Biblioteca:Quinto Smirneo, Posthomerica, Libro X

Erano anco i Troiani fuor delle mura
Della città di Priamo, armati insieme
Co’ carri, e velocissimi destrieri.
Perocché ardendo i già caduti in guerra
Dell’Argolico stuol temean l’insulto.
Cui poscia che mirar ver la cittade
Muover veloce impetuoso il piede,
Con gran prestezza accumular la terra
Sovra gli estinti, e fecer lor sepolcro:
Perché soverchio in lor potea la tema.
A costor sì dolenti, e mesti il core,
Così parlò Polidamante, il quale
Sovra tutt’altri era prudente, e saggio:
Amici, omai non tollerabilmente
Contro noi furiando arrabbia Ares;
Che dunque non cerchiam, se a questa guerra
Possa trovarsi pur qualche rimedio?
Or non vedete voi, che ognor più forza
Vanno acquistando incontro a noi gli Argivi?
Su dunque via, nell’intagliate torri
Saliamo, ed ivi dimoriam pugnando
E giorno, e notte, infinché, ovvero i Greci
Ritornino di Sparta ai larghi campi,
Ovver quì assisi intorno al muro, il tempo
Menino neghittosi, e senza gloria.
Perché già non saran, cred’io, potenti
Di romper l’alto giro, ancorché molta
Vi spendano fatica, perché l’opre
Già non son degli Dei, debili, e frali.
Né mancheranno a noi bevanda, ed esca:
Perché del ricco Priamo entro l’ostello
Sempre v’ha vettovaglia in tanta copia,
Che a molti basterìa per lungo tempo,
Ed abbondantemente al vitto, quando
Venisse anco chiamato a nostra aita
Tre volte tanto più copioso stuolo.
Così diss’egli, e in questa guisa allora
S’oppose a’ detti suoi d’Anchise il figlio:
Polidamante, or come dir te ponno
Le genti saggio, se consigli, e vuoi,
Che noi soffriam nella città rinchiusi
Di questa guerra una continua pena?
Non staran qui come tu stimi, lenti
Gli Argivi, ed oziosi, e mesi ed anni,
Ma noi ceder mirando, e ritirarci,
Faranno impeto in noi con maggior forza;
E certo fia grave tormento il nostro
Il vedersi morir nel patrio muro,
Se lungo il tempo fia di quest’assedio:
Perocché alcun non sia, che a noi, da Tebe
Di Cerere conduca il dolce frutto,
Quivi entro chiusi, e da Meonia il vino,
Talché miseramente i nostri giorni
Benché sì ne difenda il forte muro,
Vinti qui finirem dall’aspra fame.
O dunque voglia abbiam di liberarci
Da morte acerba, e dalle crude Parche,
O forza è pur, che con travaglio, e pena
Con infelice fin perdiam la vita.
Armianci tutti, e noi co’ nostri figli,
E i venerandi padri opriamo il ferro.
Zeus n’aiterà, poiché da lui
Principio tragge il nostro sangue illustre.
E se pur fia che in odio suo moriamo
Gloriosi morrem, perocché è meglio
Per la patria pugnando il trovar morte,
Che miseri morir senza far nulla.
Disse ed i detti suoi secondar tutti
Con favorevol grido, e quindi a gara
Tosto s’armar di scudi, e lancie, ed elmi.
Di Zeus infaticabile mirando
Gli occhi stavan dal cielo, i Teucri armarsi
Contro i Greci in battaglia, e desioso,
Che seguisse fra lor crudel conflitto,
E di questi e di quelli accendea i cori
Perché dovea Alessandro in quel certame,
Per la mogliera affaticando in arme,
Restar per man di Filottete ucciso.
Questi in un luogo la Discordia addusse
La zuffa preparando, agli occhi altrui
Celata, poi che sanguinosa nebbia
Le ricopria le spalle, iva costei
Or nel campo Troianio, or nell’Achivo
Girando, e commovendo allo contrasto.
