Biblioteca:Ovidio, Heroides, 12. Medea a Giasone

Esule, senza mezzi, disprezzata, Medea scrive al novello sposo, o forse non hai tempo libero dagli impegni del regno? Eppure mi ricordo: io, regina di Colchide, tralasciai i miei impegni, quando chiedesti che la mia arte ti venisse in aiuto! Le sorelle che regolano i destini dei mortali, avrebbero dovuto svolgere allora fino in fondo il mio fuso; allora io, Medea, avrei potuto morire degnamente. Tutta la vita che ho trascinato da quel tempo, è stata dolore. Ahimè, perché mai, spinta da giovani braccia, la nave costruita col legno del Pelio venne a cercare l'ariete di Frisso? Perché mai noi Colchi vedemmo Argo, la nave di Magnesia, e voi, schiera di Greci, beveste l'acqua del Fasi? Perché mi piacquero più del dovuto i tuoi capelli biondi, la tua eleganza ed il garbo artificioso delle tue parole? Oh, se almeno, una volta giunta l'insolita nave alle nostre spiagge col suo carico di uomini avventurosi, l'ingrato figlio di Esone senza la protezione della mia magia fosse andato contro i fuochi che emanavano le teste fiammeggianti dei tori! E dopo aver gettato i semi, dai semi fossero sorti altrettanti nemici, così che il seminatore fosse abbattuto dal suo stesso seminato! Quanta perfidia sarebbe morta con te, sciagurato! Quante disgrazie sarebbero state allontanate dal mio capo! Fa un certo piacere rinfacciare i propri meriti ad un ingrato; ne godrò, questa sola gioia avrò da te. Con l'ordine di dirigere verso la Colchide la nave che non aveva ancora sperimentato il mare, facesti ingresso nel prospero regno della mia patria. Là io, Medea, ero quello che qui è la tua novella sposa; quanto è ricco suo padre, altrettanto lo era il mio. L'uno possiede Efira bagnata dai due mari, l'altro tutto il territorio che si stende lungo la riva sinistra del Ponto, fino alla Scizia nevosa. Eete offre ospitalità ai giovani Pelasgi e voi Greci vi sdraiate sui nostri letti variopinti. Fu allora che ti vidi, allora cominciai a sapere chi fossi; quello fu il primo cedimento del mio animo. Ti vidi e fui perduta! Mi infiammai di una passione a me ignota, come una torcia di pino arde dinanzi ai grandi dèi. Eri bello e il mio destino mi trascinava: il tuo sguardo aveva stregato i miei occhi. Tu, traditore, te ne accorgesti! Chi infatti riesce a nascondere bene l'amore? La fiamma appare ben visibile, tradita dal suo stesso chiarore. Nel frattempo ti viene dato l'ordine di aggiogare i duri colli di tori selvaggi all'aratro ad essi sconosciuto. Erano i tori di Ares, pericolosi ben più che per le corna: il loro terribile alito era di fuoco, gli zoccoli tutti di bronzo e di bronzo erano ricoperte le narici, anch'esse annerite dal loro fiato. Poi ti fu ordinato di spargere per i vasti campi, con mano pronta ad affrontare la morte, la semente destinata a generare uomini, che avrebbero cercato di colpire il tuo corpo con armi nate con loro: mèsse, quella, nociva per chi l'ha seminata. Ingannare con qualche incantesimo gli occhi del guardiano, che non conoscono il sonno è l'ultima fatica. Eete aveva parlato: costernati, vi alzate tutti e l'alta mensa viene allontanata dai letti coperti di porpora. Quanto erano lontani allora per te il regno, che Creusa porta in dote, e il suocero e la figlia del grande Creonte! Te ne vai sconsolato. Ti seguo, mentre ti allontani, con gli occhi umidi e la mia lingua pronunciò con un lieve sussurro: "Addio!". Come, gravemente ferita, toccai il letto posto nella mia stanza, trascorsi la notte, per quanto fu lunga, tra le lacrime. Davanti ai miei occhi c'erano i tori e le messi funeste, davanti ai miei occhi il drago insonne. Da un lato c'è l'amore, dall'altro la paura e la paura accresce l'amore. Si era fatta mattina e l'amata sorella, accolta nella mia stanza, mi trova con i capelli in disordine, riversa bocconi sul letto e tutto era pieno delle mie lacrime. Chiede aiuto per i Minii, una chiede e l'altra otterrà; concedo al giovane figlio di Esone ciò che lei chiede. C'è un bosco tenebroso di pini e di fronde di leccio, a fatica i raggi del sole possono penetrarvi; c'è in quel luogo - di sicuro c'era - un tempio di Artemide; vi si erge una statua in oro