Biblioteca:Luciano, Una Storia Vera, Libro I

Come gli atleti e quanti praticano esercizio fisico si preoccupano non soltanto di mantenersi in forma e di allenarsi, ma anche di concedersi al momento opportuno un po' di riposo (lo ritengono infatti un momento essenziale della loro attività), ugualmente - io credo - anche chi svolge un'attività intellettuale, dopo una lettura prolungata di libri seri, deve rilassare la mente in modo da renderla più pronta in vista delle fatiche che verranno.
Questa pausa, poi, sarebbe sfruttata al meglio se si dedicassero a un genere di letture in grado non soltanto di offrire il fascino derivante dall'ironia e dal tono brillante, ma anche di coniugare l'utile con il dilettevole; e questo, spero, si penserà della mia presente composizione. Spero, cioè, che costituirà motivo di attrazione per un simile pubblico non soltanto la stranezza dell'argomento o l'armonia dell'impianto narrativo, tantomeno il mio modo di presentare bugie stravaganti in una forma credibile e verosimile, ma il fatto che ognuna delle cose che descrivo è una «frecciata» destinata a coprire di ridicolo certi poeti e storiografi e filosofi del passato che hanno messo insieme e scritto una quantità di favole mirabolanti; tutta gente che nominerei, anche, se a chiunque le allusioni non risultassero chiare alla semplice lettura. Ad esempio Ctesia, figlio di Ctesioco, di Cnido, ha scritto sull'India e sugli usi e costumi degli Indiani cose che non aveva visto con i suoi occhi né aveva sentito dire da altri testimoni attendibili. Anche Iambulo ha scritto mille storie assurde sull'Oceano: certo ha costruito solo un castello di bugie da chiunque riconoscibili come tali, ma ne è uscita, nonostante questo, un'opera piuttosto gradevole.
Molti altri ancora hanno scelto la stessa strada già battuta da questi che ho citato: hanno stilato il resoconto di certi loro viaggi e peregrinazioni immaginarie, descritto belve gigantesche, uomini ferocissimi e usi e costumi di vita assolutamente mai visti prima. Il capostipite di questa numerosa famiglia e il maestro per eccellenza in una simile arte della ciarlataneria è l'Ulisse omerico, che ha raccontato ad Alcinoo e alla sua corte di vènti prigionieri, di uomini con un occhio solo, cannibali e selvaggi, e ancora di animali dalle molte teste e di compagni trasformati per opera di filtri magici (le fanfaronate, insomma, che ha propinato senza risparmio a quei poveri ingenui dei Feaci). Nel leggere, dunque, tutte queste stramberie, non ho potuto biasimare troppo gli autori per le loro bugie, perché so che ormai questo andazzo è generale, anche tra gli uomini di alta cultura: mi sono però stupito che potessero credere di farla franca pur scrivendo falsità su falsità. E così anch'io nel desiderio di lasciare - per vanità naturalmente - qualche messaggio ai posteri, per non restare il solo privo della sua parte di libertà assoluta nell'inventare favole, siccome non avevo nessun avvenimento reale da descrivere - purtroppo non mi è mai successo niente che meriti di essere raccontato - sono ricorso al falso, ma a un falso molto più onesto di quello dei miei predecessori, perché almeno in una cosa sono sincero: dichiaro ad alta voce che mento. Con questo sistema, con l'ammettere io stesso di non dire niente di vero, penso di poter scampare al biasimo altrui; sia chiaro dunque che scrivo di cose né viste con i miei occhi, né che mi sono capitate né che ho saputo da altri, ma, insomma, che proprio non esistono e che non potranno esistere mai; per questo i miei lettori non devono credere nemmeno a una parola. Un bel giorno dunque parto dalle colonne d'Ercole e, mollati gli ormeggi, col vento in poppa, punto in direzione dell'Oceano che sta a occidente. La causa e il presupposto del mio viaggio erano la curiosità insaziabile della mia natura e il desiderio di nuove esperienze: in particolare, volevo riuscire a sapere da cosa è costituito il limite dell'Oceano e che razza di gente vive al di là. A questo scopo, caricata un'enorme quantità di provviste, a cui avevo fatto aggiungere anche acqua a sufficienza, ho scelto una cinquantina di coetanei animati dalle mie stesse idee e desideri, poi mi sono procurato armi in abbondanza e ho assunto il migliore dei timonieri che sono riuscito a trovare, senza badare a spese per convincerlo a unirsi a noi: insomma ho messo la nave - era una nave leggera - in condizioni di affrontare una traversata che si prospettava lunga e che rappresentava una sfida alle leggi di natura. Dopo aver navigato un giorno e una notte in favore di vento ancora sottocosta, abbiamo preso il largo a un'andatura moderata, ma il giorno successivo, al sorgere del sole, il vento si è rinforzato, le onde sono diventate più alte, è calata una fitta nebbia e non eravamo nemmeno più in grado di ammainare le vele; non ci è rimasto quindi che abbandonarci alla furia degli elementi, e perben 79 giorni siamo stati in balia della tempesta. All'ottantesimo, però, all'improvviso, ha cominciato a splendere il sole e avvistiamo non molto distante un'isola alta e ricoperta da una fittissima vegetazione, intorno alla quale il fragore delle onde diventava meno violento, anche perché ormai la burrasca stava cessando quasi del tutto.
