Biblioteca:Quinto Smirneo, Posthomerica, Libro XI

Le femmine Troiane entro le mura
Piangean, perché il venir sopra la tomba
Lieve non era lor, così lontana
Dalla città sublime ella giacea.
Né rimanea la gioventude intanto
Di pugnar pertinace in ciascun luogo
Entro le mura alla cittade intorno:
Non cessava la zuffa, ancorché morto
fosse Alessandro, perché i Greci verso
La città si movean stringendo i Teucri,
Ch’essi anco uscian dalla muraglia fuori
Dalla necessitade a ciò sospinti.
Perocché in mezzo a lor sen giano errando
L’aspra Bellona, e la Discordia in vista
Simili in tutto alle crudeli Erinni:
Spiravan dalle bocche ambedue fera
Strage; e in compagnia lor l’audaci Parche
Furiavan tremende; e d’altro lato
Irritavan le schiere Orrore, e Ares.
L’Ira seguia con lor di sanguinosa
Tabe cospersa, affinché lei vedendo
Altri de’ combattenti animo audace
Prendesser indi, altri timore, e fuga.
Lande, zagaglie, e strali ivan volando
Sospinti da’ guerrier, danno, e ruina
Desiando portar, folli, e frequenti:
Sorgea fra questi nell’urtarsi insieme,
E nel pugnar nel micidial conflitto
Da questa, e quella parte orribil suono.
Neottolemo allor di vita sciolse
Laomedonte, che vicino all’onde
Chiare nutrito fu del Licio Xanto,
Cui già primiero agli uomini scoperto
La divina Leto avea di Zeus
Altitonante moglie, aprendo l’aspra
Terra con le sue man di Licia illustre,
Quando tormento a lei porgean le doglie
Pungenti, e fiere, instando il suo gran parto.
Presso, a costui diè morte in quel contrasto
A Niro, con la lancia entro la gota
Lui percuotendo, e risecògli il ferro
La lingua, entro la bocca, ancor parlante:
L’impetuosa punta egli raccolse
La bocca aprendo, e giù per le mascelle,
Mentre parlava ancor, gli scorse il sangue.
Quinci la lancia lui per la gran forza
Della robusta man privò di spirto,
Gettollo a terra, indi percosse il divo
Evenore alla pancia alquanto sopra,
Ed al fegato in mezzo il ferro acuto
Gli fisse, e l’aspra morte in un aggiunse.
Ivi Ifirione, e insieme uccise
Ippomedonte ancor gagliardo figlio
Di Menalo, cui già prodotto avea
Ociroe ninfa del Sangario in riva,
Che non vide tornar, perché le crude
Parche, ed infauste la privar di lui,
E le apportare inconsolabil pianto.
Enea Bremonte uccise, e con lui poscia
Andromaco; il primier nutrito in Gnosso,
E l’altro fu nella sacrata Litto.
Ambo in un luogo da’ corsier veloci
Caddero a terra: l’un movea guizzando
Trafitto il gorgozzul dalla grand’asta,
L’altro morìa nell’infelice tempia
Da sospirosa selce offeso, cui
Venne a lanciar la poderosa mano.
La morte circondògli oscura, e negra,
E sbigottiti i lor corsier fuggendo
Da quei, che li reggean, sen gìano a salti
Co’ piè calcando i numerosi morti.
Quindi presero lor del buon Enea
I servi allegri di si cara preda.
Con l’acerba saetta indi ferìo
Filottete ivi Piraso, che fuga
Prendea dalla battaglia, e i torti nervi
Dietro dalle ginocchia a lui recisi,
Troncò l’impeto insieme, ond’ei correa;
Cui vedendo impedito alcun de’ Greci,
Col ferro della lancia a lui togliendo
Della cervice i due distesi nervi,
Lo fè del capo scemo, onde la terra
Il busto accolse intero, e d’altra parte
Ginne ruotando il capo ancor bramoso
Della parola, e in un balen volando
L’alma lasciollo, e si partì da lui.
Polidamante, Eurimaco, e Cleone
Colpì di lancia, che seguendo il rege
Nireo venner da Sime, ambedue scaltri
Nel preparar coll’amo a’ pesci inganno,
Nel lanciar reti in onda, e con industre
Maniera, dalla nave incontro a’ pesci
Il tridente vibrar dritto, e veloce.
