Biblioteca:Museo Grammatico, Ero e Leandro

Narrami, Dea, la testimonia face
Degli amori furtivi, e gl'imenei
Che col nauta notturno il mar solcaro,
E il tenebroso nodo al guardo ignoto
Dell'Aurora immortal, e Sesto e Abido
Ove i notturni fur sponsali d'Ero.
Già già Leandro il nuotatore ascolto
E in un la face che fu nunzia eccelsa
Del venereo messaggio e nunzia d'Ero,
A cui, mentr'essa fea sue buje nozze,
Le nozze ornava. Era d'Amor l'immago
In lieti modi in quella teda scolta;
E ben doveva dall'etereo Zeus,
Dopo compiuto il suo notturno uffizio,
Esser degli astri all'alto coro aggiunta,
E nomarsi d'amor pronuba illustre,
Perché già fu delle penose cure
Dell'Idalio fanciul chiara ministra,
E custodì del vigilante imene
L' annunzio, prima che il nemico vento
Coll'importuno suo soffio spirasse.
Su via; meco a cantar dunque t'unisci
Il fin che lei col bel Leandro estinse.
Di Sesto a fronte è la città d'Abido,
Al margo ambe del mar, ambe vicine:
Ed il Divo Cupido teso l'arco
Ad ambe le città vibrò uno strale
Che un garzoncello ed una vergin arse.
Ei l'amabil Leandro si nomava,
Ero la vaga e casta donzelletta:
Ella Sesto abitava ed, egli Abido;
D'ambe queste città stelle venuste
Fra lor simili. O tu che la passassi,
T'arresta a ricercar di certa torre
D'onde sporgeva la sestia Ero il lume
Ch'era di scorta al bel Leandro amante;
Della vetusta Abido ancor ricerca
L'ondisonante stretto, che la morte
E l'amor piange di Leandro ancora.
Ma come mai Leandro, che d'Abido
Le contrade tenean, d'amor s'accese
Per Ero, ed essa in laccio egual fu stretta?
Costei che in sorte regal sangue aveo.
Dell'Afrodisia Diva era Ministra.
Lungi dal patrio tetto, entro una torre
E delle nozze non per anco istrutta
Lunghesso il mar propinquo avea dimora.
Nuova Ciprigna, ma modesta e casta
D'altre donne non mai s'unia alla schiera,
Né il pie portò giammai fra i graziosi
Balli di fresca gioventù a lei pari;
Evitando così dell'invidiose
Femmine il livor tristo, che nel seno
Destasi lor per la beltade altrui.
Ma sempre Citerea Afrodite placava,
Ed era spesso a conciliarsi intenta
Co' sagrifici la Celeste Madre
E in un d'Amor il Dio: tanto l'ignita
Faretra paventava. Eppur indarno
Tentò sottrarsi agli infuocati dardi.
Delle gran feste popolari il tempo,
Che d'Adone in onore e di Ciprigna
Si celebrano in Sesto, era omai giunto.
Ed a caterve, s'affrettavan tutti
Per giugnere colà nel sacro giorno
Gli abitator dell'isole vicine,
Quelli d'Emonia pur ed altri ancora
Della marina Cipride, né veruna
Donna vi fu che in le città restasse
Di Citera, né alcuno danzatore
Che non scendesse dalle cime eccelse
Dell'odoroso Libano, né quello
Che Frigia accoglie nel materno seno,
Né cittadin della vicina Abido,
Né garzon che piagato ha il cor d'amore;
Poiché questi accorrendo ovunque fama
Grido diffonde di solenni feste,
Non tanto è tratto dall'amor dei Numi
Quanto dal bel di vagheggiar desio
Le vergini leggiadre insieme accolte,
Pel tempio della Dea iva a diporto
La bella vergin Ero, e tramandava
Lampi dal viso di modesta luce,
Qual la nascente suole argentea luna.
Il colmo delle sue candide gote
Di porpora lucente era dipinto,
Come apparir a due color si vede
Rosa gentil dal buccio suo dischiusa.
