Biblioteca:Omero, Odissea, Libro XVIII

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Un accattante pubblico sorvenne,
Di mendicar per la cittade usato,
Famoso vorator, che mai non disse
Per molto cibo, e per vin molto: "Basta!"
E gigante a vederlo, ancor che poco 5
Di forza e cuore in sì gran corpo fosse.
Egli avea nome Arnèo: così chiamollo,
Nel dì che nacque, la diletta madre.
Ma dai giovani tutti Iro nomato
Era, come colui che le imbasciate 10
Portar solea, qual gliene desse il carco.
Giunto fu appena, che scacciava Ulisse
Dalla sua casa, ed il mordea co' detti:
"Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi
Ch'io non ti tragga fuor per un de' piedi, 15
Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga,
Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi.
Ma lèvati, o alle prese io con te vegno".

Bieco Ulisse guatollo, e: "Sciagurato",
Rispose, "in opra io non t'offendo o in voce, 20
Né che alcuno a te doni, anco a man piene,
T'invidio io punto. Questa soglia entrambi
Ci capirà. Tu non dovresti noia
Del mio bene sentir, tu, che un mendico
Mi sembri al par di me. Dispensatori 25
Delle ricchezze all'uom sono i celesti.
Invitarmi a pugnar non ti consiglio,
Onde infiammato, benché vecchio, d'ira
Le labbra io non t'insanguini ed il petto.
Più assai tranquillo io ne sarei domane: 30
Ché alla magion del figlio di Laerte
Ritorno far tu non potresti, io credo".

"Poh", sdegnato il pezzente Iro riprese,
"Più volubili i detti a questo ghiotto
Corrono e ratti più, che non a vecchia 35
Che sempre al focolar s'aggira intorno.
S'io queste man pongogli addosso, tutti
Dalle mascelle, come a ingordo porco
Entrato fra le biade, i denti io schianto.
Or bene, un cinto senza più ti copra, 40
E questi ci conoscano alla pugna
Che tosto avremo. Io veder voglio, come
Con uom combatterai tanto più verde".

Così sul liscio limitar dell'alte
Porte garrìan d'ingiurïosi motti. 45
Avvisossene Antinoo, e, dolcemente
Ridendo, sciolse tai parole: "Amici,
Nulla di sì giocondo a questi alberghi
Gli abitator dell'etra unqua mandaro.
Si bisticcian tra lor l'ospite ed Iro, 50
E già le man frammischiano. Su via,
Meglio alla zuffa raccendiamli ancora".

Tutti s'alzâro, nelle risa dando,
E ai due straccioni s'affollâro intorno.
Ed Antinoo così: "Nobili proci, 55
Sentite un pensier mio. Di que' ventrigli
Di capre, che di sangue e grasso empiuti
Sul foco stan per la futura cena
Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi
D'ogni nostro convito a parte sia; 60
Né più tra noi s'aggiri altro cencioso".

Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe,
Cui non fallìan le astuzie: "Amici disse,
Ad uom dagli anni e dai disastri rotto
Con giovane pugnar non parmi bello. 65
E pur botte a ricevere, e ferite
La rea mi spinge imperïosa fame.
Ma voi giurate almen che nessuno, Iro
Per favorir, me della man gagliarda
Percuoterà, male adoprando: troppo 70
Mi tornerebbe allor duro il cimento".

Giurâro. E di Telemaco in tal guisa
La sacra possa favellò: "Straniero,
Di respinger costui ti detta il core?
Respingilo: né alcun temer de' proci. 75
Chi t'oserà percuotere, con molti
A combattere avrà. Gli ospiti io curo,
E tal favella non condannan certo
Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti".

