Biblioteca:Pindaro, Pitiche, III

A IERONE SIGNORE DI SIRACUSA VINCITORE COL CAVALLO DA CORSA A PITO

I
Strofe
Vorrei che di Filira il figlio,
Chirone, se può dal mio labbro tal pubblico voto levarsi,
vivesse, ei ch’è spento, il signore
possente, figliuolo di Crono: vorrei
che ancor negli anfratti del Pelio regnasse, Centauro silvestre
dal cuore benigno ai mortali. Tale era; ed un giorno educò
Asclepio, benevolo fabbro di salda salute,
eroe domatore di tutte le specie dei morbi.

Antistrofe
La figlia di Flegia l’equestre
concetto lo aveva; ma prima che Ilizia sciogliesse il suo
grembo,
fiaccata dagli aurei’ strali
d’Artemide, scese nei regni dell’Ade,
per opra d’Apollo: ché vano lo sdegno non è dei figliuoli
di Zeus. Pure, essa spregiarlo potè, per ambage di mente;
e un talamo nuovo a lei piacque, né il padre lo seppe,
a lei, che, con Febo chiomato già stretta d’amore,

Epodo
in grembo recava del Nume purissimo un germe.
Attender non seppe il convivio
di nozze, né il vario concento degl’inni d’imene,
cui godon le vergini amiche
levare, con molle blandizie, nel vespero;
ma il cuore sviò dietro cose remote: che a molti pur segue.
Poiché c’è fra gli uomini certa stoltissima razza, che schifa
le patrie cose, e all’estranie rivolge bramoso lo sguardo,
con irrita speme sviandosi dietro fantasime vane.

II
Strofe
Si grave sciagura punì
l’audace Coronide peplo leggiadro. — D’un ospite giunto
d’Arcadia essa il talamo ascese.
Né all’occhio del Nume sfuggi. Soggiornava
in Pito opulenta di vittime il Dio dagli ambigui responsi,
e n’ebbe contezza: gliel disse, ben fido ministro, il suo cuore
che tutto conosce, e menzogna noi tange, né inganno
può tendergli Nume né uomo, né in detti, né in opere.

Antistrofe
E d’Ischi, del figlio d’Elato
saputo l’adultero talamo e l’empia frode, mandò
Artemide, ardente d’indomito
furore, a Laceria: ché qui, su le ripe
Bebiadi, aveva sua stanza la femmina. Or questa, sospinta
nel male dal Demone infesto, fu spenta: e il suo morì»
s’ apprese
a molti vicini, e perirono. Cosi sopra un’alpe
incende gran selva la fiamma sprizzata da un germe.

Epodo
Ma poi che i parenti sul mucchio di legna deposero
la figlia, ed intorno guizzava
la vampa rapace d’Efesto, ecco Apollo disse:
«Non mai patirò che il mio germe
soccomba pel misero destin de la madre».
Parlò; d’un sol passo li giunse; rapi dal morto alvo il fanciullo;
e il rogo dinanzi al Signore dischiuse le fiamme. — E lo
addusse,
lo diede a Chirone, al magnesio Centauro, che sperto il
rendesse
i morbi a sanare che ambasciano con vario tormento i mortali.

III
Strofe
E quanti giungevano afflitti
d’ingenite piaghe, o trafitti da lucido bronzo le membra,
o dall’avventar di macigni,
o sfatti dall’alido estivo, o dal gelo,
mandava disciolti dai vari travagli, di blandi scongiuri
cingendo talun, beverato quell’altro di miti pozioni.
o tutte di farmachi succhi fasciando le membra;
ed altri rimisene in piedi con abili tagli.

Anlistrofe
Ma cade nei lacci di Lucro
finanche Saggezza; ma l’oro che in man luccicava, suase
Asclepio, con ’lauta mercede,
che surger facesse da morte un defunto.
Fra entrambi scagliando una folgore, il soffio dal seno il
Cronide
gli tolse: e l’ardente saetta infisse su loro la morte.
Ai Superi brame discrete levare conviene,
pensando il presente ed i limiti segnati ai mortali.

Epodo
Non chiedere, o cuore diletto, la vita perenne,
ma esercita l’opra concessa.
Or dico, se il saggio Chirone tuttora abitasse
lo speco, e i miei canti di miele
in cuor gli versassero un filtro, saprei
indurlo che un medico ai buoni spedisse, a sanarli dai morbi
cocenti, spedisse il figliuolo d’Apollo, o il figliuolo di Zeus.
E il pelago ionio sopra agile naviglio solcando, venuto
al fonte sarei d’Aretusa, in casa dell’ospite entro,

IV
Strofe
che regge, egli re, Siracusa,
benigno pei suoi cittadini, non invido ai buoni, agli estranei
amabile padre. Ché s’io
giungessi, recandogli un duplice dono.
la cara salute, ed il canto ch’è luce pei serti di Pito
che ottenne Ferenico un giorno, vincendo nei giuochi di Cirra,
Io credo che sopra gli abissi del mare profondi
a lui giungerei più fulgente d’un astro del cielo.

Antistrofe
Bene io pregar voglio la Madre
cui presso al vestibolo della mia casa ile vergini a notte
invocano, Dea veneranda,
insieme con Pane. Se bene tu intendi
il fiore dei detti, o lerone, appreso hai tu ciò dagli antichi:
due mali vicino ad un bene partiscono i Superi agli uomini.
E questo non sanno gli stolidi in pace soffrire;
ma il soffrono i buoni; e in rilievo sol pongono il bene.

Epodo
Un fato di beatitudine te segue. Tu sire,
tu duce. Su te pose il guardo
se mai sovra alcun dei mortali, sublime destino.
Ma incolume vita non ebbe
né d’ Eaco il figlio, né Cadmo divino,
che pure sortirono, dicesi, fra gli uomini eccelsa fortuna.
Ché quando sposarono, un d’essi la diva occhiazzurra Armonia,
e Teti l’altro, la figlia di Nereo saggissimo, udirono
a Tebe e su l’Ida cantare le Muse dagli aurei serti.

V
Strofe
e i Numi ospitarono a mensa,
e videro i regi, figliuoli di Crono, negli aurei troni,
e n’ebbero doni; e per grazia
di Zeus, mutati gli antichi travagli,
il cuore tornarono in pace. E poi, nuovo tempo trascorso,
a Cadmo rapiron tre figlie, piombate in orrende sciagure,
gran parte del viver beato — ma Zeus nel letto
amabile ascese di Semele dall’omero bianco;

Antistrofe
e il figlio dell’altro, che in Ftia
a luce diede unico Teti, trafitto dagli archi in battaglia,
lo spirto esalato, sfacendosi
sul rogo, alto l’ululo dei Danai eccitò.
Se alcuno ricetta nell’animo del vero la via, quando i Demoni
gli porgono un bene, lo gode. Or qua, or là spirano gli aliti
dei venti precipiti. A lungo non dura fortuna
per gli uomini, quando soverchia sovra essi s’abbatte.

Epodo
Sarò negli eventi modesti modesto: solenne
sarò nei solenni, onorando
il Nume che il sen mi precinge con l’arte ch’io so.
Se un Dio mi largisse gran beni,
trovare alta gloria saprei pel futuro.
Le gesta de! Licio Sarpedonte, le gesta di Nestore, eroi
famosi fra gli uomini, note ci sono pei carmi sonori
che artefici sommi composero. A lungo prodezza fiorisce
nei celebri canti; ma pochi di celebri canti son degni.