della dea, foggiata da mano barbarica. Te ne ricordi o hai cancellato dalla tua mente quei luoghi, assieme a me? Giungemmo là; per primo cominciasti così a parlare, con la tua bocca menzognera: "La sorte ti ha dato il potere di decidere della mia salvezza, e la vita e la morte sono in mano tua. È già abbastanza avere la facoltà di uccidere, se a qualcuno piace il potere in se stesso; ma se mi salverai, avrai una gloria maggiore. Ti prego, per le sventure che mi aspettano, dalle quali tu mi puoi sollevare, per la tua stirpe e la divinità del tuo avo che tutto vede, per il triplice volto e per i sacri misteri di Artemide e per gli altri dèi, se la tua gente ne possiede: o fanciulla, abbi pietà di me, abbi pietà dei miei uomini, fa' sì che, per il tuo aiuto, io divenga tuo per sempre! E se per caso non disdegni un marito greco - ma come posso sperare gli dèi a me così propizi? -, il mio spirito vitale si dissolva nell'aria leggera, prima che un'altra donna, che non sia tu, divenga sposa nel mio talamo. Sia testimone Era, preposta alle cerimonie coniugali e la dea, nel cui tempio di marmo ci troviamo!". Queste parole - e quanto piccola parte non sarebbe bastata? - e la tua destra stretta alla mia turbarono il mio animo di giovane inesperta. Vidi anche le tue lacrime; c'è una parte di inganno anche in quelle? Così, io, una fanciulla, fui subito sedotta dalle tue parole. Allora aggioghi i tori dagli zoccoli di bronzo, senza bruciarti il corpo, e solchi la dura terra con l'aratro come prescritto. Riempi i campi arati di denti funesti anziché di semi, e nascono soldati e hanno spade e scudi. Io stessa, che ti avevo dato i magici filtri, impallidii e mi sedetti quando vidi che gli uomini apparsi all'improvviso impugnavano le armi, finché i fratelli generati dalla terra - fatto prodigioso! - si aggredirono tra di loro con le armi in pugno. Ecco il guardiano insonne, irto di squame stridenti, sibila e spazza la terra contorcendosi. Dove erano le ricchezze della dote? Dove la tua sposa di stirpe regale e l'Istmo che separa le acque dei due mari? Io, che per te ora sono diventata solo una barbara, che per te ora sono povera, che ora ti sembro colpevole, sono quella che fece chiudere gli occhi di fuoco con un magico sonno e che ti diede il vello da portare via senza pericolo. Tradii mio padre, abbandonai il regno e la mia patria; accettai l'esilio, qualunque peso comportasse, la mia verginità divenne conquista di un predone straniero, con la mia cara madre, ho abbandonato la migliore delle sorelle. Ma nella fuga, fratello, non ti lasciai senza di me. In questo solo punto la mia lettera è reticente. Quello che ha osato fare, la mia mano non osa scriverlo. Così io, ma con te, avrei dovuto essere straziata! E tuttavia non ebbi paura - cosa infatti avrei dovuto temere, dopo quello che avevo commesso? - di affidarmi al mare, donna e ormai colpevole. Dov'è la potenza divina? Dove gli dèi? Che si paghino in mezzo al mare le pene che meritiamo: tu del tuo inganno, io della mia ingenuità! Oh se le Simplegadi, schiacciandoci, ci avessero stritolati e le mie ossa si fossero unite alle tue ossa! Oppure Scilla vorace, ci avesse gettati in pasto ai suoi cani! Scilla avrebbe dovuto punire uomini ingrati. O il mostro che tante volte vomita flutti e altrettante li risucchia avesse sommerso anche noi nel mare della Trinacria! Salvo e vincitore, ritorni alle città d'Emonia; il vello d'oro è offerto agli dèi patrii. Perché dovrei parlare delle figlie di Pelia assassine per affetto, e del corpo del padre fatto a pezzi da mani di fanciulle? Anche se gli altri mi accusano, tu per forza mi devi lodare, perché fui costretta tante volte ad essere colpevole per il tuo bene. Hai avuto il coraggio - oh, mi mancano le parole adatte ad esprimere uno sdegno legittimo! -, hai avuto il coraggio di dire: "Esci dalla casa di Esone!". A quell'ordine uscii dalla tua casa, seguita dai bambini e dall'amore per te, che mi accompagna costantemente. Come, improvvisamente, giunse alle mie orecchie il canto di Imene e brillarono fiaccole ardenti ed il suono di un flauto, più triste per me di una tromba funebre, accompagnò canti di nozze, fui pervasa dal