Disse, e ciascuno approvò il detto. Ulisse 80
Si spogliò tutto, e de' suoi panni un cinto
Formossi, e nudi i lati omeri, nudo
Mostrò il gran petto e le robuste braccia
E i magni fianchi discoprì: Atena,
Che per lui scese dall'Olimpo, tutte 85
De' popoli al pastor le membra crebbe.
Stupîro i proci fieramente, e alcuno
Così dicea, volgendosi al vicino:
"Iro, già non più Iro, in su la testa
S'avrà tratto egli stesso il suo malanno; 90
Tai fianchi ostenta e tali braccia il veglio!"
A queste voci malamente d'Iro
L'animo commoveasi. E non pertanto
Col cinto ai lombi e pallido la faccia,
Gli schiavi a forza il conducean: su l'ossa 95
Tremavangli le carni. Antinoo allora
Prendealo a rimbrottar: "Millantatore,
Perché or non muori, o a che nascesti un giorno,
Tu, che sì temi e tremi, uom dagli affanni,
Non men che dall'età, snervato e domo? 100
Ma odi quel che di te fia. Se a terra
Con vincitrice man colui ti mette,
Io te gettato in una ratta nave
Manderò nell'Epiro al rege Echeto,
Flagello de' mortali, il qual ti mozzi 105
Gli orecchi e il naso con acerbo ferro,
E, da stracciarsi crudi, a un can vorace
Butti gli svelti genitali in preda".

Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte:
Ma il condusser nel mezzo. I due campioni 110
Le mani alzâro: dubitava Ulisse,
Se del pugno così dar gli dovesse,
Che lui caduto abbandonasse l'alma,
O atterrarlo, e non più, con minor colpo.
Questo partito scelse, onde agli Achivi 115
Celarsi meglio. Iro la destra spalla
Ad Ulisse colpì, ma Ulisse in guisa
Sotto l'orecchia l'investì nel collo,
Che l'ossa fracassògli: uscìagli il rosso
Sangue fuor per la bocca; ed ei mugghiando 120
Cascò, digrignò i denti, e il pavimento
Calcitrando batté. Gli amanti a quella
Vista, levate le lor braccia in alto,
Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse,
L'un de' piedi afferratogli, il traea 125
Pel vestibolo fuor sino alla corte,
E all'entrata del portico. Ciò fatto,
Col dosso al muro l'appoggiò, gli pose
Bastone in mano e: "Qui", gli disse, "or siedi.
E scaccia dal palagio i cani e i ciacchi, 130
Né più arrogarti, così vil qual sei
Su gli ospiti dominio e su i mendichi:
Ché un'altra volta non t'incontri peggio".

Così dicendo, si gittava intorno
Alle spalle il suo zaino, e al limitare 135
Ritornava, e sedeavi. Rientraro
Con dolce riso in su le labbra i proci,
Ed a lui blande rivolgean parole:
"Ospite, Zeus a te con gli altri numi
Quanto più brami, e t'è più caro, invii, 140
A te, che la città smorbasti a un tratto
Di questo insazïabile accattone,
Che ad Echeto, degli uomini flagello,
Tra poco andrà su gli Epiroti lidi".

Così parlâro; e dell'augurio Ulisse 145
Godea nell'alma, e Antinoo un gran ventriglio
Di sangue e di pinguedine ripieno
Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo
Due presentògli dal canestro tolti
Candidissimi pani, e, propinando 150
Con aurea tazza: "Salve", disse, "o padre,
Forestier, salve: se infelice or vivi,
Lieti scórranti almeno i dì futuri".