Ma lor non liberò dalla ruina
L’esser d’opre del mar cotanto esperti.
Euripilo grazioso il guerrier Ello
Ferì, cui partorìo la bella Clito
Dello stagno Gigeo non lunge all’acque:
Con la faccia all’ingiù cadd’egli sopra
Steso alla polve, ed in disparte a terra
Dalla robusta spalla andonne il braccio
Dalla spada reciso, e la sua mano
Bramosa ancor di trattar l’asta in guerra
Indarno si movea, perché non dava
Dell’uom la forza a lei vigor nel moto,
Ma guizzava da se; come d’orrendo
Serpe la coda si contorce, e scuote
Recisa; e tanto non ha in se di forza,
Che oltraggio apporti all’uom, che la divise:
Tal del prode guerrier la destra mano
S’affannava anco al faticarsi in guerre,
Ma conforme al desio non avea possa.
Ammazzò Ulisse poi Polindo, ed Eno
Ambo Cetei, l’un con la lancia, e l’altro
Di lor troncando con la fera spada.
Stenelo ivi diè morte al divo Abante
Con un lanciato dardo, il qual trafitto
Il gozzo, a’ nervi oltrepassò del collo,
E l’anima sciogliendo, in un, momento
Tutte di lui le membra insieme affranse.
Il figlio di Tideo privò di vita
Laodoco; Agamennone diè morte
A Melio; indi Deifobo conquise
Ed Alcimo, e Driante; Ippaso estinto
Da Agenore ivi fu, benché famoso:
Dall’onda di Peneo questi sen venne,
Né premio a’ genitor render poteo
Dolce, dell’aver lui nutrito in fascie,
Perché interrotto ei ne restò dal fato.
Toante atterrò Laio, e il forte Linco,
Merione Licon; quinci fra’ morti
Menelao mandò Archeloco, che sotto
Ebbe l’albergo alla Coricia rupe,
Ed alla pietra di Efesto industre,
Maraviglia a’ mortai: perocché acceso
Vedesi inestinguibile, ed eterno
Abbruciar ivi e notte, e giorno il fuoco.
A lei corona verdeggianti, e fresche
Le palme fan di molti frutti carche,
Sebben co’sassi han la radice ardente,
E ciò fecer gli Dei, perché mai sempre
Stupor rendesse alle future etadi.
Teucro del buono Ippomedonte il figlio
Menete, che venìa, s’accinse pronto
A ferir con lo strale, e poiché dritto
A lui l’occhio, e la mente ebbe, e la mano,
La saetta scoccò dal curvo corno,
Che dalla presta mano uscìo veloce,
E colui ritrovò: suonava ancora
La corda scossa, ed all’incontro quegli
Guizzava tocco, perché in un col dardo
Volar le Parche all’opportune vie
Del core, che dell’uom l’alma, e la forza
Alberga, dove lieve ha morte il varco.
Eurialo con le man forti, e robuste
Molto lunge da se vasta gittando
Selce, disordinò le Teucre schiere.
Sì come s’uom, che posto sia de’ campi
Custode, con le gru, che lunghe voci
Spargono per lo ciel, talor si adira,
Presto si muove, e pronto là nel piano
Veloce al capo raggirando intorno
Ben con nervi di bue contesta fromba,
Altre percuota, e parte insieme sparga
Le lunghe schiere lor, che per lo cielo
Volando se ne van, del sasso il rombo;
Sen fuggono elle, e strepitose grida
Movendo, urtansi insieme, e van disperse,
Ove ordinate se ne gian primiere:
Tal del robusto Eurialo al colpo orrendo
Commosse si turbar le avverse squadre,
Né lui portò già la Fortuna a vuoto,
Ma fracassò coll’elmo il capo insieme
Del gagliardo Meleto il fiero colpo,
Ch’indi restonne all’aspra morte in preda.
In cotal guisa s’accendean fra loro
Questi, ed intorno alto gemea la terra.
Come talor d’impetuoso vento
Caggiono a’ colpi strepitosi a terra
Dalle radici svelte e quinci e quindi
L’eccelse piante del selvoso piano,
E freme al lor cader d’intorno il suolo;
Tal cadean questi nella polve, ed alto
Suonavan l’arme, e ne fremea la terra.
