perché temean lo sdegno
Degl’immortali. E vie più crudel opra
La magnanima Dea preparò intanto.
Di Laocoonte agl’infelici figli.
Eravi un antro in dirupata pietra
Fosco, ed inaccessibile a’ mortali;
Ove due fieri, ed orridi serpenti
Avean la stanza, di Tifon maligno
Stirpe, nel sen dell’isola, che dentro
Al mare incontro alla città di Troia
Vien dagli abitator detta Calidne.
Indi eccitando i fier serpenti, a Troia
Chiamogli; ed essi immantinente a’ cenni
Della Dea mossi, l’isoletta loro
Scossero tutta: al moto lor rimbombo
Diede il marino flutto, e si divise
L’onda. Gìano essi orribili le lingue
Vibrando in guisa tal, che orrore, e tema
Del mar n’avean le belve, e in un le Ninfe
Meste piangean di Simoenta, e Xanto:
Infin dal ciel’ gemea Ciprigna. Ed essi
Sen gìan senza tardar la ‘ve la Dea
All’andar gli eccitava, i denti orrendi
(lnstrumenti di morte) alle mascelle
Sotto arrotando orribilmente ai danni
Degl’infelici figli. Al veder entro
La città penetrar quei feri mostri,
Si diero i Teucri a spaventosa fuga;
Né fu giovine alcun, ned uom sì forte,
Che osasse di aspettargli, in cotal guisa
Le genti, che fuggian l’orride fere,
Terribile spavento oppresse avea.
Pianto, e lutto s’udìa, dove le donne
Stavano sbigottite, e così forte
Era il desìo di liberar se stesse
Dal Crudo scempio, che di loro alcuna
I figliuoletti suoi diede all’oblio.
Rimuggìa Troia tutta al moto loro,
E per la furia si stupian di molti
Le membra, che fuggian nella gran calca.
Anguste eran le strade, ove concorso
Facean le genti timide, e fugaci.
Soletti restar solo, ed in disparte
Laocoonte, e i figli, avendo loro
La Dea legati, e la nocente Parca.
Assalir essi con le bocche orrende
Ambo i figliuol, che la vicina morte
Paventavan tremando, e inver l’amato
Padre stendean le palme, ed esso a loro
Dar non potea soccorso, e da lontano
Al misero spettacolo, ed orrendo
Sbigottiti piangean dal petto interno.
I Teucri. Ed essi prontamente avendo
Contro a’ Teucri eseguito il crudo officio
Lor da Atena imposto, ambo celarsi
Sotto la terra; e segno ancor vi resta
Del loco, che abissogli entro al delubro
D’Apollo in mezzo a Pergamo sacrata.
Quinci i Troiani raccolti insieme, dove
Fur di Laocoonte i figli uccisi
Sì crudelmente, alzar loro sepolcro:
Sovra cui distillò da’ ciechi lumi
Lacrime il padre, e in mille guise pianse,
Ed ululò sovra la vuota tomba
La madre, maggior mal temendo ancora:
Il danno sospirò, che per follia
Del marito le avvenne, e imparò quinci
A temer degli Dei lo sdegno, e l’ira.
Sì come al nido Filomena intorno
Abbandonato entro al frondoso bosco
In mille modi si lamenta, e piange,
Di cui, pria che sian giunti a far col canto
Dolce risuonar l’aere, il serpe orrendo
Divora i figli, e di dolor la madre,
Che altamente angosciosa al vuoto albergo
Stride d’intorno, e garrula si duole;
In cotal guisa disperato pianto
Già spargendo costei sovra il sepolcro
De’ morti figli, ed a sì grave affanno
Il mal le s’aggiungea dell’infelice
Marito, perché quei piangea estinti,
E costui della luce orbo del sole.
I Teucri agl’ Immortali offriano intanto
I sacrificj, dolce vin libando;
E speravan fra se dover la forza
Schivar dell’aspra, e dolorosa guerra.
Ma non ardean le vittime, e la fiamma
Spegnea del fuoco, sovra lei cadendo,
Pioggia impetuosa, e strepitosa, e fumo
Alto sorgea sanguigno; e tutte al suolo
Le coscie offerte si spargean tremanti.
Ruinavan gli altari; il vin libato
Diventa sangue; i simulacri mesti
Degli Dei lacrimavano; e di tetro
Umor vedeansi i sacri tempj aspersi.
Improvvise aggirarsi, e quinci, e quindi
S’udian querule voci; i muri eccelsi
Tremando si scoteano, e l’alte torri
Facean strano rumore; e per se stessi
Delle porte i serragli apriansi, e grave
Destavan suono, e con funebri accenti
Solitarj gemean gli augei notturni.
Di sopra alla città, che dagli Dei
Fu fabbricata, si vedean le stelle
Di fosco cinte, ancorché d’ogni intorno
Fosse purgato, e luminoso il cielo;
S’inaridiano i lauri intorno al tempio
Di Febo, verdi, e floridi poc’anzi;
Fuor delle porte urlar s’udiano infausti
Cervieri e lupi, e mille altri prodigj
Mostravansi a’ Dardanj indizj certi
Alla città di sua ruina, E pure
Il terribil timor non giungev’entro
Alle lor menti, ancorché sì funebri
Per tutta la città vedesser segni.