terrore; non credevo ancora che si trattasse di una così grande infamia, ma tuttavia il gelo mi pervase tutto il petto. Accorre un mucchio di gente e ripetutamente grida: "O Imene, Imeneo!"; quanto più il grido si avvicinava, tanto più ero in preda all'angoscia. I servi in disparte piangevano e nascondevano le lacrime - chi avrebbe voluto essere messaggero di una disgrazia così grande? Di qualunque cosa si trattasse, io avrei preferito ignorarla, ma come se sapessi, il mio cuore era in pena, quando, il più piccolo dei figli, perché mandato, o per il desiderio di vedere, si fermò sulla soglia della duplice porta; di lì mi disse: "Mamma, vieni! Mio padre Giasone guida un corteo e, vestito d'oro, sprona i cavalli appaiati". Immediatamente, mi lacerai la veste e mi percossi il petto e non mi risparmiai il volto dai graffi. L'istinto mi spingeva ad andare in mezzo alla folla e a strappare via le corone dai capelli agghindati; mi trattenni a stento dal gridare, così com'ero, con i capelli scarmigliati: "È mio!", e dal posare le mani su te. Rallegrati, padre oltraggiato! Rallegratevi Colchi che ho abbandonato! Ombra di mio fratello, ricevi il sacrificio d'espiazione! Io che ho perduto il regno, la patria e la casa, sono abbandonata dal mio sposo, che da solo per me era tutto. Dunque io, che ho potuto domare draghi e tori furiosi, solo il mio sposo non ho avuto il potere di sottomettere. E io che ho respinto fiamme indomabili con la mia scienza magica non ho la forza di sfuggire al mio stesso fuoco. I miei stessi incantesimi, le erbe, le arti mi abbandonano. Né la dea, né i sacri riti della potente Ecate riescono ad avere effetto. Non amo il giorno, le notti sono veglie amare e il dolce sonno, ahimè infelice, non occupa più il mio petto. Io che sono riuscita ad addormentare un drago non posso farlo con me stessa. I miei rimedi sono più utili a chiunque che a me. Una rivale abbraccia le membra che io ho salvato, ed è lei a cogliere il frutto della mia fatica. Forse, mentre cerchi di gloriarti di fronte alla tua sciocca moglie e di formulare discorsi adatti alle sue orecchie ostili, inventi anche nuove calunnie contro il mio aspetto ed il mio comportamento! Rida pure, lei, e gioisca dei miei difetti. Rida e si corichi superba sulla porpora di Tiro - piangerà e sarà bruciata da fiamme che supereranno le mie. Finché ci saranno ferro e fuoco ed essenze velenose, nessun nemico di Medea resterà impunito. E se può accadere che le preghiere tocchino un cuore di ferro, ascolta ora parole più moderate dei miei sentimenti. Ti supplico, così come tu spesso hai fatto con me, e non esito a gettarmi ai tuoi piedi. Se per te non conto più nulla, guarda i nostri figli: una matrigna crudele sarà spietata contro quelli che ho generato io. Ti assomigliano troppo, sono colpita dal loro aspetto e ogni volta che li guardo, i miei occhi si inumidiscono. Ti prego per gli dèi e per la luce della fiamma avita e per quanto ho meritato e per i due figli, pegno della nostra unione, restituiscimi il letto, per il quale, folle, ho abbandonato tante cose! Mantieni fede alle tue parole e ricambia l'aiuto! Io non mi appello a te contro tori e uomini e perché un drago giaccia vinto grazie al tuo intervento; è te che chiedo, te ho meritato, che ti sei dato a me di tua volontà, con te, divenuto padre, sono diventata in pari tempo madre. Chiedi dov'è la mia dote? L'ho pagata in quel campo che tu dovevi arare, per portare via il vello. Quell'ariete d'oro, straordinario per il folto vello, è la mia dote; se io ti dicessi: "Rendimelo", tu rifiuteresti. La mia dote sei tu, salvo, la mia dote è la gioventù greca. Va' ora, disonesto, fa' il confronto con le ricchezze di Sisifo! Che tu viva, che abbia una sposa ed un suocero potente, il fatto stesso che tu possa essere ingrato, persino questo, è merito mio. A loro veramente fra poco... ma a cosa serve preannunciare un castigo? L'ira genera enormi minacce. Andrò dove mi porterà l'ira. Forse mi pentirò del mio operato, così come mi pento di avere avuto cura di un marito infedele. Si occupi di queste cose il dio, che ora sconvolge il mio cuore. Di sicuro la mia mente sta meditando non so che di spropositato.