Biblioteca:Pindaro, Pitiche, IV

AD ARCESILAO DI CIRENE VINCITORE COL CARRO A PITO

I
Strofe
Presso al Signor dell’equestre Cirene, a me caro,
férmati. Musa, quest’oggi: con Arcesilao che trionfa
debita un’aura di cantici leva ai Letoidi ed a Pito,
dove la donna, che all’aquile di Zeus seduta vicino
oracoleggia, predisse — né Febo era lungi — che Batto
ne la pomifera Libia colono verrebbe: che avrebbe,
l’isola sacra di Tera lasciando, in un poggio lucente
fondata una rocca famosa pei carri:

Antistrofe
che dopo sette con dieci progenie avverrebbe
quanto la figlia d’Eeta, regina dei Colchi, Medea,
piena d’afflato profetico, a Tera, dal labbro immortale
disse: «Porgetemi ascolto, di Numi figliuoli e d’eroi:
d’Epafo un giorno la figlia, vi dico, da questa contrada
cinta e percossa dal mare, sarà, nella terra d’Ammone,
radice di rocche dilette ai mortali:

Epodo
I
essi, lasciato il guizzante delfin pei corsieri veloci,
e per le redini i remi, i cocchi dai pie’ di procella
governeranno; e metropoli di grandi città sarà Tera,
come l’augurio predisse che un di, su la foce tritonia,
Eufemo, disceso da prora, accolse da un Nume, che d’uomo
aveva sembianza: gli offerse
un dono ospitale di terra; e un tuofio di Zeus rombò.

II
Strofe
Giunse che sopra la nave già stavano issando
u l’àncora dente di bronzo, la redine d’Argo veloce:
che per i miei consigli, lasciato l’Ocèano, sul dorso
delle deserte contrade, per dodici giorni la nave
tratta avevamo —: in quel punto il Demone apparve soletto.
D’uom venerabile assunta aveva la bella parvenza;
e cominciò con parole soavi, si come i gentili,
che gli ospiti invitano da prima al lor desco.

Antistrofe
Ma ci contese il pretesto del dolce ritorno
quivi indugiare. Ei ci disse ch’Euripilo egli era, figliuolo
d’Enosigeo sempiterno. Ci vide solleciti; e sùbito,
tolto qual prima alla destra gli occorse presente ospitale,
porse una zolla. Né stette Eufèmo: balzò su la spiaggia,
tese la mano alla mano, prese la zolla divina.
So che poi cadde, in un vespro, dal legno; e, rapita dal
mare,
disfatta rimase nell’umido gorgo.

Epodo
Spesso i famigli ammoniti avevo io che ben la guardassero:
quelli, infingardi, non n’ebbero pensiero: cosi pria del
tempo
sparso nei pressi di Tera fu il germe di Libia ferace.
Ché se l’avesse giltato vicino alla bocca dell’Ade,
appena tornato alla sacra sua Tenaro, Eufemo, rampollo
del Nume del mare, e d’Europa,
ii figliuola di Tizio, che a luce sui clivi lo die’ del Cefiso,

III
Strofe
dopo la quarta progenie la sua discendenza
presa la vasta contrada avrebbe coi Danai, che allora
via dall’argolico seno, da Sparta e Micene migrarono.
Or troverà nei giacigli di donne straniere una stirpe
ii nobile, cara ai Signori d’Olimpo, che, giunta a quest’isola,
dà nascimento ad un uomo signore del nubilo piano.
Anni trascorrono; e questi si reca all’oracol di Pito:
e Febo risposta gli dà dal suo tempio

Antistrofe
a rutilo d’oro: gli dice che guidi coloni
a sopra navigli al fecondo niliaco chiostro di Zeus».
Si susseguirono i detti cosi di Medea. Muti, immobili,
i Semidei sbigottirono, udendo il profetico spirito.
E. come quella predisse, te, Batto, beato figliuolo
di Polimnèsto, te l’ape di Delfo, con grido spontaneo
magnificò: quando tu le chiedesti se i Numi concedono
riscatto dell’aspra tua voce, tre volte

Epodo
ti salutò di Cirene fatale signore. E tuttora,
qual tra i purpurei calici nel pieno suo fior primavera,
Arcesilao, fra i rampolli ottavo virgulto germoglia.
Pito ed Apollo or concessero a lui la vittoria nei cocchi
fra tutte le genti vicine. Lui voglio alle Muse affidare
e l’aureo vello: ché quando
i Mini passarono a Coleo, piantata fu loro grandezza.