Il terrore, e l’orror l’erano a tergo
Feri ministri, alla feroce suora
Del padre lor pregio, ed onor penando.
Ella nel moto impetuoso gìa
Di piccioletta in pria ognor crescendo;
L’arme avea di diamante, asperse intorno
D’immondo sangue, e gìa crollando l’asta
Crudel per l’aere: a’ piè le si movea
Sotto la fosca terra, ed essa orrende
Dalle fauci spargea faville, e fiamme;
Dava altissime voci, alla battaglia
I soldati incitando; ed essi pronti
Alla tenzon movean: tal fiera Dea
Era lor duce alla terribile opra,
Di questi era il rumor simile a quello
Del vento, allor che impetuoso spira
Nel cominciar di primavera, quando
Si veston già l’eccelse piante, e i boschi
Di tenerelle frondi: od a quel suono,
Che suol destar fra gli aridi virgulti
Tremando il fuoco ardente: ovvero a quello,
Che rauco s’ode, quando il flutto immenso
Da Strepitoso vento è desto all’ira,
E stride altero sì, che le ginocchia
La tema scuote a’ miseri nocchieri:
Così nel moto di costor veloce
Grave fremea la spaziosa terra.
Fra lor gittossi la Discordia intanto,
E questo e quello alla battaglia spinse.
Il primiero Enea fu, che fra gli Argivi
Uccise Arpalion, che d’Arizelo
Nacque, e di lui nella Beozia terra
Anafinome sgravossi, ed egli vago
Di pugnar per gli Achei, sen venne a Troia
Con Protenore il divo. Ora costui
Sotto il tenero ventre Enea ferendo,
Spogliò dell’alma, e della dolce vita.
Ialo indi atterrò presso a costui
Figlio del buon Tersandro, entro la gola
Con acuto quadrel percosso; questi
Prodotto fu nella marina Creta
Dalla Diva Aretusa in riva all’acque
Del Leteo fiume; onde gran doglia al core
Sentinne Idomeneo Cretese duce.
Di Pelide il figliuol quindi con l’asta
Paterna in un balen dodici eroi
Di vita sciolse, e Cebro fu il primiero,
Arione il secondo, e dopo questi
Pasiteo, Ismino, Imbrasio, e Chidio, e Flege;
Mneseo con questi, ed Eunomo insieme,
Amfinomo con lor, Fasi, e Galeno,
Galeno, il qual di Gargano sublime
Abitator fra’ bellicosi Teucri
Di tutti era il migliore; e venne questi
Con abbondante, e ricco stuolo a Troia;
Perocché molti e preziosi, e grandi
Doni promessi avea Priamo a lui
Da Dardano disceso, ed era ascoso
Il proprio fato al misero, dovendo
Egli morir nella battaglia rea,
Pria che dato a lui fosse il portar fuori
Dall’albergo di Priamo i doni illustri.
Allor la fera Parca incontro spinse
Eurimene agli Achei, del coraggioso
Enea compagno, e gran valor dal petto
Destogli, affinché molti avendo ucciso,
Egli sortisse poi l’ultimo fato.
Uccidea questo, e quel simile a fera
Spietata, onde da lui, che sull’estremo
Del viver suo senza stimar periglio
Grand’impeto facea, prendean la fuga.
E certo avria quel dì mirabil opra
Fatto costui pugnando in quell’assalto,
Ma si stancaro a lui le mani, e il ferro
Rintuzzossi dell’asta, e non poteo
Più l’elsa giunta a se tener la spada.
Cui poscia spezzò il fato, e con la lancia
Nello stomaco lui Mege ferìo
Talché sgorgò fuor della bocca il sangue,
E con la piaga in un morte s’aggiunse.