Siamo approdati, allora, e, scesi dalla nave, siamo rimasti un bel pezzo sdraiati per terra, stremati - come era logico, visto che eravamo usciti finalmente da una situazione drammatica durata tanto a lungo; comunque, poi, ci siamo tirati su e abbiamo deciso che 30 di noi rimanessero a far la guardia alla nave e 20 venissero con me a compiere una ricognizione nell'isola.
Ci eravamo inoltrati nella boscaglia, allontanandoci dal mare circa tre stadi, quando ci capita sotto gli occhi una colonna di bronzo, con un'iscrizione in caratteri greci, poco chiari e mezzo cancellati, che diceva: «Fin qui sono arrivati Eracle e Dioniso». C'erano anche due orme lì vicino, su una roccia, una di 30 metri, l'altra più piccola: secondo me, una doveva essere di Dioniso - la più piccola -, e l'altra di Eracle. Dopo la genuflessione di rito, abbiamo proseguito: ma non molto più in là ci troviamo davanti a un fiume in cui scorreva vino, e vino, oltretutto, uguale identico a quello di Chio: la portata del fiume era molto abbondante, tanto che in qualche tratto sarebbe stato possibile anche navigarlo.
A questo punto, naturalmente, si è venuta a rafforzare la nostra fede nella veridicità dell'iscrizione sulla colonna, perché avevamo sotto gli occhi il segno tangibile del passaggio di Dioniso. Decisi allora di scoprire anche dove nasceva il fiume, e lo risalii tenendomi lungo la sponda: ma non trovai nessuna sorgente, bensì molte viti, alte e cariche di grappoli: accanto alla radice di ognuna sgorgava una goccia di vino limpido e da queste aveva origine il fiume. C'erano anche, dentro il fiume, pesci in quantità, con la pelle color vino e pure col sapore di vino, tanto è vero che noi, quando ne abbiamo pescato qualcuno e lo abbiamo mangiato, ci siamo subito ubriacati: anzi, quando li abbiamo tagliati a pezzetti, li abbiamo trovati pieni di feccia. Poi, però, ci è venuta un'idea luminosa: abbiamo mescolato con questi gli altri pesci pescati in mare e così siamo riusciti a rendere un po' meno micidiale quel pasto a base di vino.
Una volta attraversato il fiume, in un punto guadabile, scoprimmo una prodigiosa qualità di viti: nella parte inferiore, che usciva da terra, il fusto era rigoglioso e robusto, di sopra, invece, erano donne, e a partire dai fianchi avevano tutti gli attributi femminili al loro posto: così i nostri pittori rappresentano Dafne mentre si trasforma in arbusto nel momento in cui viene raggiunta e ghermita da Apollo. Dalla punta delle loro dita nascevano i tralci pieni di grappoli, e anche in testa avevano, per capelli, viticci, foglie e grappoli. Quando ci avvicinammo, ci accolsero festosamente, salutandoci alcune in lidio, altre in lingua indiana, ma la maggioranza in greco. Non solo, ma ci baciavano sulla bocca: chi veniva baciato però, all'istante si ubriacava a cadeva in una specie di delirio. Non ci lasciavano peraltro cogliere i loro frutti perché sentivano dolore, e strillavano se glieli strappavamo. Volevano anche far l'amore con noi: ma due miei compagni, accostatisi a loro, non riuscirono più a liberarsi dall'abbraccio: rimasero attaccati a quelle per i genitali, cominciando a mettere gemme e radici intrecciate con le loro, anzi ben presto le dita di quei disgraziati divennero tralci e, stretti in un'unico intrico con i pampini delle donne-viti, erano lì lì per produrre frutti anch'essi. Noi allora li lasciammo per correre a rifugiarci sulla nave, dove, al nostro arrivo, raccontammo ai compagni rimasti là e l'amplesso, e la simbiosi con le viti e tutto il resto. Con delle anfore ci rifornimmo quindi sia di acqua sia, attingendo dal fiume, di vino e, dopo aver passato la notte accampati lì vicino sulla spiaggia, all'alba levammo le àncore con una brezza leggera. Verso mezzogiorno, quando ormai l'isola non era più in vista, all'improvviso si abbatté su di noi un tifone che prese nel suo vortice, facendola roteare, la nave, la sollevò fino a un'altezza di 300 stadi e non la depose più sul mare: sospesa su per aria, era spinta da un vento che soffiava nelle vele, gonfiandole.