IV
Strofe
Qual fu la causa che i lini sciogliesser? Qual rischio
con adamantini chiovi li strinse? Era fato di Pelia
che per le man’ degli Eòlidi fulgenti, o per loro indomabili
arti cadesse. E un responso un giorno gl’invia l’umbilico
della frondifera terra, che il cuore scaltrito gli aggela:

«Guardati, guàrdati bene dall’uomo d’un solo calzare,
sia cittadino o straniero, che giunga da balze rupestri
ai campi solivi dell’inclita Solco».

Antistrofe
Anni trascorsero; e un uomo mirabile giunse.
Due giavellotti nel pugno: cingeva i suoi fianchi una veste
quale i Magnesi costumano, stretta alle fulgide membra;
ed una pelle di pardo il brivido schermia delle piogge:
né delle fulgide chiome caduti, mietuti dal ferro
erano i ricci; ma tutto di raggi gli empievano il dorso.
Giunse repente nell’àgora gremita di popolo, e stette
nel mezzo, campione d’intrepido cuore.

Epodo
Niun conoscealo: pur tutti stupivano; e alcuno diceva:
«Certo costui non Apollo: lo sposo dal cocchio di bronzo
ii non è d’Afrodite: si narra che in Nasso fulgente ebbe
morte
d’Ifimedea la prole, tu, Oto, tu audace Efialte:
e dalla faretra invincibile vibrato, lo strale d’Artemide,
percosse fulmineo Tizio,
esempio ai mortali che solo di leciti amori s’infiammino ».

V
Strofe
Cosi chiedevano garruli, cosi rispondevano.
E, tratto a furia dai muli, sul lucido carro, sollecito
Pelia ivi giunse. E, mirando d’intorno al pie’ destro il calzare
unico, trasecolò. Ma pure, nel fondo dell’animo
dissimulando il terrore: « Straniero, gli chiese, qual terra
vanti chiamare tua patria? Qual mai delle donne terrigene
te diede a luce dal grembo fecondo? Favella; e il tuo dire
macchiar non ti piaccia d’esosa menzogna».

Antistrofe
Saldo ne l’animo, mite nei detti, Giasone
questo rispose: « Ti dico che fu mio maestro Chirone.
«Giungo dall’antro ove Caricla dimora con Fflira: quivi
me del Centauro educarono le pure fanciulle. Venti anni
senza macchiare il decoro con atto né motto, vissi.
Ora alla terra natale ritorno; e l’antico potere
cerco del mio genitore, che, a torto rapito, altri usurpa:
ché ad Eolo e ai suoi figli lo diede il Cronide.

Epodo
«Pelia, non giusto, so bene, cedendo a sue brame leggere,
ai miei parenti, legittimi sovrani, di forza lo tolse.
Quelli, temendo l’oltraggio di si tracotante signore,
come pria venni alla luce, la casa velarono a lutto,
a e in mezzo a plorare di femmine, la fuga affidando alle
tènebre,
di furto, entro fasce di porpora,
mi dièrono, ch’ ei m’ allevasse, di Crono al figliuolo, a
Chirone.