Costui caduto, i due scudier d’Epeo
Deileonte, ed Amfion tentaro
Di spogliar lui dell’arme, onde il feroce
Enea, mentre all’ucciso erano intorno,
Miseramente ad ambedue diè morte,
Come se alcun, mentre importuno insulto
Fan le vespe d’autunno alle dolci uve,
L’uccide sui racemi, onde pria morte
Han, che possan gustar soave il frutto:
Tal questi uccise Enea, priachè all’estinto
Potessero levar predando l’arme.
Il figlio di Tideo Menonte uccise,
Ed Anfinoo in un perfetti eroi.
Pari Demoleonte infra gli estinti
Mandò d’Ippaso figlio, il qual primiero
Nella terra Laconia ebbe l’ostello
Non lunge all’acque del profondo Eurota.
A Troia venne questi, e seguì il duce
Menelao bellicoso: ora a costui
Diè morte Pari, avendo lui trafitto
Con un quadrel sotto la destra poppa,
Sì che da’ membri suoi l’alma fuggìo.
Teucro l’inclito Zechi uccise figlio
Di Medon, che abitò Frigia copiosa
Di gregge, ov’è delle comate Muse
Il sacro speco; ove la Diva Luna
Dall’alto cielo Endimion mirando
Nel sonno involto appresso a’ buoi discese
A lui; sì fero a lei forza facea
L’amor, benché immortal, del giovanetto.
E sonvi ancor del luogo, ov’essa giacque
Segni sotto le quercie, intorno a cui
Delle vacche diffuso appar nel bosco
Il latte, e fino ad or le genti vanno
Lui contemplando, ed a colui, che il mira
Alquanto da lontan, bianco rassembra
Latte: ma se a lui presso uom muove il piede
È candid’acqua, che scortata alquanto
Nel corso indura, e si converte in marmo.
Assaltò Mege di Fileo figliuolo
Alceo con l’asta, e trapassando a lui
Il cor, che sempre palpitando muove,
Fé, che la verde età da lui si sciolse;
Né più raccolser lui dal lacrimoso
Conflitto, ciò bramando, i suoi parenti
Miseri, Filli bella, e il suo consorte
Margasio, che vicin menar la vita
Del chiaro Arpaso all’onda, ove il Meandro
Col terribil suo corso, e strepitoso
Colmo d’acque infinite, e gonfio d’ira
Il flutto avvolge impetuoso, eterno.
Il figlio d’Oileo nell’incontrarsi
Nel forte Scilaceo fedel compagno
Di Glauco, ferì lui poco di sopra
Lo scudo, e trapassò la punta acerba
Per l’ampia spalla, e zampillò scorrendo
Il sangue per lo scudo; e non l’uccise
Però; poiché prescritto il dì fatale
Gli era nel far ritorno appresso ai muri
Della sua cara patria. Perché, quando
Ilion desolata ebber gli Achei,
Dalla guerra campato, in Licia venne
Solo, e senza compagni, e lui vicino
Alla città, le femmine raccolte
Chieser de’ figli, e de’ mariti, ed egli
Di tutti narrò lor l’ultimo fato;
Ond’esse fatto a lui d’intorno cerchio
L’ucciser con le pietre, e non godeo
Dell’aver fatto al patrio suol ritorno;
Ma grave sospirando, i sassi a lui
Fecer coverchio, e misero sepolcro
Gli fur gli stessi dardi appresso al bosco
Ed alla statua di Bellerofonte
Il forte. Or quivi Scilaceo si giace
Alla Titania presso illustre rupe.
Ma questi ancor che il dì fatal morendo
Sortito avesse, alfin, siccome piacque
Al chiaro figlio di Leto, in guisa
D’un Dio viene onorato, e la sua gloria
Non cade mai per aggirar di tempo.