Tolto a tutti l’ingegno avean le Parche,
Acciocché fra le mense involti, e i cibi,
Cedesser, vinti dagli Argivi, al Fato.
Sola intera di cor, saggia di mente
Era Cassandra, il cui parlar giammai
Non fu bugiardo, ma verace, e fermo:
Con tutto ciò per un fatal destino,
Onde fosser da’mali oppressi i Teucri,
Da tutti si tenea per vano, e falso.
Costei quando osservò per la cittade
I lugubri portenti, in un saltando,
E sollevando a più poter le grida,
Leonessa parea, cui nella selva
O ferita, o percossa il cacciatore
Abbia, vago di preda, il cui superbo
Cor s’accende a battaglia, e generosa
Per gli alti monti furiando gira;
Tal chiudendo entro a se presago il core
Sfrenata usci costei fuor dall’albergo:
Per le candide spalle avea le chiome
Sparse, che a’ piè le si stendean dal tergo:
Scintillavanle i lumi arditi, e vaghi,
E il collo sì le si scotea tremante,
Qual sottil verga suol, che il vento fiede.
Alfin la buona vergine in tal guisa
Alzò la voce, ed intuonò mugghiando:
Ah miseri! or n’andiam sotto l’oscura
Caligine: or d’intorno abbiam ripiena
D’incendio la città: di sangue, e stragi
Orrende in ogni parte appajon segni
Lacrimosi, e portenti a noi scoperti
Dagl’Immortali, e siam tra’ pie di morte.
Non v’accorgete forsennati, e stolti
Del fato, che v’è presso, anzi a’ piaceri
Tutti vi date folli, e non vedete
Il grave mal, che io quel caval si cova.
Ma non mi credereste, ancorché molto
Ragioni a voi, poiché altamente irate
Con voi le Erinni son per il connubio
D’Elena scellerato, e già le fere
Parche per tutta la città sen vanno
Saltando furiose. A mense infauste
di estremi cibi ite gustando aspersi
D’immondo sangue, e già col pie toccate
Quella profonda via, per cui sen vanno
De’ già defunti i simulacri e l’ombre.
Intanto alcun, mentre così dicea,
Lei rampognando, in questi folli accenti
Proruppe: Qual furor fa sì, che snodi
Quella tua lingua sì loquace, o figlia
Di Priamo? e follemente, e in tutto invano
Quante cose predici? e non t’affrena
Il virginal decoro, e la vergogna,
Ma dannoso furor t’agita, e scuote:
E quindi avvien, che di te nulla stima,
Garrula in guisa tal, fan poi le genti.
Vanne in mal punto, e quest’infausti augurj
Agli Argivi predici, od a te stessa.
Forse peggio avrai tu di quel, che s’abbia
Laocoonte avuto esso anco audace.
Perocché non convien, che a’ doni offerti
Agli Dei faccia uom forsennato oltraggio.
Così per la cittade alcun Troianio
Disse. E con modo tale altrui riprese
La vergine, affermando i detti suoi
Esser vani, e mendaci. E questo loro
Così avvenia, perché vicin l’eccidio,
E la nocente forza avean del Fato:
Onde non conoscendo il proprio danno,
Maledicendo lei, dal gran cavallo
La discacciar con violenza lunge,
Perch’ella instava, che spezzati i legni
Fossero tutti, e l’ingannevol mole
Donata in preda alla vorace fiamma.
E già per questo avea d’un altar preso
Ardente face, cui vibrando fuori
Uscita era a gran salti, e l’altra mano
Armata avea d’accetta, e quinci e quindi
Atta a fender col taglio, e s’affannava
Al dannoso cavallo intorno, affine
Che manifesto il doloroso inganno
Vedessero i Troiani. Ed essi il ferro
A lei rapito dalle mani, e il fuoco,
Lo gittaro in disparte; indi si diero
Scarchi d’ogni pensiero a prepararsi
La lor cena funebre essendo omai
Lor dell’ultima notte avanti scorsa
Gran parte. E i Greci entro al cavallo allegri
Udian per Ilio, e la letizia, e il riso
De’ Troiani, che cenavano, e in dispregio
Avean Cassandra, ond’essi meraviglia
Prendean, come potesse a costei sola
Così preciso, e manifesto, e conto
Esser de’ Greci e l’animo, e il consiglio.
Ed essa qual giovenca allor che i cani
La scacciano, e i pastor dalle sue stanze
Si lancia furiosa, il cor d’acerba
Doglia ripieno, e si raggira, e pure
Indi si parte alfin, benché dolente:
Tal dall’ampio cavallo a viva forza
Costei partissi dolorosa, e mesta
Per la morte de’ Teucri: perché troppo
L’animo le premea tanta ruina.