Per 7 giorni e altrettante notti proseguimmo nella nostra corsa attraverso il cielo finché all'ottavo scorgemmo una grande terra - una specie di isola nello spazio - di forma sferica, brillante, che emanava una gran luce: allora ci siamo avvicinati, abbiamo attraccato e siamo scesi: a una prima ricognizione abbiamo scoperto un paese abitato e coltivato. Di giorno non vedevamo niente altro da lassù, ma come scese la notte, cominciarono ad apparire ai nostri occhi anche molte altre isole, nelle vicinanze, alcune più grandi, altre più piccole, dalla superficie colore del fuoco, e un'altra terra, laggiù, con città, fiumi, mari, boschi e catene di monti: immaginammo quindi che fosse quella abitata da noi.
Avevamo deciso di spingerci ancora un poco più avanti, quando venimmo catturati dai Cavalcavvoltoi - così li chiamano da quelle parti - che ci si pararono di fronte. Questi Cavalcavvoltoi sono uomini che vanno in giro in groppa a grossi avvoltoi, cioè usano questi uccelli a mo' di cavalli; gli avvoltoi sono enormi e per lo più a tre teste.
Quanto siano grandi lo si potrebbe arguire da un semplice particolare: ciascuna delle loro penne è più lunga e robusta dell'albero di una grossa nave da carico. I Cavalcavvoltoi hanno l'incarico di incrociare nel cielo del loro paese e, se trovano qualche straniero, di portarlo dal re: ovviamente hanno arrestato anche noi e ci hanno trascinato davanti a lui. Il re, dopo averci squadrati, ha domandato, deducendo la cosa dal nostro abbigliamento: «Voi dunque siete Greci, stranieri?» e al nostro «sì» ha aggiunto: «Come siete riusciti, in questo caso, a coprire una simile distanza attraverso gli spazi siderali e ad arrivare fin qui?». Noi allora lo abbiamo informato di tutto fin nei minimi dettagli; e anche il sovrano, a sua volta, ha incominciato a raccontarci la sua storia: lui pure era un terrestre, si chiamava Endimione, e un bel giorno, mentre dormiva, era stato portato via dalla nostra terra, era arrivato lassù, ed era diventato re di quel luogo: ha aggiunto poi che la terra dove ci trovavamo era quella che da laggiù ci appare come la Luna; ci ha raccomandato comunque di stare tranquilli e di non temere alcun pericolo: avremmo avuto a disposizione tutto quello di cui avevamo bisogno.
«Se poi mi va bene anche la guerra che ho intenzione di muovere in questi giorni contro gli abitanti del Sole, potrete vivere nel mio paese la vita più felice che abbiate mai sognato». Abbiamo chiesto chi fossero i nemici, e il motivo della discordia, e ci ha risposto: «Fetonte, re degli abitanti del Sole - perché naturalmente anche il Sole è abitato come la Luna - da molto tempo ormai conduce una guerriglia contro di me. Tutto è cominciato così: un giorno avevo riunito i più poveri del mio regno e avevo deciso di mandarli a fondare una colonia su Venere, che è una stella isolata e disabitata. Fetonte però, a cui la cosa non garbava affatto, ha impedito con la forza la fondazione della colonia, sbarrandoci il passo a metà strada alla testa di uno squadrone di Cavalcaformiconi. In quella occasione, per la verità, siamo stati battuti - le forze erano impari - e abbiamo dovuto ripiegare sulle nostre posizioni; adesso, però, voglio a mia volta scatenare la guerra e fondare a tutti i costi la colonia. Se ve la sentite, quindi, arruolatevi nel mio esercito; assegnerò a ciascuno di voi un avvoltoio, di quelli reali, e il resto dell'equipaggiamento; la sortita è fissata per domani». «D'accordo», ho risposto semplicemente, «come vuoi tu».