Menavan gli altri nella fera zuffa
Le mani intanto, e s’offendean fra loro.
Fecesi in questo mezzo il buon Apollo
Ad Enea presso, ed anco al valoroso
Eurimaco d’Antenore figliuolo,
Che vicin combattean nella battaglia
Fra loro, incontro a’ valorosi Greci;
Come appresso fra lor due buoi si stanno
Forti, e pari di età sotto ad un carro;
E nullo in quel conflitto avean riposo.
A coslor dunque il Dio, fatto simile
In tutto a Polimestore indovino
Cui partorìo del Xanto in sulla sponda
La madre, a Febo e sacerdote e vate,
In questa guisa ragionando disse:
Eurimaco, ed Enea, divina stirpe,
E’ non convien, che il valor vostro ceda
All’Argivo poter, perché né Ares
Stesso il feroce incontreravvi allegro,
Quando vogliate nella guerra pronti
Adoprar l’arme, perché a voi le Parche
Lungo filato han della vita il fine.
Detto in tal guisa, si meschiò tra, i venti,
E fattosi invisibile sparìo.
Conobber essi entro al pensier la forza
Del Dio, che immenso in lor valore infuse.
Moveasi furioso a lor nel petto
Il core, onde saltaro infra gli Argivi
Sembianti a fiere vespe, che adirate.
Orribilmente l’api van premendo,
Quando veggiono lor d’intorno all’uve
Avide già volar là nell’autunno,
O fuori uscir dalle rinchiuse celle:
Così de’ Teucri I figli entro i guerrieri
Achivi urtaro impetuosi; e liete
Eran del lor pugnar le Parche immani,
Ares rideane lieto, e voce orrenda
Ne diè Bellona, e risuonaron l’arme.
Quinci que’ due con le tremende mani
Grave facean degl’inimici strage,
Onde così cadean le genti a terra,
Come cade la messe al tempo estivo
Ardente, allor che i mietitor con fretta,
Compartiti fra lor del campo i solchi,
La van troncando con veloce mano:
Tal dalle destre di costor cadeano
Le copiose falangi, onde la terra
Copriano i morti, e l’inondava il sangue.
Nell’interno godea, cotanti uccisi
Mirando, la Discordia; ed essi un punto
Non ponean tregua alla spietata guerra:
Onde come le gregge, allor che appare
Il feroce leon, misera fuga
Volgean questi fra loro; ed all’acerba
Zuffa lutti costor davan le spalle,
Che intatta ancor la forza avean del piede.
D’Anchise il saggio figlio ognora a tergo
Era a’ nemici, e con la lancia dietro
Gli omeri ferìa loro: e d’altra parte
Facea l’istesso Eurimaco; e godea
Entro al petto immortal d’alto mirando
Di costor l’opre il sagittario Apollo.
Come se alcuno alla porcina greggia,
Ch’entri nel campo allor che son mature
Le biade, e con la falce ancora oltraggi
Lor non ha fatto il mietitore, istighi
Contro gagliardi veltri; essi mirando
Treman per la paura, e impetuosi,
Il cibo, che prendean, dato all’oblio,
Si donan tutti a vergognosa fuga,
E le vestigia lor premendo i cani
Laceran lor ferocemente il tergo:
Fuggono alto stridendo essi, e diletto
Del lor fuggir prende il signor del campo;
Così Febo godea nella battaglia
Fuggir vedendo a schiere il popol Greco.