Il figlio di Peante appresso a questi
Dejoneo conquise, ed Acamante
D’Antenore figliuol nell’arme esperto:
D’altri soldati ancor copiosa turba
Ancise, furiando infra i nemici
All’indomito Ares eguale, ed anco
Al risonante fiume, il qual gonfiando
Spezza le lunghe sponde, allor che scende
Impetuoso da lontana rupe;
E benché sia per se rapido, eterno,
Misto s’avvolge alla cadente pioggia:
Talché neppur gli scogli stessi alteri
POSSON lui ritener, che immenso freme;
Tal del chiaro Peante il figlio ardito
Non era alcun, che sostener di vista
Osasse pure, od appressarsi a lui,
Perché chiudea nel petto estrema forza,
E l’arme si vestìa del valoroso
Alcide ornate e belle; entro al cui cinto
Lucido si vedean crudi orsi audaci,
Orride linci, e di terribil vista
Sotto le ciglia i pardi, appresso a cui
Vedeansi lupi arditi, e in un di bianche
Zanne armati i cinghiali, e i leon forti,
E questi sì ben finti apparean quivi,
Che a vive fere in tutto eran sembianti,
Vedeansi appresso a queste intorno al giro
Le guerre espresse, e le crudeli stragi;
Tante cose, e sì varie avea d’intorno
Il bel cinto scolpite; e d’altre appresso
Ornata si vedea la gran faretra.
Ivi di Zeus il figlio era distinto
Ermes snello, e sovra il piè veloce,
Il qual d’Inaco là sovra le sponde
Uccideva il grand’Argo, Argo, in cui gli occhi
Donavansi alternando al sonno in preda.
Era ivi anco Fetonte, il qual dal carro
Fulminato del Po cadea nell’onda:
Ardea la terra, e. quasi vero al cielo
Da lei combusta alzar vedeasi il fumo.
D’altra parte uccidea Perseo divino
L’orribile Medusa, ove le stelle
Vansi a lavar nell’acque, ove l’estremo
Confine è della terra, e le sue fonti
Ha l’Oceán profondo, in quella parte
Ove cadendo il Sol la notte sorge.
Eravi ancor con infrangibil laccio
Dell’invitto [[Giapeto]] il gran figliuolo
Pendente giù del Caucaso sublime
Dall’alte rupi, e il rinascente core
A lui squarciava l’aquila vorace
Col rostro, ed ei dolente apparea in vista.
Or queste cose avea l’inclita mano
Di Vulcan fabbricato al forte Alcide,
Il qual lasciolle al figlio di Peante,
Ch’era di lui familiare amico.
In queste dunque altero, e glorioso
Già le genti atterrando, infin che Pari
Pure assaltollo, con le man trattando
Dolorose saette, audace, e l’arco
Ritorto: perché questi avea vicino
Omai l’ultimo giorno. Egli dal nervo
Disserrò la saetta, il qual sonando
Con impeto cacciolla, e non a vuoto
Gli fuggì dalla man; sebben da lui
Il colpo errò, che si distorse alquanto;
Ma Cleodoro illustre un poco sopra
Alla mammella colse, e passò il dardo
Fin alla spalla, perché il largo scudo
Ei non avea, che difendesse lui
Dalla grave ruina, e così nudo
Era fuggito, perché A lui col taglio
Della ferrata lancia avea disciolto
Polidamante recidendo i lacci,
Onde pendea dagli omeri, lo scudo;
E così ritirato ei combattea
Con la terribil asta, allor che in lui
Si fisse altronde spinto il crudo strale.
Perocché in guisa tal dovea dar morte
Al buon figliuol di Lerno il duro fato,
Cui partorìo nella felice terra
Amfiale di Rodi. Or poiché ucciso
Ebbe Pari costui col fero strale,
Allor del buon Peante il forte figlio
Tendendo in un balen rapido l’arco,
In questa guisa a lui parlò gridando:
Oh! cane, ecco ti uccido, ecco ti porgo
Morte crudel, poi ch’hai bramar potuto
Di pareggiarmi e di venirmi a fronte.