Allora ci siamo fermati e abbiamo cenato alla sua tavola, poi, al mattino presto, ci siamo alzati e disposti in ordine di battaglia, perché le vedette avevano segnalato che il nemico era vicino. Il grosso dell'esercito era costituito di centomila uomini, senza contare gli addetti alle salmerie e alle macchine, i fanti e gli alleati esterni: 80.000 Cavalcavvoltoi e 20.000 cavalieri montati su «alidinsalata». Questi «alidinsalata» sono uccelli enormi, con tutto il corpo fittamente ricoperto, invece che di penne, di insalata, e con le ali proprio precise identiche a foglie di lattuga. Accanto ai Cavalcalidinsalata erano schierati i Miglioboli e gli Agliomachi. Erano venuti come alleati anche truppe dall'Orsa, 30.000 Pulciarcieri e 50.000 Ventocorridori: i Pulciarcieri cavalcano su pulci giganti, da qui il loro nome; le pulci sono grandi circa quanto 12 elefanti; i Ventocorridori, invece, sono truppe di fanteria, e si muovono nell'aria senza ali, così; indossano tuniche lunghe fino ai piedi, le fanno gonfiare dal vento come vele, e si muovono, sfruttando lo stesso sistema delle piccole imbarcazioni; per lo più questi ultimi, nelle battaglie, fungono da fanteria leggera. Si era sparsa la voce che sarebbero arrivati dalle stelle che stanno sulla Cappadocia anche settantamila Cazzistruzzi e cinquemila Cavalcagrù, che però non ho visto, perché non sono venuti: perciò non me la sento di descriverli, tante erano le storie strabilianti e incredibili che si raccontavano sulla loro natura.
Questo era l'effettivo di Endimione. L'equipaggiamento era per tutti lo stesso: elmi di gusci di fava (nel loro paese le fave crescono grandissime e molto resistenti); corazze a scaglie sovrapposte tutte di gusci di lupini (le ricavano cucendo insieme le bucce dei lupini, che lassù sono dure e infrangibili come il corno); scudi e spade sono come quelli greci.
Al momento di attaccare, le truppe si schierarono così: all'ala destra stavano i Cavalcavvoltoi e il re, circondato dai suoi uomini migliori, tra cui anche noi; all'ala sinistra i Cavalcalidinsalata, al centro gli alleati, disposti ciascuno secondo il proprio sistema. I fanti, 60 milioni circa, vennero dislocati in questo modo: lassù abbondano dei ragni giganteschi, ognuno più grosso di un'isola delle Cicladi; ad essi Endimione aveva ordinato di tessere un'enorme tela che congiungesse la zona di cielo tra la Luna e la stella del mattino; non appena ebbero terminata l'opera e fornito così il campo di battaglia, vi è stata allineata la fanteria, al comando di Notturno, figlio del Re del Sereno, e di altri due.
L'ala sinistra degli avversari era formata dai Cavalcaformiconi, tra cui si trovava anche Fetonte: gli animali che montano sono enormi, alati, simili nell'aspetto alle nostre formiche tranne che nelle dimensioni: il più grosso doveva essere sui sessanta metri; e combatteva non solo chi li cavalcava, ma pure i formiconi, validamente, con le antenne. Si diceva fossero più o meno cinquantamila. Alla loro destra avevano gli Aerozanzaroni, in numero di circa cinquantamila anch'essi, tutti arcieri a cavallo di grosse zanzare; a fianco di questi gli Aeroballerini, fanti armati alla leggera, però quanto mai bellicosi: da lontano lanciavano con la fionda ravanelli giganteschi e chi veniva colpito non poteva resistere neanche un momento: moriva all'istante, mentre dalla ferita si sprigionava un fetore terribile, perché - a quanto si mormorava - intingevano i loro proiettili in veleno di malva. A loro stretto contatto vennero piazzati i Gambifunghi, fanteria pesante, addestrati per il combattimento ravvicinato, in tutto un diecimila: si chiamano Gambifunghi perché usano come scudo un cappello di fungo e come lancia un gambo d'asparago. Vicino a questi stavano i Canecazzi, inviati dagli abitanti di Sirio, cinquemila: si trattava di uomini con il muso di cane che combattevano a cavalcioni di cazzi alati. Secondo voci, pareva mancasse ancora parte dei rinforzi alleati, precisamente i Frombolieri mandati a chiamare dalla Via Lattea e i Nubicentauri. Questi ultimi sono poi arrivati quando le sorti della battaglia erano già decise; e magari non fossero mai arrivati! I Frombolieri invece non si sono presentati proprio; ragione per cui - sembra - Fetonte, infuriato, in seguito mise a ferro e fuoco le loro terre.