"Anfinomo", l'eroe scaltro rispose,
"D'intendimento e di ragion dotato 155
Mi sembri, e in questo tu ritrai dal padre,
Da Niso Dulichiense, ond'io la fama
Sonare udìa, buono del par che ricco,
Da cui diconti nato; e fede ancora
Ne fa il tuo senno e le parole e gli atti. 160
A te dunque io favello, e tu i miei detti
Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto
Spira e passeggia su la terra o serpe,
Ciò che al mondo havvi di più infermo? È l'uomo.
Finché stato felice i dèi gli dánno, 165
E il suo ginocchio di vigor fiorisce,
Non crede che venir debbagli sopra
L'infortunio giammai. Sopra gli viene?
Con repugnante alma indegnata il soffre:
Ché quali i giorni son, che foschi o chiari, 170
De' mortali il gran padre e de' celesti
D'alto gli manda, tal dell'uomo è il core.
Vissi anch'io vita fortunata e illustre,
E, secondando la mia forza, e troppo
Nel genitor fidando e ne' germani, 175
Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi.
Ma ciascuno a ben far dee per l'ingegno,
E quel, che dai numi ha, fruir tranquillo:
Né costoro imitar, che iniquamente
Struggono i beni, e la pudica donna 180
Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo
Dalla sua patria e dagli amici, io credo,
Lontano ancor non rimarrà; che a questi
Luoghi anzi è assai vicino. Al tuo ricetto
Quindi possa guidarti un dio pietoso, 185
E torti agli occhi suoi, com'egli appaia:
Poiché decisa senza molto sangue
Messo ch'egli abbia in sua magione il piede,
Non fia tra i proci e lui l'alta contesa".
Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo, 190
E tornollo ad Anfinomo. Costui
Per la sala iva, conturbato il core,
E squassando la testa, ed il suo male
Divinando, ma invan: fuggir non puote,
Legato anch'ei da Palla, onde cadesse 195
Per l'asta di Telemaco. Nel seggio,
Donde sorto era, si ripose intanto.

Ma d'Icario alla figlia, alla prudente
Penelope, la dea dai glauchi lumi
Spirò il disegno di mostrarsi ai proci, 200
Perché lor s'allargasse il core in petto
Di nuova speme, ed in onor più grande
Presso il consorte e il figlio ella salisse.
Diede, né ben sa come, in un gran riso,
E tai detti formò: "Sento un desire 205
Non pria sentito di mostrarmi ai proci,
Eurinome, bench'io tutti gli abborra.
Utile avviso in lor presenza io bramo
A Telemaco dare, il qual troppo usa
Con que' superbi giovani, che accenti 210
Ti drizzan blandi, e insidianti da tergo".

"Saggio è il consiglio", Eurinome rispose.
"Va' figlia, dunque, ed il tuo nato assenna.
Ma pria ti lava, e su le guance poni
L'usato unguento. Apparir vuoi con faccia 215
Dalle lagrime tue solcata e guasta?
Quel pianger sempre e dall'un giorno all'altro
Nullo divario far, poco s'addice.
Già venne il figlio nell'età fiorita,
In cui vederlo con l'onor del mento 220
Sì ardentemente supplicavi ai numi".

"Per zelo che di me l'alma ti scaldi",
Replicava Penelope, "di bagni,
Eurinome, o di lisci, or non parlarmi.
Il dì che Ulisse s'imbarcò per Troia, 225
Tolsermi ogni beltà dal volto i numi,
Bensì Autonoe mi chiama e Ippodamìa,
Che da lato mi stieno. Ai proci sola
Non offrirommi: ché pudor mel vieta".
Tacque; e la vecchia Eurinome le donne 230
A chiamar tosto e ad affrettarle, uscìo.

Ma l'occhiazzurra dea, nuovo pensiero
Formando nella mente, alla pudica
Figlia d'Icario un molle sonno infuse.
Mentre giacea sovra il suo seggio, e tutte 235
Il molle sonno le sciogliea le membra,
Palla Atena di celesti doni
La rifornìa, perché di lei più sempre
Invaghisser gli Achei. Pria su le guance
Quella, che tien dalla bellezza il nome, 240
Sparse divina essenza, onde si lustra
La inghirlandata d'ôr Vener, se mai
Va delle Cariti al dilettoso ballo:
Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla
Nel volto, e tal su lei candor distese, 245
Che l'avorio tagliato allora allora
Ceder dovesse al paragon. La diva
Risalì dell'Olimpo in su le cime.

Venner le ancelle strepitando, e ratto
Si riscosse Penelope dal sonno; 250
E con man gli occhi stropicciossi e disse:
"Qual dolce sonno della sua fosc'ombra
Me infelice coprì! Deh così dolce
Morte subitamente in me la casta
Artemide scoccasse; ed io l'etade 255
Più non avessi a consumar nel pianto,
Sospirando il valor sommo, infinito,
D'un eroe, cui non sorse in Grecia il pari".