Sembravano di rose un prato ameno
Le membra sue vezzose e dilicate
Che un bianco vel coprià leggiadramente.
S'ella movea sotto suoi piè le rose
Pompa facean di lor natia bellezza,
E dalle membra tutte traspirava
Folto drapello di venuste grazie.
Inver mendaci fur gli antichi allora
Che disser tre soltanto esser le Grazie,
Mentre della bell'Ero un occhio solo
Splendea di cento e cento Grazie adorno.
Come potea trovar la Cipria Dea.
Sacerdotessa di costei più degna?
Vincendo assai dell'altre donne il pregio
Parca d'Amor novella Genitrice.
Le molli percuoteva alme flessibili
De' giovanetti, né di loro un solo
Un sol non v' era che per lei piagato
Non desiasse sua compagna averla.
Ella errava pel tempio, e l'alme intorno,
Gli occhi, i pensier del maschil sesso avea;
Sicché alcun di que' giovani rapito
Dallo stupor sciolse in tai detti il labbro.
A Sparta fui, Lacedemone io vidi,
Ove di belle esser sappiam la gara;
Pur simile a costei colà non scorsi:
Tanto pregievol è, tenera tanto!
E, né mal m'apporrò, quivi Ciprigna
Di sue giovani Grazie ave fors'una.
Stanco già di mirar, non sazio ancora,
Varcare io gradirei l'ombre Letée
Dopo che imene stretto seco aveasi;
Né un Nume esser d'Olimpo io curerei
Quando nel tetto mio fosse mia sposa....
Ma se appressarmi, o Citerea, non lice
Alla vergine tua vaga Ministra,
Dammi la sposa deh che le somigli!...
Così questi parlava. Intanto altrove
Chi la ferita rinserrava in core,
A rimirar tante bellezze intento
In sospiri profondi si struggeva.
Ma come tu, miser Leandro, hai visto
L'inclita verginetta, al cor sdegnasti
Stimoli occulti a esacerbar la piaga.
E all'improvviso dagli ardenti strali
Domo, volevi abbandonar la vita,
Se tua non fosse la bellissim Ero.
Al dolce lampeggiar de' sguardi suoi
La vampa in esso s'accrescea d'amore,
Ed il cor con vieppiù d'ardore e fuoco
Ardeva tutto alla crudel violenza;
Giacché insigne beltà di donzelletta
D'ogni difetto scevra ognun percuote
Rapida più d'una saetta alata.
L'occhio è la strada, e dal corrusco lampo
Dell'occhio feritor s'apre la piaga
Che va l'interno a ricercar dell'uomo.
Ei fu compreso in questo punto e stretto
Dallo stupor e dall'audacia insieme
E dalla verecondia e dal tremore.
Il cor gli palpitava in fiera guisa,
Né del pudor lo ratteneva il freno.
Ma intanto ch'ei di maraviglia preso
La perfetta di lei beltà mirava,
Toglieagli Amore ogni rossor dal volto.
E omai spezzato ogni primier ritegno
Inverecondo il piè tacitamente
Ver lei moveva, e in faccia a lei fermossi.
Alla vaga donzella obbliquamente
I suoi volgeva lusinghieri sguardi,
E con mute espressioni e cenni accorti
Le seduceva il vagheggiato core.
Ma di Leandro ella conobbe appena
L'ingannevol desio che si godette
Di sua beltade, e molte volte ancora
Corrispondendo con occulti, segni
Taciturna celossi il bel sembiante,
E a lui rimpetto l'inchinò, di nuovo.
Egli che vide gli amor suoi già noti
Alla donzella, e pur non n'era schiva,
Tutto esultava nel segreto petto.
Or mentre s'attendea furtivo istante
Dal giovane Leandro, in ver l'occaso
Già già scendeva la diurna luce
A raccorre il suo lume in occidente,
E dall'opposta parte espero apparve
Dell'ombre taciturne alma foriera.