Non chiedean più gli Dei prosperi all’opre
Di guerra, ma pregavan, che ne’ piedi
Lor dasser forza di fuggir veloci,
Stimando che ne’ piè fosse riposta
La speme del ritorno. E intanto loro
Eurimaco, ed Enea tutti con l’asta
Cacciavan furiosi, e in un con loro
Gli altri compagni. Allora un certo Greco,
O credendo soverchio alla sua forza,
O che ordinasse in guisa tal la Parca
Per apportargli morte, un destrier prese,
Che il tumulto fuggìa della battaglia,
Ed a forza il rivolse, e lo sospinse
Verso la zuffa per combatter contro
Agl’inimici, e prevenendo lui
Il poderoso Agenore, col taglio
Della bipenne d’ogni parte acuta
La polpa a lui dell’infelice braccio
Percosse, e facilmente al ferro lungo
L’osso cedè ferito, e per gli nervi
Passò senza ritegno: il sangue fuori
Uscinne zampillando, e per il collo
Si sparse del cavallo, ed ei repente
Cadde ivi morto e la gagliarda mano
Lasciò, che tenea ancor tenace, e salda
Stretto il pieghevol fren, sì come appunto
Facea vivendo; ed alta maraviglia
Portava altrui, poiché sanguigna ancora
Dalle redini giù (così volendo
Ares) pendea, terror portando seco
Agli avversarj; perché detto avresti,
Che volesse anco maneggiar corsieri,
E in guisa tal del suo signore estinto
Seco segni il destrier portava altrui.
Enea con l’asta Etalide trafisse
Ferendo lui sovra le reni, ed indi
Passò la punta l’ombilico, e trasse
L’interiora seco. Egli cadeo
Disteso a terra, e con le man la punta,
E le viscere preso alto stridendo,
Quinci aperta la bocca, al suolo affisse
I denti, e lasciar lui l’anima, e il duolo.
Fuggian gli Argivi spaventati, in guisa
Di buoi, cui faticando al giogo sotto,
Ed all’aratro pazienti punge
Col labbro acuto, del lor sangue ingordo
L’assillo, fieramente essi turbati
Fuggon, l’opra lasciando, e grave duolsi
Poscia il bifolco, che all’aratro intorno
Fatica prende, di lor male, parte
Paventa ancor, che dietro a lor l’aratro
Saltando, non gli tagli il ferro crudo
Il piede, e i nervi insieme a lui recida
Foggiano i Greci, e si dolea nell’alma
D’Achille il figlio, onde con alta voce
Così gridò per ritener le genti:
Miseri! e che temete? o chi vi caccia
A vili storni eguai, ch’empie di tema
Il nibbio? Or via, prendete animo, e core,
Poiché meglio è morir nella battaglia,
Che darsi a brutta, e paurosa fuga.
Diss’egli, e quei fermarsi, e dentro al petto
Presero audace, e coraggioso ardire.
Ed egli alti pensier chiudendo in seno
Urtò ne’ Teucri colla man crollando
La presta lancia, e seguian lui le genti
De’ Mirmidon, che forza a turbo eguale
Avea nel petto: cade pigliaro i Greci
Nella battaglia di vigore alquanto.
Ed esso di valore al padre amato
Simil, nella tenzone or questi or quelli
Togliea di vita; onde i nemici addietro
Si ritraean: sì come allor, che ferve
Il mar da’ colpi d’Aquilon percosso,
E dall’alto van l’onde inverso il lido;
Se un altro vento furibondo sorge,
E con impeto grave incontro spira,
Perso Borea le forze, il flutto spinto
Addietro fugge, ed abbandona il lido
In guisa tale i Teucri che poc’anzi
Impeto fean ne’ Greci, il divin figlio
D’Achille addietro risospinse alquanto,
Perché il poter del valoroso Enea
Dal fuggir riteneagli, e facea, ch’essi
Sostenessero andaci il grave assalto.
Dall’una, e l’altra parte avea Bellona
La battaglia adeguato, e non oprava
La gran paterna lancia incontro Enea
D’Achille il figlio, e in altra parte l’ira
Sfogando gìa, perocché la leggiadra
Teti portando a Citerea rispetto,
Lo sdegno, e il gran poter del suo nepote
Volgeva ad altro lato, ove pugnando
Struggea di genti numerose schiere;
Della strage di cui nella battaglia
Godean gli augei, di lacerar bramosi
Degli esunti mortai viscere, e carni;
E le Ninfe piangean figlio del chiaro
Simoenta, e del Xanto. Ed essi intenti
Eran pure alla zuffa. Ed ecco polve
Infinita eccitaro i venti fieri,
Che in un punto ingombrò l’aere infinito
Come suol fosca, ed importuna nebbia
Non si vedea la terra, e delle genti
Impediti eran gli occhi, e pur non meno
Avean battaglia, ed uccidean crudeli
Tutti color, ch’essi potean con mano
Apprender, benché a lor cari, ed amici;
Perocché uom non potea nella tenzone
Conoscer ben, se quei che si fea incontrto
Fosse nemico, oppur compagno, e dubbie
Eran le genti. E forse in un commisti
Atrocemente ivi periano uccisi
Tutti fra lor, nelle crudeli spade
Urtando, se dal ciel non porgea loro
Afflitti in guisa tal Zeus soccorso;
Perocché ei discacciò dalla battaglia
L’alta polve in disparte, e placò l’ira
Del turbine orgoglioso; ed essi pure
Combattean anco, e della pugna molto
Più lieve era il travaglio, essendo aperto
Qual nemico ferir, da cui ritrarsi.