E quindi pur riposo avran coloro,
Che sol per tua cagion nella battaglia
Tanto mal van soffrendo, e forse sia,
Che cessi al morir tuo cotanta strage,
Poiché da te l’altrui ruina pende.
Detto in tal guisa, il ben ritorto nervo
Vicin si trasse alla mammella, e il corno
Fé curvo, e sovra lui drizzò l’acuto
Quadrello: il ferro, cui per la gran forza
Di lui, che lo rapìa, sovrastò poco
All’arco, indi scoccando, alto rumore
Ne diede il nervo al dipartir da lui
Lo strepitoso, e impetuoso dardo.
Non errò l’uom divino, e non si sciolse
L’alma a quell’altro, che animoso ancora
Sostenne il colpo, perché appieno in lui
Lo stral non cadde, anzi fuggendo appena
Sol gli graffiò la delicata pelle.
Quinci di nuovo il figlio di Peante
L’arco suo tese, e prevenendo l’altro
Con l’acuto quadrel di sopra alquanto
L’anguinaglia ferillo, e non sostenne
Egli di pugnar più, ma via fuggissi
Ratto, sì come il can dal leon fugge
Timido, cui feroce ei cacciò dianzi:
In guisa tal colui da mortal doglia
Trafitto il cor, dalla tenzon partissi.
Intanto combattean confuse, e miste
Le genti, e s’uccidean fra loro a prova,
E di color nel sangue aveasi guerra,
Che quinci, e quindi eran caduti estinti.
Sovra i morti distesi erano i morti
Confusamente, a gocciole simili
Di minuta rugiada, o qual gelata
Grandine, o neve pur, che in larghe falde
Giù cade allor, che per voler di Zeus
Gli eccelsi monti, e le sfrondate selve
Il vento occidental cosparge, e il verno:
In guisa tal da questa, e quella parte
Da cruda man percossi eran distesi
L’un sovra l’altro in monti i corpi uccisi.
Miseramente sospirava intanto
Pari, cui dea la piaga aspro tormento.
Onde a lui, che altamente iva gemendo
I medici discreti intorno fersi,
Poscia nella città tornaro i Teucri,
E i Greci tosto alle cerulee navi,
Perché la negra notte alla battaglia
Diè posa, e la stanchezza a’ membri tolse,
Della fatica diffondendo sopra
Alle palpebre il sonno almo restauro.
Ma già non prese il sonno il mesto Pari
Fino all’Aurora, perché alcun rimedio
Ritrovar non poter, benché bramosi,
I medicanti ancorché molti, e molti
Gisser tentando, che giovasser lui:
Perocch’era fatal, che dalla mano
D’Enone avesse morte, ovver le Parche
Schivasse, quando ei se n’andasse a lei.
Ond’ei prestando a’ savj detti fede
Andovvi contro a grado, e pur la dura
Necessitade a lei l’addusse avante.
Faceansi nell’andare a lui d’intorno
Meste voci spargendo augel funebri
Volandogli a sinistra, ed ei talora
Temea vedendo lor, talor stimava,
Che spiegassero invan la voce, e il volo.
E pur questi dal duol predicean lui
Infelice ruina. Or poiché giunto
Alla magione ei fu d’Enone illustre,
Tutte nel veder lui stupir le ancelle,
Stupissi Enone stessa, ed egli a’ piedi
Tosto gittossi della donna avanti
Livido tutto fuor, perché il veleno,
Che fino alle midolle era disceso
Nell’ossa, il bel color guasto gli avea,
E intanto dal dolor saldo, e pungente
Sentia ferirsi, e trapassarsi il core.