Tosto ch'ei vide l'orizzonte intero
Coperto della notte atro-vestita,
Arditamente alla fanciulla amata
S'appressò, e distringendo in dolci modi
Sue rosee dita, dal profondo seno
Gravi e dolenti ne traea sospiri.
Ella taceva, e disdegnosa in atto
La rosata sua mano a se ritrasse.
Ma ei ben s'arride che da questi segni
Dell'amabil donzella era la mente
Più docil resa, e pien d'audacia allora
Colla man le scotea la varia veste,
E dell'augusto venerando tempio
Alle soglie remote ei la trace.
Ero però la vergine diletta
Con lento passo i passi suoi seguia,
Quasicchè ritrosetta lo sdegnasse;
E minacciosa con femminee voci
Così proruppe al garzoncel d'Abido:
Quale, o straniera follia t'ingombra? E dove
Me guidi vergin sventurata ahi! troppo?
Altrove il piè rivolgi, e il manto lascia,
Ed allo sdegno ed al furor t'invola
De' genitori miei ricchi e possenti.
Non lice a te dell'Afrodisia Diva
La Ministra toccar: né facil puossi
D'una vergin godere il casto letto.
In guisa tale a minacciarlo imprese,
Come il decor chiedea di verginella.
Ma dopo che Leandro ebbe il furore
Delle minacce femminili udito,
Delle vergini scorse i segui, ond'esse
Si palesan per vinte, ché allorquando
Si fan le donne a minacciare i giovani
Son le stesse minacce messaggere
D'amorosi congressi. Ad essa intanto
La colorita gola egli baciando
Che tutta oliva di soavi essenze,
Punto d'amor articolò tai detti:
O Afrodite mia cara, dopo Afrodite!
O dopo di Minerva, mia Minerva!
Poiché chiamarti alle terrene donne
Non voglio egual, ma del Saturnio Zeus
Alle figliuole assomigliar ti deggio.
Felice il genitor che ti produsse,
E la madre beata da cui fosti
Tu partorita, e più felice il grembo
Che t'ha portata in sé! ... Ma deh le mie
Calde preghiere ascolta, e dell'ardore
Che mi trasporta a tanto impietosisci!
Quale tu sei di Citerea Ministra
L'opre di Citerea seguir ti piaccia.
I sacri della Dea riti nuziali
T'appresta adunque a celebrar, ché male
Ad Afrodite s'addice per Ministra
Una casta donzella. Essa non ama
Vergini avere. Che se poi di questa
Le dolci leggi ed i fedeli arcani
Apprender vuoi, sono le nozze e il letto.
S'è ver ch'ami Ciprigna, degli amori
Servi all'amabil legge che la mente
Sa raddolcir. Me tuo supplice accogli
E sposo ancor, se vuoi, giacché Cupido
Mi cacciò co' suoi dardi, e mi ti ha preso,
Come il veloce auriverga Ermes
Trasse servo d'amore Ercole audace
Alla Jardania ninfa. Ma dal saggio
Ermes scorto non son io; guidommi
Cipride a te. Non debbe esserti occulto
Come l'Arcadia vergine Atalanta,
Che dell'amante Melanione il letto
Un dì fuggia per conservar la sua
Verginità, Afrodite irata poi
Quel ch'ella non amò crudele in pria
Fé sì che il cor di lei tutto occupasse.
E tu pur cedi persuasa, o cara,
Per non destar di Citerea lo sdegno.
Così quegli, parlò d'amor facendo
L' anima accesa gareggiar co' detti,
Ed in tal modo persuasa ei vinse
Della donzella la ritrosa mente.
La vergin muta allora in terra fisse
Lo sguardo, onde celar la rubefatta
Guancia per lo pudor. Del piè sull'orma
Radea del suol la superficie intanto,
E di vergogna in atto agli omer suoi
Spesso, intorno stringea la propria veste.
Di persuasion tutti eran questi
Espressi segni, ed il silenzio istesso.
In vergin vinta è la promessa al letto.