VI
Strofe
Ma ben v’ è nota la somma di questi discorsi.
Or dei miei padri dai.bianchi corsieri le case mostratemi,
nobili concittadini. Figliuolo d’Esone, è mia patria
questa ove io giungo, non terra straniera. Solea la divina
fiera chiamarmi Giasone ». Cosi favellò. — Come giunse,
lui ben conobbero gli occhi del padre. Dai cigli vetusti
lagrime ardenti stillarono; e gioia lo invase; che bello
più d’ogni mortale, vedeva suo figlio.

Antistrofe
Corse la fama. Ed entrambi d’Esone i fratelli
vennero ad essi. Ferète da presso, dal fonte d’ipèria:
Amitaon da Messene; e, fidi al cugino, pure essi
presto Melanto ed Admeto correvano. A mensa imbandita,
con amorevoli detti, li accolse Giasone, di ricchi
doni fe’ gli ospiti lieti, profuse per cinque continui
giorni, per cinque continue notti ogni gaudio, falciando
i petali sacri di vita e di gioia.

Epodo
Ma gravi detti nel sesto parlò: dal principio i congiunti
rese partecipi d’ogni disegno. Assentirono; e sùbito
sursero via dalle tende, di Pelia al palagio pervennero,
ruppero dentro. E il figliuolo di Tiro chiomata li udì,
si fece a lor contro. E Giasone, con voce soave stillando
parole tranquille, gittò
le basi di saggio discorso. « Figliuolo del Nume di Petra,

VII
Strofe
più che giustizia, le menti degli uomini pronte
ci sono a lodar frodolento guadagno, sebben della crapula
triste è il dimani. Ma io, ma tu, meglio vai che, deposta
l’ira, tessiamo un futuro felice. Favello a chi sa:
Creteo, Salmòneo superbo da sola una madre ebber vita ;.
noi, per tre evi discesi da quelli, miriamo la possa,
l’oro del sole. Via fuggono le Parche a nascondere l’onta,
se scoppiano liti fra genti cognate.

Antistrofe
Non ci conviene spartire coi brandi di bronzo
né con le lance l’immenso retaggio dei nostri maggiori.
Dunque, le greggi e le fulvide mandre dei bovi io ti lascio;
tutte le terre ti lascio, che ai miei genitori predate,
ari, ed impingui il tesoro: che crescea per ciò la tua casa,
grave non m’è. Ma lo scettro regale, ma il trono ove al
popolo
dei cavalieri impartiva giustizia il figliuolo di Crete,
tu rendimi, ed èvita un pubblico scempio,

Epodo
èvita nuove sciagure che apprestino a noi tali eventi».
Disse Giasone. Tranquillo pure esso, a lui Pelia rispose:
«Qual mi bramate sarò. Ma su me di vecchiaia già volgonsi
gli anni: a te schiudesi turgido il fior della vita. Tu puoi
da me tene; lungi lo sdegno degl’inferi. Frisso m’impose
che andassi alla reggia d’ Eèta,
il vello a predar dell’ariete, sul quale dal mare, dall’arti

VIII
Strofe
della noverca mia subdola, un giorno fui salvo.
Tanto mi giunge a svelare mirabile un sogno. A Castalia
mando a cercare se fede prestare gli debba; e risposta
m’ ebbi che appena ch’ io possa prepari una nave e una
schiera.
Or compi tu quest’impresa; e regno e potere a te giuro
ch’io cederò. Testimonio del giuro solenne, ad entrambi
Zeus, comune parente, sarà». Stabilito tal patto,
di li si partirono. Ed ecco, Giasone

Antistrofe
messi spedi che annunciassero la gesta proposta
per ogni terra. E tre figli di Zeus, guerrieri indomabili,
sùbito giunsero: i nati d’Alcmena e di Leda. E due prodi
floride chiome, rampolli del Nume del pelago, mossero
consci del loro valore, da Pito, da TEnaro eccelsa:
e giunse al vertice allora la gloria d’Eufèmo, e la tua,
Periclimeno gagliardo. E Orfeo venne, figlio d’Apollo
signor della cetera, padre dei canti.
Epodo
Ermes dall’aurea verga due figli al periglio mandò
gèmini: Echione ed Eurito, rigogli di giovine forza.
Due velocissimi giunsero dai piedi dell’Alpe di Pange,
Zeto e Calai, dal dorso tutto ispido d’ali di porpora:
ché Bòrea, signore dei venti, lor padre, con ilare cuore
sollecito, d’armi li cinse.
Ed Era nel petto agli eroi desire dolcissimo infuso