Sì come tale, a cui febbre maligna,
Ed aspra sete il cor nel petto incende,
Arido e debil vien, mentre in lui ferve
L’ardente bile, e sull’asciutte labbra
La stanca anima sua volando brama
Con immenso desio la vita, e l’acqua;
Tal nel petto a costui l’anima ardea
Dal dolor vinto; che languendo alfine
Questi appena formò debili accenti:
O degna d’ogni onor, donna gentile,
Deh non voler mostrarti a me nemica,
A me, cui fieramente afflitto vedi,
Perché vedova te lasciassi, e sola
Già nell’albergo, perch’io ciò non volli,
Ma sforzò me l’inevitabil fato,
Che ad Elena mi spinse. Ah! così pria
Che seco accomunato avessi il letto,
Versata avessi io l’anima, e la vita,
E provato il morir fra le tue braccia!
Or per gli Dei ti prego, a cui è nel cielo
Eterno albergo, e pel tuo letto ed anco
Per l’amor marital, che tu benigno
Ver me l’animo pieghi, e l’aspra doglia,
Ponendo sopra alla crudel ferita
Salubri medicine, acqueti, e sani;
Poiché è fatal, che da te sola, quando
Ciò non ricusi, aggia il mio mal rimedio:
Pende dal tuo voler libero in tutto
Ritormi a morte, o pur lasciarmi a lei.
Miserere di me, rimedia tosto
Alla forza crudel delle saette,
Che portan presta morte, onde anco torni
Dell’alma in me il vigore, e delle membra.
Deh non voler, dell’empia gelosia
Membrando ancor, lasciar, che sì ferito
Dall’acerbe saette avanti a’ tuoi
Piè morto io caggia, onde tu poi le Lite
Co’ sacrificj abbi a placar, che sono
Del gran Zeus tonante anch’esse figlie,
Che incontro agli aspri, e rigidi mortali
Accese d’ira, alfin destano avverse
L’orride Erinni, e degli Dei lo sdegno.
Su dunque, donna, non tardar, ti prego,
A discacciar da me l’orride Parche
Ancor che per follia già t’abbia offeso.
Così diss’egli; e la turbata mente
Di lei non persuase, anzi lui mesto
In cotal guisa rampognò severa:
Per qual cagion sei tu venuto avanti
A me, cui già lasciasti entro l’albergo
In grave involta, e disperato pianto?
E questo sol per la Tindarea donna
Infausta, cui sì di giacere appresso
Eri lieto, e giojoso; eh ciò facevi
Certo, perocché a me primiera moglie
Tua, di gran lunga in leggiadrìa sovrasta;
E quant’uom dice, unqua invecchiar non puote.
A lei vanne; lei prega, e lascia omai
Di sparger meco più questi di pianto
Misti lamenti tuoi, queste querele.
Che se di leonessa e forza e core
Avessi, le tue carni a brano a brano
Andrei squarciando, e suggereiti il sangue,
Sì crudelmente mi trattasti, dietro
Muovendo folle a’ tuoi desir perversi.
Misero! ov’ora è Citerea la bella,
Ov’è Zeus immortal, che non ha cura
Di te genero suo? dove son questi
Ch’eran tuoi difensori? Or via lontano
Vanne da mia magion, dolente scempio
Degli Dei, de’ mortal, perché per tua
Cagion, profano, anco gli Dei medesmi
Sentito han doglia, altri di lor perdendo
I figli, altri i nipoti. Escimi dunque
Da questo albergo mio, vattene a quello
D’Elena tua, dove le notti, e i giorni
Nel letto giacerai, versando strida
Acerbamente dal dolor trafitto,
Finché l’aspra tua doglia ella risani.
Detto così, lui dal suo tetto amato
Fuor mandò lacrimoso, e non sapea
Insana il fato suo, che la sforzava,
Lui morendo, a morire, e per la stessa
Via veloce a seguir le fere Parche:
Poiché così di Zeus avea il destino
Prefisso. Ora costui, mentre sen gìa
Per le selvose, ed alte cime d’Ida
Miseramente zoppicando, e mesto,
Vide Era, e gran piacer ne prese
Dentro l’immortal petto, assisa in cielo
Colà, ‘ve giace il bel giardin di Zeus.