Talor ivi incalzava il Greco stuolo
L’esercito de’ Teucri, e talor anco
Rispingeano i Troiani gli ordini Argivi:
Incrudelia la zuffa, e d’ogni parte
Nembi volavan di saette, come
Della neve fioccar soglion le falde.
Dalle cime temean de’ monti Idei
I pastor contemplando il gran tumulto;
E le mani elevando alcun di loro
All’etra volto agl’immortali Numi
Pregava, che i nemici in quella guerra
Rimanessero ad un tutti dispersi,
E che i Troiani una fiata pure
Potesser respirar dalla crudele
Battaglia, e libertà godere un giorno.
Ma non udiron lor gli Dei, volendo
Fare altramente il lacrimoso Fato,
Che nulla stima il poderoso Zeus,
Od alcun altro degli eterni Dei:
Che non si muta in nulla il suo decreto
Ed uomini, e città severo avvolge
Con filo inevitabile, ed è legge
Di lui, quanto quaggiù vien meno, e nasce;
E per lo suo voler, travaglio e guerra
I Teucri cavalieri, e i bellicosi
Argivi aveano, e si porgean fra loro
Morti ostinatamente, e crude stragi;
E nullo avean timor, ma risoluti
Gìan combattendo, perché sol l’ardire
È, che le genti alle battaglie adduce.
Or quando molti nella sabbia estinti
Giacquero, ardir maggior ne’ petti surse
De’ Greci, per voler della prudente
Atena, che vicina alla tenzone
Fatta, gli Achivi difendea chiedendo
Priamo ruinar l’alta cittade,
Che piangea ancor per Alessandro ucciso.
Allor l’inclito Enea da se medesma
Velocemente la divina madre
Fuor della pugna, e del mortal tumulto
Trasse, e molt’aere intorno a lui diffuse,
Perché non avea lui sortito il fato,
Ch’ei dovesse, pugnando in quella guerra
De’ Greci, morir sotto all’alte mura.
Quinci volle schivar Atena saggia,
Che ajutar di buon cor chiedea gli Argivi,
Affinché contro all’ordine fatale
Non uccidesse lui, poiché ned anco
A Ares perdonò, benché di lui
Tanto fosse più forte. Allora i Teucri
Star non poter nella battaglia saldi,
Ma ritirarsi sbigottiti addietro,
Perocché in loro urtar sembianti a fere
Fameliche gli Achei vaghi di guerra;
Onde uccisi i Troiani, s’empiano i fiumi
Di corpi estinti, e in piano, e nella polve
Cadeano folti e gli uomini, e i cavalli:
Molti carri sossopra eran rivolti
De’ cavalieri uccisi, e d’ogni parte
Molto sangue piovea di pioggia in guisa,
Girando crudo entro la pugna il fato.
Altri d’asta trafitti; altri di spada
Lungo il lido giacean, simili a’ legni
Dispersi, come allor che nella spiaggia
Del risonante mar, sciolti le genti
De’ faticosi chiodi i molti lacci
Spargon le lunghe navi, e quella selva
Onde contesto fu sublime legno:
Sen empie il lido spazioso, e in loro
Ondeggiando si rompe il negro flutto;
Tal nella rena, e dentro il sangue involti
Questi colà giacean, dato all’oblìo
Il lacrimoso, ed orrido tumulto.
Pochi fur quei, che la battaglia fera,
Potessero, fuggendo, entro alle mura
Della città schivar la gran ruina.
A questi fatti e mogli, e figli intorno
Dalle membra sciogliean l’armi sanguigne,
E di sordida gromma (incrostazioni, tartaro) infette, e sparse.
