Biblioteca:Ovidio, Heroides, 09. Deianira a Eracle

Io, lettera, testimone del suo stato d'animo, sono inviata a te, Alcide, dalla moglie, se Deianira è ancora tua moglie. Mi compiaccio che Ecalia vada ad aggiungersi ai nostri titoli di gloria, deploro che il vincitore abbia ceduto a colei che ha vinto. È giunta all'improvviso alle città pelasgiche una notizia inverosimile e che deve essere sconfessata dal tuo comportamento: Iole ha imposto il giogo all'eroe, che Era, con una serie interminabile di fatiche, non è mai riuscita a piegare. Questo vorrebbe Euristeo, questo la sorella di Zeus tonante, che, come matrigna, godrebbe per il disonore della tua vita; ma non lo vorrebbe colui al quale una sola notte (se lo lo crediamo) non fu sufficiente per concepirti così grande. Più che Era ti ha recato danno Afrodite: quella, perseguitandoti, ti ha elevato, questa tiene il tuo collo sotto il suo piede che umilia. Volgiti a guardare il mondo pacificato dalla tua forza vendicatrice, per tutto lo spazio entro cui l'azzurro Nereo circonda la vasta terra. La pace della terra, la sicurezza del mare sono dovuti a te, con i tuoi meriti hai riempito entrambe le dimore del sole. Il cielo che ti porterà, tu l'hai portato per primo: Atlante sostenne la volta stellata, per mezzo di Eracle che lo aveva sostituito. Cosa è se non notorietà cercata a scapito dell'onore, se carichi le tue precedenti imprese del peso di un marchio d'infamia? Non si racconta forse che hai stretto fino a soffocarli due serpenti, quando bimbo in culla eri già degno di Zeus? Hai iniziato meglio di come finisci; le tue ultime azioni sono inferiori alle prime: l'uomo di oggi e quel bambino sono diversi. L'uomo che mille belve non furono in grado di vincere, né il figlio di Stenelo, suo nemico, né Era, lo vince Amore. Ma si dice che io sono felicemente sposata, perché sono chiamata moglie di Eracle e mio suocero è colui che tuona dall'alto con i suoi veloci destrieri. Quanto malamente si adattano all'aratro due buoi di diversa mole, tanto resta schiacciata una moglie inferiore da un marito prestigioso. Non è un privilegio, ma un peso, la bellezza che danneggia chi la possiede; se vuoi sposarti adeguatamente, sposa un tuo pari. Mio marito sta sempre lontano, e mi è più familiare come ospite che come sposo, e si dà all'inseguimento di mostri e belve spaventose. Io, nella casa vuota, intenta in caste preghiere, mi tormento nel timore che mio marito cada per mano di un nemico pericoloso. Mi agito fra serpenti, cinghiali, leoni insaziabili e cani che azzannano senza mollare la presa con triplici fauci. Mi turbano le viscere degli animali sacrificati e gli evanescenti fantasmi dei sogni e i presagi cercati nel segreto della notte. Infelice, cerco di captare gli incerti sussurri della fama e la paura si perde nella speranza vacillante, la speranza nella paura. Tua madre è lontana e si duole di essere piaciuta a un dio potente; non c'è tuo padre, Anfitrione, né nostro figlio Illo. Sento gravare su di me Euristeo, strumento dell'ingiusto odio di Era e la collera inesauribile della dea. Ed è ancora poco per me sopportare tutto questo; aggiungi gli amori per femmine straniere e che una donna qualsiasi può essere resa madre da te. Non dirò di Auge, violentata nelle valli del Partenio, né della tua prole, o ninfa nipote di Ormeno; non verrai incolpato per le sorelle, discendenti di Teutrante: della loro schiera non ne hai trascurata nessuna; ricorderò una sola come amante, ultimo affronto nel tempo, per colpa della quale sono diventata matrigna di Lamo di Lidia. Il Meandro, che attraversa tante volte il medesimo territorio, e che continuamente ripiega su se stesso le sue acque stanche, ha visto collane pendere dal collo di quell'Eracle, per il quale la volta celeste fu piccolo peso. Non hai avuto vergogna a costringere le tue braccia vigorose nei braccialetti d'oro e a ornare di gemme i tuoi muscoli poderosi? Eppure sotto la stretta di queste braccia ha esalato l'ultimo respiro il flagello di Nemea, della cui pelle è ricoperta la tua spalla sinistra. Hai avuto il coraggio di coprire con la mitra i tuoi capelli incolti: alla capigliatura di Eracle è più adatto l'argenteo pioppo. E non pensi che sia stato degradante, per te, cingerti di una cintura Meonia, come una fanciulla lasciva? Non ti si presenta alla mente l'immagine del feroce Diomede che, spietato, nutrì le sue cavalle di carne umana? Se ti avesse visto in questa tenuta Busiride, tu, vincitore, avresti dovuto certamente essere causa di vergogna per lui vinto! Anteo strapperebbe via quei nastri dal tuo collo possente, per non vergognarsi di essere stato sconfitto da un uomo effeminato. Si dice che tu abbia tenuto il cesto della lana in mezzo alle fanciulle della Ionia e che tu sia stato molto intimorito dalle minacce della tua padrona. Non ti rifiuti Alcide di porre la mano vincitrice di mille fatiche nei levigati cestelli e fai scorrere col pollice robusto i fili di lana e rendi il giusto peso di lana