E con tale schieramento di forze avanzava Fetonte. Al levarsi delle insegne e al ragliare degli asini da entrambe le parti - usano gli asini al posto dei trombettieri - si accende la mischia e si combatte. L'ala sinistra dei Solari subito si ritira precipitosamente senza nemmeno aspettare l'urto con i Cavalcavvoltoi, e noi dietro, seminando strage; la loro ala destra, invece, riesce ad avere ragione del nostro fronte sinistro, e gli Aerozanzaroni marciano contro i nostri e li inseguono fin quasi alle linee della fanteria. Ma a questo punto, siccome anche i fanti si muovono in soccorso dei compagni, ripiegano e fuggono, ancor più rapidamente quando si accorgono che la loro ala sinistra è stata sconfitta. La disfatta era ormai lampante, molti vennero catturati vivi, molti uccisi, e il sangue scorreva a fiumi sulle nuvole, le intrideva e le arrossava, rendendole come appaiono giù nel nostro mondo al tramonto; molto sangue gocciolava anche sulla terra; ho immaginato allora che forse anche in passato era già successo qualche cosa di simile lassù, e Omero aveva interpretato il fenomeno, invece, come una pioggia di sangue mandata da Zeus per la morte di Sarpedonte.
Al ritorno dall'inseguimento, abbiamo innalzato due trofei, uno sulla ragnatela, per la vittoria della fanteria, l'altro sulle nuvole, per la vittoria aerea. Ma proprio a questo punto le vedette segnalano l'avvicinarsi a passo di carica dei Nubicentauri, che dovevano arrivare in aiuto di Fetonte prima dello scontro. Ed ecco comparire all'orizzonte e avanzare verso di noi questi esseri formati da cavalli alati e da uomini. Che spettacolo straordinario! Gli uomini erano alti come il colosso di Rodi dalla cintola in su, e i cavalli poi avevano le dimensioni di una grossa nave da carico. Il loro numero evito di riportarlo, tanto era enorme: nessuno mi crederebbe; li comandava il Sagittario dello Zodiaco. Appena resisi conto che i loro alleati erano stati battuti, inviano un messaggio a Fetonte, invitandolo a sferrare un nuovo attacco, poi, schieratisi in perfetto assetto di guerra, si lanciano sui Lunari che, già usciti dai ranghi e sparsi in disordine per il campo di battaglia, erano impegnati a dare la caccia ai nemici e a far razzia; li volgono in fuga e inseguono lo stesso re fino alla città, uccidendo il grosso delle sue truppe alate; scalzano anche i trofei, scorrazzano in lungo e in largo per la pianura tessuta dai ragni, e catturano me e due miei compagni. Ormai era tornato anche Fetonte e i nostri nemici hanno innalzato a loro volta altri trofei. Ci hanno quindi trasferiti sul Sole, il giorno stesso, con le mani legate dietro la schiena con un filo di ragnatela.
I Solari avevano però deciso di non cingere d'assedio la città: sono rientrati alla base, invece, e hanno costruito un muro attraverso l'aria in modo che i raggi del sole non riuscissero più ad arrivare fino alla Luna. Il muro era doppio, di nuvole: si verificò di conseguenza una vera e propria eclissi di luna, che così rimase completamente immersa in una notte senza fine. Endimione, messo alle strette da questo stratagemma, inviò degli ambasciatori al sovrano nemico supplicandolo di abbattere lo sbarramento di nuvole, e di non costringere i Lunari a vivere nell'oscurità; si impegnava anche a versare dei tributi, a essergli alleato e a non muovergli più guerra; e in garanzia di questo si offriva di mandare degli ostaggi. Fetonte e i suoi fedelissimi tennero due riunioni: nella prima non sbollì minimamente la loro furia, ma nel corso della seconda cambiarono atteggiamento e finalmente venne conclusa la pace in questi termini:

«I Solari e i loro alleati hanno stipulato un trattato con i Lunari e i loro alleati secondo queste clausole:

1) i Solari si impegnano a distruggere il muro e a non invadere più la Luna, nonché a restituire i prigionieri di guerra, ciascuno dietro pagamento di una somma pattuita;
2) i Lunari, a loro volta, si impegnano a lasciare l'autonomia alle altre stelle, e non solo a non prendere le armi contro i Solari, ma a combattere al loro fianco in caso di aggressione;
3) il re dei Lunari pagherà ogni anno al re dei Solari, come tributo, diecimila anfore di rugiada e consegnerà diecimila dei propri sudditi come ostaggi;
4) infine, la colonia su Espero verrà fondata in comune e con la partecipazione di chiunque altro vorrà. Il testo dei patti sarà inciso su una colonna di ambra che verrà eretta in mezzo al cielo ai confini dei due regni. Per i Solari hanno prestato giuramento Infuocato, Estivo e Fiammeggiante, per i Lunari invece Notturno, Mensile e Ultralucente».