Quindi apportavan lor caldi lavacri,
E per ogni contrada ivan scorrendo
I chirurghi d’ intorno, e diligenti
Per risaldar le piaghe, entro alle case
Moveano il pie delle ferite genti.
Ad altri nel tornar dalla battaglia
Piangean le mogli, e i figliuoletti intorno,
E per molti di lor mancati in guerra
Altri faceano il lutto, e in questa guisa,
L’alma oppressi dal duol, stavan gemendo,
Né cura avean, nelle fatiche immersi,
Di volgersi alla cena. Ed alte intanto
De’ veloci destrier s’udian le grida
Non cessando essi d’annitrir chiedendo
Famelici il lor pasto. Ed in disparte
Gli Achei dentro alle tende, e nelle navi
Erano anch’essi intenti a simili opre.
Quando poi fuor dell’ondeggiante flutto
Dell’Ocean gli splendidi corsieri
Spinse l’Aurora, e si destar le genti,
Allor de’ forti Greci i guerrier figli
Parte di Priamo andaro all’alte mura,
Altri restar ne’ padiglioni in guardia
Delle ferite genti, affinché insulto
Fatto repente a lor, nemico stuolo
In grazia de’ Troiani miseramente
Non struggesse le navi. Intanto i Teucri
Co’ Greci dalle torri avean contrasto,
Ed aspra guerra s’accendea fra loro.
Contro le porte Scee combattea il figlio
Di Capaneo, e Diomede a’ Divi
Eguale: e sovra sostenean l’assalto,
Tenendo lor con le saette addietro
E co’ sassi Deifobo guerriero,
Polite il forte, e gli altri lor compagni.
Percossi rimbombar gli scudi, e gli elmi
S’udiano, e difendean dall’aspra morte,
E dal fato crudel le genti armate.
Presso alle porte Idee pugnava il figlio
D’Achille, e seco alle fatiche pronti
I Mirmidoni avea di guerra mastri.
Costor tenea dalla battaglia lunge
Con infinito numero di strali
Pronti, Eleno, ed Agenore il feroce,
Avvalorando alla battaglia i Teucri,
Che per se stessi della patria amata
Di buon coraggio difendean le mura.
Contro le porte poi, che verso il piano
S’aprian per girne alle veloci navi
Avean fatica pertinace, e dura
Ulisse, ed Euripilo, e lor dall’alto
Giro addietro spingea pietre spargendo
Enea, che gran pensier chiudea nel petto.
Colà, ‘ve ‘l corso ha Simoente, duro
Tra vaglio sostenea Teucro feroce.
E in cotal guisa in questa, e in quella parte,
E questi, e quegli aveano affanno, e briga.
Allor quei valorosi, che del saggio
Ulisse combattendo eran compagni,
Esortati da lui, che all’arti avea
L’ingegno avvezzo, alla tenzon di Ares
Prepararo gli scudi, e sovra i capi
Gl’inalzaron conserti in un fra loro,
Ed adattati in un momento insieme,
Talché diresti in un formato un tetto
D’albergo, denso, e ben composto in guisa,
Che dissiparlo, o penetrarlo indarno
Chieggia di vento impetuosa forza,
O versata da Zeus orrida pioggia.
In guisa tal l’Argoliche falangi
Accomodar le consertate targhe,
Tutti con un volere, ed una forza
Le tenean chiuse, ed adattate insieme.
D’altra parte i Troiani gittavan sassi
Lor sopra, che non men, che se percossa
Avesser dura pietra, indi saltando
Rotavan per la terra, e molte lance
Molt’aste acute, e dolorosi dardi
S’infìngean negli scudi; altri nel suolo
Rimanean fìtti; ed altri in altra parte
Con gran frequenza, rintuzzati i ferri
Gìano a cader, senza far colpo, indarno.