IX
Strofe
d’Argo, ché niuno restasse solingo in disparte,
presso la madre, a smaltire lontan dai perigli la vita;
ma, pure a prezzo di morte, cercasse un bellissimo farmaco
l’ansia di gloria a lenire. Or, poi che tal fiore di nauti
scesero a Jolco, Giasone accolse ciascuno con laude.
E con auguri, Mopso profeta, con sacri responsi
vaticinando, la schiera fe’ lieta salir su la nave.
E poi che sui rostri fu l’ancora issata,

Antistrofe
sovra la poppa Giasone, levando una tazza
d’oro, invocò degli Uranidi il re che lontano saetta,
e dei marosi e dei venti le rapide posse, e le notti,
e le bonacce, ed i valichi marini, ed il fausto ritorno.
Giù da le nubi rispose rombando la voce del tuono,
giù da la folgore franta scoscese un barbaglio di raggi.
Trassero, ai segni propizi del Nume, profondo respiro
gli Eroi. Quindi l’ordine die’ ad essi il profeta

Epodo
che remigassero. Dolce speranza nei cuori s’infuse,
senza fastidio si tesero le palme veloci al remeggio.
Spinte dai soffi di Noto, la foce toccar dell’inospite
pelago; e un sacro sacello v’eressero al Nume del mare:
ché quivi rinvennero un gregge di fulgidi tauri, ed il cavo
d’un’ara costrutta di fresco.
E, al grave periglio anelando, pregarono il Dio delle navi,

X
Strofe
che delle rupi cozzanti fuggire potessero
l’urto terribile. Due quelle erano; e vive; e sui flutti
rapide più rotolavano che il volo e il frastuono dei venti.
Pure, segnò la lor morte di quei Seminumi la gesta.
Quinci pervennero al Fasi, e ai negri abitanti di Coleo;
ed al mirabile Eeta dièr di loro possanza.
Cipride saettatrice, qui pria giù d’Olimpo ai mortali
recò la torquilla, l’augello deliro,

Antistrofe
variopinto, costretto di laccio insolubile
ai quattro raggi d’un cerchio. E apprese all’Esonide saggio
preci e scongiuri, ché in cuore spengesse a Medea la vergogna
dei genitori; e dell’Ellade Desio, col flagel di Suada,
lei, già infiammata nel cuore, domasse. I cimenti e i segreti
del genitore svelò. Ed olì di farmachi antidoti
contro le piaghe di fiamma temprò, glie li die’, che s’ungesse.
E insieme convennero le nozze soavi. —

Epodo
Or pjanta Eeta nel mezzo l’aratro adamàntino e i bovi
che dalle fulve mascelle sprizzavano vampe di fuoco
rutilo; e al sònito alterno dei zoccoli bronzei, la terra
sotto rombava. Da solo reggendoli, al giogo li avvinse,
aperse un gran solco diritto, li spinse, e alla terra glebosa
d’un cùbito il dorso fende;
e disse cosi: «Gesta simile mi compia il signor della nave,

XI
Strofe
e s’abbia il vello fulgente di bioccoli d’oro».
Disse. E Giasone, fidente nel Nume, gittata la veste
crocea, s’accinse all’impresa: schermivano il fuoco gl’incanti
della maliarda straniera. L’aratro piantò, le cervici
sotto la forza del giogo domò, la molestia del pungolo
su la possanza dei fianchi vibrò, tutto il solco propostogli
ichiuse il gagliardo. Alto un urlo nel cuore, con muto dolore,
Eeta, mirando tal possa, levò.