Tali furono le condizioni dell'accordo. E subito cominciarono a smantellare il muro, e restituirono noi, che eravamo loro prigionieri. Quando rientrammo sulla Luna, i nostri compagni e Endimione in persona ci vennero incontro, abbracciandoci tra le lacrime. Endimione, per la verità, avrebbe voluto che ci stabilissimo nel suo paese e partecipassimo alla fondazione della colonia: promise perfino di darmi in moglie... suo figlio (nel loro paese infatti non esistono donne). Io però non mi lasciai convincere a nessun costo, e chiedevo anzi con insistenza di essere rispedito giù, sul mare. Come si rese conto che ero irremovibile, dopo averci trattenuti come suoi ospiti per una settimana, ci ha lasciato andar via.
Vi voglio raccontare adesso quel che di strano e mirabolante ho avuto occasione di osservare sulla Luna, nel periodo in cui mi sono fermato lassù. Innanzitutto i Lunari non sono partoriti dalle donne, ma dai maschi: si sposano tra uomini, e le donne non le hanno mai sentite nominare. Fino a venticinque anni ciascuno fa la moglie, dopo, il marito; restano «incinti» non nel grembo, ma nel polpaccio: quando viene concepito l'embrione, la gamba si ingrossa; un po' di tempo dopo, vi praticano un'incisione ed estraggono dei cadaverini, che espongono al vento con la bocca aperta: e così li rendono vivi. Suppongo dunque che da qui sia venuto ai Greci il vocabolo 'ventre della gamba', perché, tra i Lunari, porta il feto e funge da ventre. Ma vi riferirò un altro particolare ancora più stupefacente. Esiste nel loro paese una razza di uomini, chiamati Arborei, che nascono così. Tagliano il testicolo destro di un uomo e lo piantano nella terra; da questo spunta un albero molto grosso, di carne, simile a un pene, con tanto di rami e foglie; i suoi frutti sono ghiande lunghe quasi mezzo metro: quando le ghiande sono mature, le raccolgono, le spaccano, e ne estraggono gli uomini. I Lunari hanno i genitali posticci, certuni d'avorio, i poveri di legno, e con questi si accoppiano e hanno rapporti sessuali con i loro sposi.
Quando invecchiano, poi, non muoiono, ma si dissolvono come fumo e diventano aria. Il nutrimento è uguale per tutti: accendono il fuoco e arrostiscono sulla brace delle rane (dalle loro parti ce ne sono in quantità che volano nell'aria); mentre queste cuociono, se ne stanno seduti in cerchio proprio come intorno a una tavola, senza lasciarsi scappare neanche una minima parte del fumo che se ne sprigiona, e si gustano il succulento pranzetto. Questo per il cibo. La loro bevanda abituale, invece, consiste in spremute... di aria: l'aria spremuta dentro un calice produce un liquido simile a rugiada. Non orinano né vanno di corpo, e non hanno gli orifizi dove li abbiamo noi, tanto è vero che i ragazzi non offrono il didietro al contatto, ma la piegatura del ginocchio, sopra al polpaccio: è qui infatti che sono forati. È considerato bello da quelle parti chi è calvo, completamente senza capelli: di chi è fornito di folte chiome, anzi, hanno addirittura ribrezzo. Sulle comete, al contrario, piacciono quelli con i capelli lunghi; c'era gente che era stata lassù e lo raccontava. Anche la barba, a loro, cresce un po' più in alto del ginocchio e ai piedi non hanno unghie, ma un dito solo, tutti quanti. Appena sopra il fondo schiena hanno un cavolo di forma allungata, una specie di coda, sempre verde, che se anche uno casca di schiena, non si rompe.