filata alla tua bella padrona? Ah, quante volte, mentre ritorci il filo con dita impacciate, le tue mani troppo forti hanno spezzato i fusi!... ai piedi della tua padrona... raccontavi fatti che avresti dovuto nascondere: cioè che enormi serpenti, soffocati da te, avevano avvinghiato con le loro code la tua mano di bambino; come il cinghiale Tegeo dimori sull'Erimanto, ricco di cipressi, e con il suo enorme peso devasti la terra; non passi sotto silenzio le teste inchiodate alle case di Tracia, né le cavalle ingrassate con carne umana; né il triplice mostro, Gerione, ricco dei buoi iberici, un solo essere in tre corpi; né Cerbero dall'unico tronco che si divide in altrettante teste di cane, avviluppate da serpenti minacciosi; né l'idra che rinasceva dalle feconde ferite, rigenerandosi e traendo ricchezza dalle sue stesse perdite; né colui che, gravosissimo carico, restò sospeso tra il tuo fianco ed il braccio sinistro, con la gola strozzata; né la schiera equestre, a torto fiduciosa nei piedi e nel corpo bimembre, cacciata sui monti della Tessaglia. Puoi tu raccontare queste imprese rivestito di un manto di porpora? Non tace la tua lingua, trattenuta da un simile abbigliamento? La giovane figlia di Iardano si è persino ornata delle tue armi e ha preso i ben noti trofei dall'eroe asservito. Suvvia ora, esalta il tuo coraggio e passa in rassegna le tue imprese coraggiose: poiché tu non lo eri, a buon diritto l'uomo fu lei, e tu le sei tanto inferiore di quanto, vincere te, il più grande di tutti, era impresa più grande che vincere coloro che hai vinto. A lei passa tutto quello che hai, rinuncia ai tuoi beni: è la tua amica l'erede della tua gloria. Oh, vergogna! L'ispida pelle strappata alle costole dell'irsuto leone ha ricoperto il suo fianco delicato! Ti inganni e non lo sai: quelle non sono le spoglie del leone, ma le tue; tu sei il vincitore del leone, ma lei lo è di te. Una donna, a mala pena in grado di reggere la conocchia carica di lana, ha portato le nere frecce intinte nel veleno di Lerna ed ha armato la sua mano della clava che ha domato le fiere e si è contemplata nello specchio con le armi di suo marito. Ma queste cose le avevo solo udite; avrei potuto non credere alle voci, non è acuto il dolore che dalle orecchie giunge al cuore. Ma davanti ai miei occhi è ora condotta una concubina straniera e non riesco a nascondere quello che soffro. Non permetti che non la si guardi: sfila prigioniera in mezzo alla città, e i miei occhi sono costretti a guardarla anche se non vogliono. E non viene con i capelli disordinati, secondo l'uso delle prigioniere, confessando con il volto... la sua sorte, ma avanza facendosi notare da lontano per la profusione di oro, adornata come usavi anche tu, in Frigia; guarda il popolo dall'alto, così da far pensare che Eracle sia stato vinto, che Ecalia sia ancora in piedi e viva suo padre; forse, scacciata l'etolide Deianira e deposto il nome di concubina, sarà anche moglie e un imeneo infamante unirà i corpi impudichi di Iole, figlia di Eurito e dell'Alcide... Al pensiero mi sento venir meno, un gelo mi scorre per le membra e la mano, inerte, mi resta abbandonata in grembo. Hai amato anche me, con molte altre, ma mi hai amata senza colpa; non ti dispiaccia se per due volte sono stata per te motivo di lotta. Acheloo, piangente, raccolse le sue corna sull'umida riva e immerse le tempie mutilate nell'acqua fangosa; Nesso, il semiuomo, cadde senza vita nell'Eveno portatore di morte ed il suo sangue equino ne contaminò le acque. Ma perché racconto queste cose? Mentre scrivo mi giunge la notizia che mio marito stà morendo per il veleno della mia tunica. Povera me! Cosa ho fatto? Dove mi ha trascinata il mio delirio di donna innamorata? Perché, scellerata Deianira, non ti decidi a morire? Tuo marito sarà dunque straziato nel mezzo dell'Eta, e tu, la causa di così grande misfatto, sopravviverai? Che altro mi resta da fare per essere creduta moglie di Eracle? La mia morte sarà la testimonianza del nostro matrimonio. Anche tu, Meleagro, riconoscerai in me la sorella! Perché, scellerata Deianira, non ti decidi a morire? Ahimè, famiglia maledetta! Agrio siede sull'alto trono, mentre una misera vecchiaia opprime Eneo, abbandonato in solitudine; mio fratello Tideo è esule, in terre sconosciute; l'altro fratello vivo, divenne preda del fuoco fatale; nostra madre si affondò un pugnale nel petto. Perché, scellerata Deianira, non ti decidi a morire? Chiedo solo questo, per i sacri diritti del matrimonio, che non si creda che io abbia attentato al tuo destino. Nesso, come fu colpito nel petto voglioso dalla tua freccia, disse: "Questo sangue ha il potere di generare amore". Io ti mandai la tunica intrisa del veleno di Nesso. Perché, scellerata Deianira non ti decidi a morire? Ormai addio, vecchio padre e sorella Gorge, e patria e fratello strappato alla tua patria e tu, luce di questo giorno, ultima per i miei occhi e mio sposo - oh, se tu potessi stare bene! - e piccolo Illo, addio!