Antistrofe
Tesero al forte campione gli amici le palme,
serti di frondi gli cinsero, gli disser parole soavi.
Ed il mirabile figlio del Sol gli svelò dove il fulgido
vello reciso dal ferro di Frisso giaceva. Né ch’egli
mai quella impresa compiesse credea: ché giaceva in un bosco:
e lo tenevano stretto le orrende mascelle d’un drago
che per lunghezza e larghezza passava un naviglio che i colpi
dell’asce costrussero, che remi ha cinquanta.

Epodo
Ora è però ch’io ripigli mia strada; ché il tempo nj’incalza.
Breve un sentiero conosco; e agli altri nell’arte son guida.
Quel maculato occhicerulo dragone spengea con l’astuzia:
seco rapiva Medea concorde, onde Pelia ebbe morte:
tra i gorghi d’Ocèano, nel ponto purpureo, s’univa a una stirpe
di femmine lemnie omicide.
e qui dell’ignude lor membra mostrar negli agoni la possa.

Xll
Strofe
Giacque con quelle; e nei solchi stranieri, quel giorno
e quelle notti accoglievano il germe fatale del raggio
di vostra prospera sorte. Ché, quivi piantata, d’Eufemo
sempre fiori poi la stirpe, che, mista alla gente di Sparta,
l’isola bella di Tera negli anni venturi occupò.
Donde il figliuol di Leto vi spinse nei piani di Libia,
ché col favore dei Numi più floridi voi li rendeste,
e aveste a dimora Cirene divina.

Antistrofe
della celeste giustizia trovando le vie.
L’arte d’Edipo or ti valga. Se alcuno col fil della scure
tronca le rame di quercia gigante, e deturpa l’aspetto
fulgido, pur cosi sterile, dimostra sua nobile stirpe,
sia che, nutrendo la fiamma, fra i geli del verno si strugga,
sia che, confitta nel suolo, fra erette colonne regali,
regga, fra mura straniere, gravoso increscioso travaglio,
lontana dal suolo che a luce la diede.

Epodo
Medico atteso tu giungi: Peane di luce t’irraggia:
dejvi alla piaga appressare leggera la mano, e curarla.
Facile è pure agii inetti turbar la città; ma di nuovo
metterla salda sui piedi, difficile impresa, se un Nume
non giunge improvviso a guidare chi guida la nave. Le Cariti
per te questo compito filano:
e tu con assidua cura provvedi a Cirene beata.

XIII
Strofe
Medita pure ed onora quel detto d’Omero.
Disse che il nobile araldo di pregio ogni officio riveste.
Anche la Musa pei buoni messaggi s’allegra; e Cirene
sa bene, sa bene la casa di Batto famosa, qual mente
nutra Demofilo. È questi garzon fra i fanciulli; ma quando
uopo vi sia di consiglio, è vecchio, che un secolo visse.
Fi sa spogliar d’ogni illècebra sonora le lingue malediche;
apprese a odiare ciascun tracotante;

Antistrofe
mai non contrasta le azioni dei buoni; di nulla
mai non procrastina il termine: ché presto il momento opportuno
fugge: ei lo sa; né qual servo, bensì qual ministro lo segue. —
Dicon che nulla è più triste che il bene conoscere, e a forza
lungi doverne restare. Atlante egli è quasi: col cielo,
lungi dai beni, e dal suolo che nascer lo vide, s’affronta.
Zeus immortale i Titani pur sciolse. Col volger del tempo,
se cadono i venti, si mutan le vele.

Epodo
Ora egli implora che infine, sanato dal morbo fatale,
possa vedere il suo tetto: che presso la fonte d’Apollo
l’alma rivolga, fra lieti convivi, alle giovani cure,
e fra i poeti reggendo la cetera ornata, la tocchi, .
innocuo fra i suoi cittadini, e incolume. Arcesilao,
ben egli narrarti potrà
qual fonte di cantici ambrosi in Tebe ospitale rinvenne.