Quattro vicino a lei sedeano ancelle,
Cui già dal Sol la rilucente Luna
Gravida resa partorì nel cielo,
Eterne tutte, e non simil fra loro,
Poiché d’aspetto son varie, e distinte.
Col Monton l’una il dolce tempo adduce,
L’altra la messe in un col Granchio indora
La terza ha l’uve, e le bilance libra,
Dell’altra il Capro,e il freddo verno è a cura.
Divisa in quattro parti ognor trascorre
La mortal vita, che da queste viene
Alternamente ministrata, e poscia
D’ogni cosa have in ciel Zeus il governo.
Queste fra lor gìan ragionando, come
Gran cose dentro a se rivolge il fato
Acerbo infauste, d’Elena apportando
A Deifobo nozze, e in un lo sdegno
Dicean d’Eleno fero, e l’ira cruda
Per cagion della donna, e come lui
Devean co’ Teucri irato i Greci figli
Per gli alti monti alle veloci navi
Conducer seco, indi venian dicendo,
Che pe’ consigli di costui devea
Del forte Tideo il figlio, e seco Ulisse,
Oltrepassando all’elevato muro,
Ad Alcatoo apportar morte crudele;
E poscia volontaria indi Atena
Saggia rapir, ch’era difesa, e scampo
Della cittade, e del Troianio stuolo.
Perocché degli Dei non potea alcuno,
Benché co’ Teucri alteramente irato,
Di Priamo la città ricca, e potente
Strugger, mentr’ivi intatta era la Dea.
Né già di lei l’immagine immortale
Scolpita avea col ferro umana destra,
Ma Zeus stesso di Crono figlio,
Di Priamo nobil re, copioso d’oro
Nella città gittata infin dal cielo.
Or queste cose tutte, ed altre assai
Con l’ancelle Era venia dicendo.
E Pari intanto per le cime d’Ida
Lasciò lo spirto, onde veder lui poscia
Elena non poteo, tornando a lei.
Dirottamente lui pianser le Ninfe
Per la memoria rivolgendo ancora,
Siccome egli con lor fanciullette anco
Nelle dolci adunanze iva scherzando:
Pianser con quelle insieme anco i pastori
Presti di bovi, afflitti, e sospiraro
Le valli. E intanto alla infelice moglie
Di Priamo sfortunato un buon bifolco
D’Alessandro narrò l’acerbo caso.
Tutta ella nell’udir tremò nell’alma,
Dalle membra il vigor fuggille, ed indi
Queste voci versò compagne al pianto:
Sei morto, ahi! dolce figlio, e duolo a duolo
M’hai lasciato immortal, poiché il più forte
Eri de’ figli miei, trattone Ettore:
Onde te mesta piangerò mai sempre,
Finché movrassi entro al mio petto il core.
Non senza, certo, la divina voglia
Tante cose soffriamo; un certo fiero
Destino avvien, che tanto mal ne apporte,
Cui ned, oh! pur sol col pensier veduto
Avessi in prima, anzi di vita fuori
Uscita fossi, ha già gran tempo, quando
In pace mi sedea lieta, e felice.
Or altre cose, e viepeggiori io temo,
Di veder anco i cari figli estinti,
E data insieme la città distrutta
Dagli animosi Greci a fuoco, e fiamma;
Veder le nuore mie, veder le figlie
Con l’altre donne Teucre esser rapite
Co’ pargoletti figli, e per severa
Legge di guerra in servitù condutte.
Così disse piangendo: e non intese
Queste cose il marito, perché sopra
Il sepolcro ei sedea del figlio Ettore,
Lacrime sovra quel versando, poscia
Ch’egli era valoroso, e con la lancia
Difendea la sua patria. Il core asperso
Dunque d’amaro duol, l’aspra novella
Di quest’altro suo figlio ei non intese.