Così detto, scendea dalle superne
Lucide stanze al basso, e non già sola: 260
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo.
Sul limitar della dedàlea sala,
Ove i proci sedean, trovasi appena,
Che arresta il pié tra l'una e l'altra ancella
L'ottima delle donne, e co' sottili 265
Veli del capo ambo le guance adombra.
Senza forza restaro e senza moto:
L'alma più intenerìa, si raddoppiava
Delle nozze il desire in ogni petto.
Ella queste a Telemaco parole: 270
"Figlio, io te più non riconosco. Sensi
Nutrivi in mente più maturi e scorti
Nella tua fanciullezza; ed or che grande
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato,
Or, che stranier, che a riguardar si fesse 275
La tua statura e la beltà, te prole
D'uom beato dirìa, più non dimostri
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno
Trattamento d'un ospite in tua reggia?
Oltraggio sì crudel, che vendicato 280
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi,
Che su te non ne cada eterno scorno?"

Il prudente Telemaco rispose:
"Madre, perché ti crucci, io non mi sdegno.
Meglio, che pria ch'io di fanciullo uscissi, 285
Le umane cose, il pur mi credi, intendo,
E tra lor non confondo il torto e il dritto.
Ma tutto operare o antiveder non valgo,
Circondato qual sono e insidïato
Da fiera gente, e d'assistenti solo. 290
Quanto alla lotta tra l'estranio ed Iro,
Parte i proci non v'ebbero, e del primo
Fu la vittoria. Ed oh! piacesse al padre
Zeus e alla diva Pallade e ad Apollo,
Che tentennasse a cotestor già domi 295
La testa e si sfasciassero le membra,
Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala
Come a quell'Iro, che alle porte or siede
Dell'atrio, il capo qua e là piegando,
D'un ebbro in guisa e che su i piedi starsi 300
Non può, né a casa ricondursi: tanto
Le membra riportonne afflitte e peste".

Così la madre e il figlio. Indi tai voci
Eurimaco a Penelope drizzava:
"Figlia d'Icario, se te vista tutti 305
Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi,
Turba qui di rivali assai più folta
Banchetterìa dallo spuntar dell'alba:
Ché non v'ha donna che per gran sembiante
Per bellezza e per senno a te s'agguagli". 310

E la nobile a lui d'Icario figlia:
"Eurimaco, virtù, sembianza tutto
Mi rapiro gli dèi, quando gli Argivi
Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse.
S'egli, riposto in sua magione il piede, 315
A reggere il mio stato ancor prendesse,
Ciò mia gloria sarebbe e beltà mia.
Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo
Mali piombaro. Ei, d'imbarcarsi in atto,
Prese la mia con la sua destra, e: "Donna", 320
Disse "non credo io già che i forti Achei
Da Troia tutti riederanno illesi:
Poiché sento pugnaci essere i Teucri,
Gran sagittari e cavalieri egregi.
Che pel campo agitar sanno i destrieri 325
Rapidamente: quel che in breve il fato
Delle guerre terribili decide.
Quindi, se me ricondurran gli eterni,
O Troia riterrà morto o cattivo,
Sposa, io non so. Tu, sovra tutto, veglia. 330
Rispetta il padre mio, la madre onora,
Come oggi, od ancor più, finch'io son lunge.
E allor che del suo pel vedrai vestito
Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado,
Lasciando la magion, vanne consorte." 335
Tal favellava; ed ecco giunto il tempo.
L'infausta notte apparirà, che dee
Portare a me queste odïose nozze,
A me, cui Zeus ogni letizia spense.
Ma ciò la mia tristezza oggi più aggrava, 340
Che gli usi antichi non si guardan punto.
Color, che donna illustre e d'uom possente
Figlia un dì ambìano e contendean tra loro,
Belle conducean vittime, gli amici
Per convitar della bramata donna, 345
E doni a questa offrìan: non già l'altrui
Struggeano impunemente a mensa assisi".

Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo
De' proci i doni procurasse, e loro
Molcesse il petto con parole blande, 350
Mentre in fondo del cor altro volgea.

Ma così Antìnoo allor: "Nobil d'Icario
Figlia, saggia Penelope, ricevi
I doni che gli Achei già per offrirti
Sono, e cui fora il ricusar stoltezza; 355
Ma noi di qua non ci torrem, se un prima
De' più illustri fra noi te non acquista".

Piacquero i detti: e alla sua casa ognuno
Per li doni spedì. L'araldo un grande
Recò ad Antìnoo e vario e assai bel peplo, 360
Che avea dodici d'ôr fibbie lampanti
Con ardiglioni ben ricurvi attate.
Eurimaco un monile addur si fece
D'oro e intrecciato d'ambra, opra da insigne
Mastro sudata, che splendea qual sole. 365
Due serventi portaro a Euridamante
Finissimi orecchini a tre pupille,
Donde grazia infinita uscìa di raggi.
Fregio non fu men prezïoso il vezzo,
Che re Pisandro, di Polittor figlio, 370
Dalle mani d'un servo ebbe; e non meno
Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni.
La divina Penelope, seguita
Dall'ancelle, co' doni alle superne
Stanze montava; e i proci al ballo e al canto 375
Finché, a romper nel mezzo i lor diletti,
L'ombra notturna sovra lor cadesse.

Caduta sovra lor l'ombra notturna,
Tre gran bracieri saettanti luce,
Cui legne secche e dure e fesse appena 380
Nodrìano, i servi collocar nel mezzo;
E allumâr qua e là più faci ancora.
Cura di questi fuochi aveano alterna
Le donne del palagio. A queste feo
Tai detti il ricco di consigli Ulisse: 385
"Schiave d'Ulisse, del re vostro assente
Per sì lunga stagion, la veneranda
Regina vostra a ritrovar salite.
Fusi rotando o pettinando lane,
Sedetele vicino, e ne' suoi mali 390
La confortate. Mio pensier frattanto
Sarà, che ai proci non fallisca il lume.
Quando attendere ancor volesser l'alba,
Me non istancheran: ché molto io sono
Da molto tempo a tollerare avvezzo". 395

Questi detti lor feo. Riser le ancelle,
E a vicenda guardavansi, e schernirlo
Con villane parole una Melanto,
Bella guancia, s'ardìa. Dolio costei
Generò, ma Penelope nutrilla, 400
Siccome figlia, nulla mai di quanto
Lusinga le fanciulle, a lei negando:
Né s'afflisse per ciò con la Regina
Melanto mai, che anzi tradìala, e s'era
A Eurimaco d'amor turpe congiunta. 405
Costei pungea villanamente Ulisse:
"Ospite miserabile, tu sei
Un uomo, io credo, di cervello uscito,
Tu, che in vece d'andar nell'officina
D'un fabbro a coricarti o in vil taverna 410
Qui tra una schiera te ne stai di prenci,
Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente
Ti salì senza forse il molto vino,
O d'uom brïaco hai tu la mente, e quindi
Senza construtto parli. O esulti tanto, 415
Perchè il ramingo Iro vincesti? Bada,
Non alcun qui senza indugiare insorga,
Che, d'Iro assai miglior, te nella testa
Con le robuste man pesti, e t'insozzi
Tutto di sangue, e del palagio scacci". 420

Bieco guatolla, e le rispose Ulisse:
"Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi
Perch'ei ti tagli qui medesimo in pezzi,
A riportare andrò". Così dicendo,
Le femmine atterrì, che per la casa 425
Mosser veloci, benché a tutte forte
Le ginocchia tremassero: sì presso
Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero.
Ei si fermò presso i bracieri ardenti,
La luce ravvivandone, e tenendo 430
Gli occhi ne' proci ognor, mentre nemiche
Cose agitava, e non indarno, in petto.

