Biblioteca:Pindaro, Pitiche, XII

A MIDA D’ AGRIGENTO VINCITORE COL FLAUTO A PITO

I
Te invoco, città di Persefone, città la più bella fra quante
albergo son d’uomini, o amica del fasto, che presso Agrigento
ferace di greggi, ti levi su clivo turrito: o Signora,
gradisci benevola, e teco si accordino gli uomini e i Numi,
da Mida le foglie del serto di Pito gradisci, e lui stesso,
che vinse gli Elleni nell’arte cui Pallade
un giorno rinvenne, intrecciando
la nenia feral de le Gorgoni.

II
La nenia che giù da le vergini cervici di serpi tutte orride
stillare con misero spasimo udiva Perseo, quando l’una
spengea delle suore trigemine; e il capo fatale, dei Sèrifi
all’isola addusse. Le Graie cosi nella tenebra immerse;
cosi di Medusa bellissima la testa rapf; di Polidete
all’epuia pose funereo fine;
e sciolse sua madre dal giogo
perenne, e dal talamo ingrato,
il figlio di Danae, cui padre, si narra, fu l’oro piovuto
dall’Etere. Or Pallade, quando l’eroe prediletto ebbe salvo
da questo travaglio, sul flauto compose un multlsono canto,
volendo il lungo ululo lugubre dal fitto guizzar delle fauci
sprizzante, imitare. La Dea compose quell’aria, ed agli uomini
presente ne fece, la disse canzone
dai capi molteplici; e fosse
compagna all’agon popoloso.

IV
Sgorga essa, dei balli compagna fedel, fra la tenue lamina
di rame, e la canna che cresce nei prati cui bagna il Cefiso,
vicino a la bella contrada d’Orcomeno, sacra a le Cariti. —
Se prospera sorte è tra gli uomini, da pena non mai si scompagna;
Ma un Nume segnare oggi stesso può fine alla pena. Non s’èvita
la sorte. Ma un giorno, giungendo imprevisto,
un bene avverrà che ti neghi,
e l’altro, inatteso, t’accordi.