E già d'amor le riscaldava il seno
Un commisto ad amar stimolo dolce,
E 'l suo vergine cor d'un grato fuoco
Dolcemente abbracciava, e alla bellezza
Dell'amabil Leandro istupidiva.
Or mentre al suol tenea china la fronte
Non mai colla d'amor vampante faccia
Erasi stanco di mirar Leandro
Della fanciulla il delicato collo.
Ed essa alfin la sua voce soave
Ver Leandro die fuor, dal volto il molle
Rossore di vergogna distillando:
Colle parole tue le pietre istesse
Moveresti, o Stranier. E chi del vario
Parlare t'insegnò gli astuti giri?
Ohimè !... chi mai nella mia patria terra
Chi ti guidò?...Son vani i detti tuoi,
Tutti son vani. Poiché tu straniero
Errante e infido come mai potresti
Far che il tuo fosse all'amor mio congiunto?...
Pubblicamente in sacri nodi unirci
A noi non lice, ed i parenti miei
Lo vieterian. Se poi ospite ignoto
Tu nella patria mia volessi starti
Non potresti celar l'occulta venere,
Che la lingua dell'uom tende all'oltraggio
Dell'altrui fama, e ciò che alcuno oprato
Ha nel silenzio ode eccheggiar per trivj.
Or dimmi il nome tuo, ned occultarmi
Quello del patrio suol, e acciò ti sia
Palese il mio, l'inclito nome ho d'Ero.
In questa torre, che sonanti i flutti
Circondan col fragor, la mia magione
Vi sta sublime, in cui sola abitando
Con un ancella mia, dinante a Sesto
Sovra l'acque profonde, ho il mar propinquo
Per severo voler de' miei parenti.
Né le fanciulle a me d'etade eguali
Mi son vicine, né presenti ho mai
De' giovani le danze: io notte e giorno
Sempre e solo all'orecchie ho il roco suono
Del mar che fiero romoreggia ... E in questo
Favellar nascondea sotto la veste
La rosea guancia che il pudor di nuovo
Così dipinse; e sé medesma ancora
Di sue parole riprendea già dette.
Ma dall'acuto spron d'amor percosso
Il giovane Leandro, iva pensando
In qual modo pugnar nell'amoroso
Certame egli dovesse, dacché vario
Ne' suoi consigli Amor co' dardi suoi
L'uomo doma, ed all'uom ch'era piagato
La ferita risana, ed a coloro
Di cui domina il core , ei ch'è d'ognuno
Lo scaltro domator, consiglier fassi.
Ora egli stesso all'amator Leandro
Porgeva ajuto; onde alfin quei gemendo
In tali sciolse maliziosi accenti:
Vergin! per amor tuo l'aspero flutto
Rappasserò , benché di fuoco ei bolla;
E fosse l'onda innavigabil, io
No ch'io non temo il minaccioso flutto
Per venir al tuo letto , né il sonoro
Fremer del mar che mugge. Ma portato
Sempre pel mar di notte umido sposo
A nuoto solcherò dell'Ellesponto
La corrente infedel; non lungi, siede
Di fronte a questa tua la patria mia
D'Abido la città. Soltanto accendi
Dall'eccelsa tua torre una lucerna
Che a me rincontro le tenebre allumi:
E così in riguardarla un amorosa
Nave io mi sembri; il lume tuo di stella
Guidatrice sarammi, in cui fissando
Contento il guardo, da me fian negletti
L'occidental Boote, il fiero Orione,
E del Plaustro il non mai bagnato carro,
E venga intanto della patria tua,
Che m'è posta a rimpetto, al dolce porto,
Ma bada, o cara, che de' venti il grave
Soffiar non spenga il lume (ond' io ben tosto
L'anima esalerei), lume che chiaro
Duce fia di mia vita! S'anco poi
Veracemente tu volessi il mio
Nome saper, Leandro ho nome, sposo
Della ben ghirlandata Ero venusta,
Così costor con clandestine nozze
Concertavan d'unirsi, e giurar fede
Di conservare i lor notturni amori
E il messaggio d'Imene alla presenza
Della lucerna: ella d'esporre il lume,
E questi di solcare i lunghi fiotti.