Essi l’orrendo suon non temean punto;
Né più cedean, che fatto avriano udendo
Il mormorìo delle cadenti stille:
Chiusi, e stretti fra lor concordi girne
Sono le mura, e neppur un di loro
Fu che restasse addietro; uniti, e densi
Gìan, come fosca nube, cui dall’alto
Aere folla discende a mezzo il verno
Il figlio di Crono. A tutto corso
La falange movea, sorgendo intanto
Grave rumor dagli agitati piedi:
Dall’altra parte l’elevata polve
Poco sopra la terra i venti dietro
Gìan sospingendo alla corrente squadra
Sotto a scudi: s’udìa bisbiglio intanto
Confuso, e incerto, come suol dell’api
Entro alle celle il mormorìo sentirsi:
Gran copia uscìa di fiato, e d’ogni intorno
Si diffondean della spirante schiera.
Altissimo piacer sentìan gli Atridi,
E fra se gloriosi eran mirando
Di guerra il forte indissolubil tetto.
Uniti spinser essi, e impetuosi
Urtar del divin Priamo entro le porte
Fermi di fracassar con le taglienti
Accette l’alto muro, ed alla terra
Indi gittar, da’ cardini divelte,
Le porte; e speme avean sì bel pensiero
Di trarre a fin: ma non bastar le targhe
Né le securi, perché Enea gagliardo
Con ambedue le man di tutta forza
Lanciò soverchia pietra, e crudelmente
Cotanti ne tritò, quanti ne colse
Sotto gli scudi: come avvien se mentre
Sotto una balza le caprette al pasco
Intente son, dall’elevata rupe
Spiccasi un masso a un tratto, e giù rotando
Di lor qualcuna opprime, alto spavento
Ne prendon l’altre, che pascean d’intorno:
Cotal gli Argivi sbigottirsi; ed egli
Non lascia v’anco di lanciar su d’alto
Nembi di pietre, onde si sciolse in tutto
Delle falangi, e dissipossi il gruppo.
Siccome allor, che negli eccelsi monti
Stansi appoggiate ad una punta insieme
Due minacciose rupi, e Zeus d’alto
Col tuon le spezza, e con lo strale ardente:
Fuggon al cader lor pastori, e insieme
Qualunque ivi animal d’intorno alberga;
Così tremaro allor de’ Greci i figli,
Quando velocemente Enea disperse
Quel fabbricato di robusti scudi
Coverchio di battaglia; perché a questi
Forza infinita allor concesse il cielo,
Talché non osò alcun poscia di loro
Pur di volger ver lui pugnando il guardo,
Perocché intorno alle robuste membra
Sue fiammeggiavan l’arme al par del lampo.
L’orrendo Ares a lui stavasi appresso
Di caligine intorno il corpo cinto
Drizzando tatti i dardi suoi, che seco
Grave a’ Greci adducean paura, e morte.
Combattev’egli, come già dal cielo
Zeus pugnò, quando commosso ad ira
Orribilmente dissipò le schiere
Superbe de’ giganti, e la gran terra
Scosse dall’imo, onde tremaro insieme
E Teti, e l’Oceano, e il cielo, ed anco
All’Impeto di lui timor commosse
Tutte ad Atlante, ed agitò le membra:
In guisa tale in quel certame Enea
Pugnando distruggea l’Argive squadre.
Per tutto era veloce, e d’ogni parte
Ferìa del muro i suoi nemici irato.
Gittava ei tutto ciò, che alla sua mano
Faceasi incontro, alla battaglia inteso.
Perocché molti ordigni aveano insieme
Per difesa di guerra intorno al giro
Posto del muro i bellicosi Teucri:
Onde in sua forza furiando Enea
Rispingea di nemici un largo stuolo:
Divenian coraggiosi appresso a lui
I Teucri, e d’ogni intorno alla cittade
Crudel tutti offendea strage, e ruina.
Molti cadean de’ Greci, e molti insieme
De’ Teucri, e si sentian da questa, e quella
Parte gran voci. Avvalorava Enea
I Troiani guerrier, loro esortando
A pugnar per la patria, e per li figli,
E per se stessi con allegro core.
Dall’altra parte del feroce Achille
Esortava il figliuol le Greche squadre
A non abbandonar l’inclite mura
Di Troia anzi d’averla, e presa, ed arsa.
In guisa tal fra dolorosa, e fera
Guerra occupati ne passar pugnando
Quant’era luogo il giorno, e non v’avea
Dalla battaglia ancor riposo alcuno,
Chiedendo questi con ardente voglia
Distrugger la cittade, e quei salvarla.