Atena intanto non lasciava i proci
Rimanersi dall'onte, acciò in Ulisse
Crescer dovesse col dolor lo sdegno. 435
Eurimaco di Polibo parlava
Primo, l'eroe mordendo e a nuovo riso
Provocando i compagni: Udite, amanti
Dell'inclita regina, un mio pensiero,
Che tacer non poss'io. Non senza un nume 440
Venne costui nella magion d'Ulisse.
Splender gli veggo, come face, il capo,
Sovra cui non ispunta un sol capello".
Quindi, al rovesciator delle munite
Città, converso: "Forestier", soggiunse, 445
"Vorréstu a me servir, s'io ti pigliassi
Per assestar nel mio poder le siepi,
E gli alberi piantar? Buona mercede
Tu ne otterresti: cotidiano vitto
E vestimenti al dosso e ai piè calzari. 450
Ma perché sol fosti di vizî a scuola,
Anzi che faticar, pitoccar vuoi,
Onde, se t'è possibile, sfamarti.

"Eurimaco", rispose il saggio Ulisse,
"Se tra noi gara di lavor sorgesse 455
A primavera, quando il giorno allunga,
E con adunche in man falci taglienti
Ci ritenesse un prato ambo digiuni
Sino alla notte, e non mancasse l'erba;
O fosser da guidare ad ambo dati 460
Grandi rossi, gagliardi e d'erba sazî
Tauri d'etade e di virtude eguali,
E date quattro da spezzar sul campo
Sode bubulce col pesante aratro:
Vedresti il mio vigor, vedresti, come 465
Aprir saprei dritto e profondo il solco!
Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra
Da qualche parte ci volgesse addosso,
Ed io scudo e due lance, ed alle tempie
Salda celata di metallo avessi, 470
Misto ai primi guerrier mi scorgeresti
Nella battaglia, e l'importuna fame
Gittare a me non oseresti in faccia.
Or protervo è il tuo labbro e duro il core,
E forte in certa guisa e grande sembri, 475
Perché con poca gente usi e non brava:
Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste
Porte, benché assai larghe, a te già vôlto
Negli amari, cred'io, passi di fuga
Deh come a un tratto sembreriano anguste!" 480

Eurimaco in maggior collera salse,
E, guardandolo bieco: "Ah! Doloroso",
Disse, "vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci
Così gracchiar fra tanti, e nulla temi?
O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo, 485
O quel vinto Iro ti cavò di senno".

Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse
S'abbassava d'Anfinomo ai ginocchi
Per cansarsi da Eurimaco, che in vece
Nella man destra del coppier percosse. 490
Cascata rimbombò la coppa in terra,
E il pincerna ululando andò riverso.
Strepitavano i proci entro la sala
Dall'ombre cinta della notte, e alcuno
Mirando il suo vicin: "Morto", dicea, 495
"Prima che giunto qua, l'ospite fosse!
Portato non ci avrìa questo sì grave
Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque?
Per un mendìco, e già svanì de' nostri
Prandî il diletto ed il più vil trionfa". 500

E Telemaco allor: "Che insania è questa,
Miseri, a cui non cal più della mensa?
Certo vi turba e vi commuove un dio.
Su via, poiché de' cibi e de' licori
Tacerà il desiderio in tutti voi, 505
Ite a corcarvi, se vel detta il core,
Ne' vostri alberghi: ché nessuno io scaccio".

Tutti, mordendo il labbro, alle sicure
Parole di Telemaco stupîro.
Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre 510
Figliuol di Niso: "Amici, a chi ben parla
Sinistro più non si risponda o acerbo,
Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi,
Che in corte son del rinomato Ulisse.
Muova il coppiere in giro; e poscia, fatti 515
I libamenti, nelle nostre case,
Le membra al sonno per offrir, si vada,
E si lasci a Telemaco la cura
Dello stranier, quando al suo tetto ei venne".

Disse, e non fu cui non piacesse il detto. 520
L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo
D'Anfinomo, versò dall'urna il vino,
E a tutti in giro nelle tazze il porse;
Ed i proci libaro, e del licore
Dolce, qual mele, s'innondaro il petto. 525
Ma com ebber libato, e piena voglia
Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno,
Affrettò di ritrarsi al proprio albergo.

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