Trascorsa poscia de' veglianti nodi
La grata notte, l'un dall'altro astretti
Dalla necessità si separaro;
Quella alla propria torre, ei per le folte
Ombre segnando della rocca il luogo
Per non smarirsi, a nuoto giva al vasto
Popol d'Abido che profondo ha il piede.
Ed alle occulte maritali pugne
Essi agognando nell'intera notte,
Pregar sovente che venisse il buio
Del talamo ministro. Omai sorgea
La caligin di notte in negro manto
A qualunque mortale a recar sonno:
Non già a Leandro innamorato. Il cenno
Questi del mar sonante appresso il lido
Attendea delle nozze alto - lucenti,
E la teda feral nunzia tremenda
Del talamo segreto, avido ognora
Scorger da lungi desiava. Allora
Che l'ali sue caliginose appieno
Ebbe l'oscurità stese d'intorno,
Trasse Ero fuori la facella: e questa
Subito accesa, il pargoletto Dio
Del smanioso Leandro il cuore accese,
Ond'essa ardente in un con esso ardeva.
Ma delle furiose onde del mare
Lo strepitoso rimbombar udendo
Alquanto in pria tremava , indi l'ardire
Svegliò nel seno, e a confortar si diede
L'anima impaurita con tai detti:
Implacabile è il mar, crudo l'amore:
Ma è del mar l'acqua, e mi divora interno
Fuoco d' amor: di fuoco adunque, o core,
Fatti intorno lorica, e senza tema
Va l'acqua ad affrontar ch'ivi si spande:
Corri all'amor ..... Perché paventi i flutti?
Non sai che Citerea dell'onde è prole?
Ch' ella domina il mare e i nostri affanni?...
E così detto dalle vaghe membra
Con ambedue le man spogliò la veste,
Al suo capo la strinse, e dalla ripa
Balzò lanciando il corpo suo nel mare,
E della face fiammeggiante ognora
S'affrettava a rincontro, ed a sè stesso
E remigante e carco e nave egli era.
Intanto in vetta la lucifer' Ero
All'alta torre proteggea sovente
Col vel la face dai funesti soffi
Da quella parte ove moveasi il vento;
Finché Leandro affaticato giunse
Di Sesto al naval porto, e alla sua torre
Ella il condusse. E l'anelante sposo
Che ancor delle spumose acque del mare
Stillanti area le chiome, dalla porta
Nel silenzio abbracciato insin guidollo
Nel più riposto verginal ricetto
Che già tenea per queste nozze adorno.
Quivi ella tutto rasciugogli il corpo,
E d'un unguento che di rose oliva
L'unse, tal che del mar svanì l'odore.
Poscia nel letto spiumacciato, tutto
Stringendo il palpitante ancor marito
Al suo fervido petto, in questi motti
Più che mel dolci sprigionò la voce:
A te che tanto sofferisti, o sposo,
Quanto giammai sposo verun sofferse,
Sì, o sposo, a te che sopportasti tanto
E la sals'onda basti ed il piscoso
Odor del mar che mormorante freme:
Qua nel mio seno i tuoi sudor deponi.
Tacque ciò detto: ed ei tosto il bel cinto
Le sciolse, e dell'amica Dea Ciprigna
Si assoggettaro alle gradite leggi.
Si fer le nozze, ma non v'eran danze;
Eravi il letto, ma non v'eran gl'inni;
Né lodò vate alcuno il sacro giogo,
Né il talamo nuzial fu reso chiaro
Dallo splender di faci, né i piè mosse
Agili alcuno ad intrecciar carole,
Né il padre né la madre ha l'imeneo
Cantato. Ma il silenzio che nell'ore
Sacre a sponsali rifaceva il letto,
Il talamo piantò; la sposa ornaro
Caliginose tenebre; e de' canti
Degli imenei fu privo il maritaggio.