Aiace intanto dall’ardito Enea
Lontan, co’ Teucri combattea, facendo
Col saettar di lor ruina, e scempio:
Perché di sue quadrella altro volava
Dritto per l’aere, ed altro con l’acerba
Punta or questo or quel togliea di vita.
Onde i Troiani di sì grand’uom la forza
Temendo, si partian dalla battaglia,
Senza i suoi difensor lasciando il muro
Quinci un de’ suoi scudier più valoroso
Di tutti gli altri Locri, e prode in guerra
Alcimedonte, dal valor commosso
Del suo signor, parte dal proprio ardire,
E dall’audace giovanezza spinto,
Avida di pugnar, con presto piede
Una scala salì, per aprir duro
Alle sue genti alla cittade il varco,
E posto al capo suo lo scudo (forte
Schermo contro l’offese) alto montando
Il cammin periglioso, e il cor ripieno
D’intrepida virtude, or con la mano
Già l’aspra lancia maneggiando, ed ora
A grado a grado sormontando in alto,
In guisa tal costui l’aeria strada
Pian pian già su portando. E fora certo
Stato a’ Teucri dolor, se lui, che omai
Sormontava le mura, e nella terra
Stendea il primiero, e insieme ultimo sguardo,
Non assalia dall’alto giro Enea.
Perocché ascosa a lui, benché in disparte,
Non era la battaglia. Onde percosse
Nel capo lui con smisurata selce,
La qual seguendo la terribil possa
Del forte lanciator, la scala franse:
Ond’ei dall’alto giù cadeo volando,
Come da nervo disserrato strale:
La fera morte l’arrivò, mentr’egli
Giù cadendo rotava, e l’infelice
Spirto all’aere mischiossi, anziché giunte
Fosser le gravi membra al durò suolo.
Precipitò sol con l’usbergo a terra,
Perché lunge da lui cader divise
La grav’asta, il fort’elmo, e il largo scudo.
Trasse dolente il popolo de’ Locri
Un grido, allor che lui viddero involto
Nell’orrenda ruina; perché sparse
Fuor dal comato capo e quinci, e quindi
Apparean le cervella, e l’ossa tutte
Disciolte, e frante, e di sanguigno smalto
Imbrattate le membra. Allora il figlio
Del divino Peante, in sulle mura
Enea vedendo furiare in guisa
Di fera belva, una saetta spinse
Verso l’inclito eroe, né fallò il colpo,
Ma non passò l’impenetrabil scudo,
Né il bel corpo di lui ferir poteo;
Perché l’impeto suo rivolse altrove
Citerea madre, e l’impedì la targa;
Talché null’altro feo, che la bovina
Pelle graffiare alquanto. E pure al suolo
A vuoto non cadeo, perché Menonte
Fra lo scudo percosse, e l’elmo ornato
Di come di cavallo. Il qual cadeo
Dalla torre così, come ruina
Dall’alta rupe una selvaggia capra,
Cui fere il cacciator col crudo strale:
Tal cadendo quest’uom si stese, e tosto
La divin’alma si partì da lui.
Al morir di costui, che suo compagno
Era, di grave sdegno Enea s’accese,
Ed un sasso avventando il buon Tossechine
A morte diè di Filottete amico:
Spezzogli il capo, e con l’elmetto insieme
Tutte l’ossa gli franse; onde la cara
Vi la da lui si sciolse. Il che mirando,
Così con alto e risuonante grido
Dell’illustre Peante il figlio disse:
Enea, forse a te par dentro a te stesso
D’essere un valent’uom, mentre combatti
Su dalle torri, onde le donne ancora
Imbelli osan pugnar con gl’inimici.
Or se tu sei da nulla, esci dal muro
In campo armato affinché tu conosca
Il figlio di Peante, e di lui saggio
Faccia con l’asta insieme, e con gli strali.
Così diss’egli, e non rispose a lui,
Benché voglia n’avesse, il figlio ardito
D’Anchise, perché ognor crescea la mischia
Alla cittade intorno, ed alle mura
Più pertinace, ed aspra; e non avea
Requie il crudo travaglio, e benché lungo
Tempo gli avesse il guerreggiare afflitti,
Non sciogliean la tenzone, anzi crescea
L’aspro lor faticar senz’alcun frutto.