Dal naso si soffiano un miele dall'odore acre, e quando compiono uno sforzo o fanno ginnastica, sudano latte dalla testa ai piedi, un latte da cui, con l'aggiunta di un po' di quel miele, ricavano del formaggio; dalle cipolle, invece, estraggono un olio molto grasso e profumato come un unguento. Hanno molte viti da... acqua: gli acini che formano i grappoli sono come chicchi di grandine, sicché - suppongo io, almeno - quando il vento si abbatte su quelle viti e le scrolla, allora i grappoli si spezzano, gli acini si staccano e da noi cade la grandine. Hanno una pancia che funge da borsa da viaggio e, siccome si può aprire e chiudere a piacere, ci ripongono tutto quello di cui hanno bisogno; all'interno non ci sono in vista gli intestini: è invece interamente foderata di una pelliccia folta e lanosa, e così i bambini piccoli, quando hanno freddo, ci si infilano dentro.
I ricchi portano abiti di vetro morbido, i poveri di tessuto di rame, metallo di cui quelle zone sono ricche, e che viene lavorato inumidendolo con l'acqua come la lana. Sono un po' titubante a descrivere che genere di occhi hanno - non vorrei che qualcuno pensasse che sto raccontando storie, tanto la cosa può apparire incredibile - ma parlerò lo stesso. Hanno gli occhi estraibili; se uno vuole, se li toglie e li conserva fino a quando ha bisogno di guardare qualche cosa: allora se li infila e vede; ci sono anche molti che hanno perduto i propri e hanno ugualmente la possibilità di vedere prendendoli in prestito da altri. C'è anche chi ne tiene di riserva dei magazzini pieni, i ricchi. Le loro orecchie sono foglie di platano; solo gli Arborei le hanno di legno.
Ho scoperto anche un'altra meraviglia nella reggia: un enorme specchio copre la bocca di un pozzo non troppo profondo. Se uno si cala nel pozzo, sente tutto quello che si dice da noi sulla terra, se guarda nello specchio, riesce ad abbracciare con lo sguardo tutte le città e i popoli come se fosse a due passi da ciascuno; anzi in quella occasione ho visto anche la mia patria tutta e i miei di casa: se poi anche loro abbiano visto me, non ve lo posso confermare con tutta sicurezza. E chi non crede che le cose stiano realmente così, se mai capiterà lassù, potrà constatare che non ho inventato niente.
Allora, dopo esserci congedati affettuosamente dal re e dalla corte, salimmo sulla nave e levammo le ancore; Endimione mi offrì anche dei regali, due tuniche di vetro, cinque di rame, e un'armatura completa di lupini, tutta roba che abbiamo lasciato nella balena. Mandò con noi come scorta anche mille Cavalcavvoltoi, perché ci accompagnassero per cinquecento stadi. 28 Durante la navigazione in quei paraggi passammo davanti a molte altre terre; approdammo anche a Espero appena colonizzata, dove scendemmo per rifornirci d'acqua. Ci imbarcammo nuovamente puntando verso lo Zodiaco e superammo il Sole alla nostra sinistra, costeggiandolo da vicino: ma non siamo sbarcati, nonostante i miei compagni ne avessero una gran voglia, perché il vento ce l'ha impedito. Abbiamo potuto scorgere però la regione: lussureggiante, fertile, ben irrigata e ricca di ogni ben di dio. I Nubicentauri al soldo di Fetonte, come ci avvistarono, volarono sopra la nave, ma, saputo che rientravamo nel trattato di pace, se ne andarono.