Era però pronuba lor la notte,
Né lo sposo Leandro unqua si vide
Palesamente dall'aurora in letto:
Che nuotando di nuovo ci ritornava
Al situato a dirimpetto Abido
Spirante ancora le notturne nozze,
Ma non già sazio. Ed Ero avvolta in lungo
Manto, ingannando i genitori suoi,
Era vergine il dì, sposa la notte:
E spesso ambo devoti alzar preghiere
Acciò scendesse in ver l'occaso il giorno.
In tal guisa costor cauti celando
Del reciproco amor la dura possa
D'occulta Afrodite si prendean diletto.
Ma di lor vita assai fu breve il tempo,
Né de' vaghi imenei fruiro a lungo;
Ché sovraggiunse del brinoso verno
La rigida stagion che vorticose
Volvea procelle orrende, e le non ferme
Cavitadi e del mar l'acquoso fondo
Sbattean col soffio gl'iemali venti
E tutto percuotean col turbo il mare;
E già il nocchier la tempestosa e infida
Onda fuggendo, al bipartito porto
La sbattuta spingea negra sua nave;
Ma te d'iberno procelloso mare
Non ritenne il timor, Leandro audace.
Il nunzio appena dell'usate nozze
T'avea mostrato dalla torre il lume,
Che fosti spinto al crudel cenno ed empio
La furibonda a disprezzar marea
Del verno all'apparir Ero infelice
Ben dovea da Leandro esser disgiunta,
Né accender più l'astro forier del letto.
Ma l'astrinse l'amor, l'astrinse il fato,
E lusingata, oh Dio! L'orribil face
Delle Parche mostrò, non più d'Amore.
Era la notte, e più perversi i venti,
Venti che intorno con iberni soffi
Sferzavano crudeli, ivan spirando,
E aggrovigliati fieramente insieme
Si scagliavan del mare in sulla sponda;
Allor che preso di speranza il core,
A traverso portato era Leandro
I sonanti marittimi imenei.
Già travolgeasi sovra il flutto il flutto,
S'accavallavan l'onde, il mar coll'etra
Già si mesceva, e la percossa terra
Scoteasi anch'essa al battagliar de' venti.
Euro spirava a Zefiro dincontro,
E Noto irato ad Aquilon protervo
Fiere minaccie inviava, ed incessante
Un rimbombo scorrea pel mar sommosso.
Ma Leandro meschino entro gli immiti
Vortici intanto, i voti suoi porgea
Supplice spesso alla Marina Afrodite,
E spesso ancora al Re del mar Nettuno,
Né immemore lasciò l'Attica ninfa
A Borea crudo. Ma di nullo ajuto
Gli fur cortesi, e Amor, lo stesso Amore
Delle Parche la forza invan trattenne.
Dal rio furor degli adunati flutti
Che il percotevan con opposta fronte,
Qua e là vagante egli venia portato.
Mancò vigore al piè, di tutta lena
L' irrequiete palme esauste furo;
Molti per gola trascorreangli d'acqua
Ampi rovesci, e suo mal pro l'ingrato
Umor bevea dell' implacabil mare.
E già vento crudel l'infida estinse
Ardente face, e di Leandro oh Dio!
Di lui che chiama in su le ciglia il pianto,
E la vita e l'amor con essa estinse.
Mentre indugiava quei, con vigil occhio
Ero si stava in angosciose cure.
Surse l'aurora alfin, pur non vedea
Ero il consorte. D'ogni intorno il guardo
Per l'immenso del mar dorso ella stese,
Acciò veder, se, poiché spento il lume,
In qualche parte il caro sposo errasse.
Ma quando al piede della torre il scorse
Pesto da scogli, estinto, allor la vaga
Leggiadra veste si squarciò dal petto,
E da sé stessa dall'eccelsa torre
Capovolta nel mar precipitò.
Così sul morto sposo Ero morìo,
E si godero ancor nel fato estremo.