Elena senza lui piangea dolente,
Altro dicendo a’ Teucri, altro nel core
Tacita rivolgendo, e dentro all’alma:
Marito mio, dicea, grave ruina
Di me, de’ Teucri, e di te stesso insieme,
Crudelmente sei morto, e me infelice
Hai tu lasciata in dolorosi affanni
Con tema ancor di viemaggior cordoglio.
Oh! data al precipizio allor l’Arpie
Avesser me poc’anzi, ch’io seguissi
Te per la forza del maligno fato.
Or dato hanno il gastigo a te gli Dei
Ed a me sventurata; ogni uom m’aborre,
Tutti mi han per nemica, e non so dove
Ritrovi scampo, perché s’io men fuggo
Nell’oste Greca, ahimè! crudele scempio
Portando: al corso lei ratte le membra.
Come ne’ monti la giovenca suole
D’ardeatissimo amor del tauro accesa
Correr con piè veloce, ove la porta
L’interna voglia, che di brama ardendo
Più non cura il pastor, ma la trasporta
Lo sfrenato furor là, v’ella spera
Di trovar forse il tauro in qualche bosco:
Così costèi lievissima correndo
Facea lungo viaggio; e ricercava
Come col piede in sul funereo rogo
Salir potesse; e non sentia stanchezza
Nelle ginocchia, ma più lieve ognora
La trasportavan, cotal l’era al fianco
Citerea sprone, e l’infelice Parca.
Nulla temea, sì timida poc’anzi
Nell’atra notte, delle irsute fiere:
Piana ogni roccia di selvoso monte
Erale, ed: ascendea, senza ritegno
Qual siasi scoglio alpestre, od erta rupe.
Allor dall’alto ,ciel la diva Luna
Lei contemplando, e rimembrando insieme
Il bello Endimion, mossa a pietade
Di lei, piangea dolente, e d’alto il lume
Mostrando, le scopria le lunghe vie.
Giuns’ella intanto, i monti oltre varcando,
Ov’eran le altre Ninfe insieme accolte
Lungo facendo ad Alessandro il pianto,
Cui già vorace intorno il fuoco ardea.
Perché adunati insieme, e quinci e quindi
Consegnaron da’ monti immensa copia
Di materia i pastori, onde pietoso
Ufficio, e pianto al lor compagno e rege
Rendesser mesti lacrimando intorno.
Ed essa quando lui nel loco vide,
Benché nel sen le si struggesse il core,
Non pianse però fuor, ma ricoperta
D’un velo il vago aspetto, entro la fiamma
Saltò veloce, e sollevò gran pianto.
Ardea col suo marito, e d’ogni intorno
Le Ninfe s’ammirar, quando caduta
Videro lei col suo consorte insieme;
Ed alcuna vi fu, che il cor dal duolo
Tocca, parlando in questa guisa disse:
Veramente fu Pari empio, e perverso,
Poiché poteo tant’onorata sposa
Lasciando, condur seco infame donna,
Donna, che a’ Teucri, alla cittade, a lui
Stata è cagion di misera ruina:
Folle! né alcun pensier prendea dell’ira
Della sua moglie, e dell’affanno, ond’ella
Si venìa distruggendo, e lui, che punto
Non la prezzava, e l’aborrìa nemico,
Più che del sol la chiara luce amava.
Così fra se di quelle Ninfe alcuna
Tacita disse, ed essi al rogo in mezzo
Ardean, data all’oblio la vita, e il giorno.
Così stupiansi i pastorelli in giro,
Come già i Greci s’ammirar, vedendo
Di Capaneo la moglie Evadne sparsa
Di strali appresso al suo marito, cui
Di Zeus ancise il folgore tremendo.
Quando poscia ambedue divorato ebbe
L’impeto della fiamma, Enone e Pari,
E divenner combusti in cener solo,
Spenser l’ardente pira essi col vino,
E d’ambi in aurea coppa avvolser l’ossa
Quinci con molta cura a lor sepolcro
Diero, e due statue sovra lui locaro
Ad altre parti, e non fra lor converse.