Ormai anche i Cavalcavvoltoi erano tornati indietro. Navigammo tutta la notte e il giorno successivo, e verso sera approdammo a Lucernopoli, mentre già seguivamo una rotta discendente, verso il mare. Questa città è situata nella zona di cielo tra le Pleiadi e le Iadi, parecchio più in basso dello Zodiaco. Una volta sbarcati, non incontrammo anima viva, bensì una quantità di lucerne che correvano avanti e indietro o sostavano in piazza e nella zona del porto, certe piccole e con un aspetto - oserei dire - da «povera gente», altre invece, poche, con l'aria dei personaggi importanti e influenti, molto più brillanti e splendenti. Avevano ciascuna la propria abitazione o, diciamo meglio, il proprio portalampade, e un nome, come noi uomini; le abbiamo anche sentite parlare. Non solo non ci hanno fatto alcun male, ma anzi ci hanno offerto ospitalità; noi però avevamo paura lo stesso, e nessuno si è azzardato né a mangiare né a dormire. Nel centro della città si trova un palazzo del governo dove il loro governatore siede per l'intera notte facendo l'appello nominale di tutti i cittadini: chi non risponde alla chiamata viene condannato a morte - lo considerano un disertore - e la pena capitale consiste nell'essere spento. Noi ci siamo fermati lì vicino, da dove, oltre che assistere a quello che succedeva, potevamo al tempo stesso ascoltare le lucerne che si difendevano, spiegando le ragioni del proprio ritardo. Lassù ho riconosciuto anche la lucerna di casa mia, con cui ho attaccato discorso chiedendole notizie della famiglia: e la mia interlocutrice mi ha riferito quanto desideravo sapere con la massima precisione. Per quella notte rimanemmo là, ma il giorno seguente, levate le àncore, riprendemmo la navigazione ormai a ridosso delle nuvole. Da quelle parti, con nostro grande stupore, vedemmo anche la città di Nubicuccù, dove però non sbarcammo perché il vento ce lo impedì. Dicevano che ne fosse re Cornacchione, figlio di Merlotto. Allora mi sono ricordato del poeta Aristofane, uomo sapiente e soprattutto sincero, a torto considerato degno di scarso credito per quello che ha scritto. Tre giorni dopo riuscivamo ormai a distinguere nitidamente l'Oceano ma non c'era traccia di terra, eccezion fatta per quelle disseminate nello spazio che ci apparivano color fiamma e brillantissime. Nel quarto, verso mezzogiorno, il vento divenne sempre più debole, cessando poi del tutto, e fummo deposti sul mare.
Come toccammo l'acqua, una gioia incontenibile ci prese e, pazzi di felicità, ci procurammo l'unico piacere possibile, date le circostanze: siccome per fortuna era bonaccia e il mare era piatto come una tavola, ci tuffammo, concedendoci una nuotata.
Ma pare che spesso un cambiamento in meglio sia in realtà l'inizio di guai maggiori. E infatti avevamo veleggiato per due soli giorni col bel tempo, quando improvvisamente, all'alba del terzo, avvistiamo a oriente un branco di mostri marini - in prevalenza balene -, tra cui un cetaceo enorme, il più grande di tutti, lungo circa 270 chilometri: avanzava verso di noi con le fauci spalancate, sconvolgendo il mare per un buon tratto, sollevando schiuma tutt'intorno a sé e mettendo in mostra i suoi denti, molto più alti dei falli che si vedono da noi, aguzzi come spiedi e candidi come avorio. Noi, a questo punto, dopo esserci abbracciati e detti addio, rimanemmo ad aspettare; il mostro ci era ormai addosso: ci risucchiò e ci ingoiò con tutta la nave, senza però arrivare a stritolarci perché la nave scivolò all'interno dell'animale attraverso gli interstizi fra un dente e l'altro.
Quando fummo dentro la pancia, in un primo momento non riuscivamo a distinguere niente per colpa dell'oscurità, ma poi quando la balena spalancò di nuovo la bocca, vedemmo una enorme cavità, alta e larga da ogni lato, grande abbastanza per contenere una città di diecimila abitanti. Sparsi qua e là c'erano pesci piccoli e molti altri animali marini ridotti a brandelli, vele e ancore di navi, e, ancora, ossa umane e merci varie; al centro c'era anche una terra con delle colline, che si era formata, suppongo, col sedimentare del fango che l'animale inghiottiva. Quella specie di isola comunque era ricoperta da una selva: c'erano alberi di ogni specie e vi cresceva anche dell'insalata, il che aveva tutta l'aria di essere il risultato di una coltivazione; la circonferenza della terra doveva essere sui duecentoquaranta stadi. Si potevano vedere anche uccelli marini, gabbiani e alcioni, fare il nido sugli alberi.
Allora, naturalmente, abbiamo pianto a lungo, poi ho rincuorato i compagni e abbiamo puntellato la nave; sfregando dei legni abbiamo acceso il fuoco e ci siamo preparati il pranzo con quello che avevamo a disposizione: c'erano tutti i tipi di pesci, in quantità, e avevamo ancora l'acqua di cui ci eravamo riforniti a Espero. Il giorno seguente, ci siamo alzati, e ogni volta che la balena rispalancava la bocca, vedevamo ora monti, ora soltanto il cielo, spesso anche delle isole: ci siamo resi conto allora che l'animale stava filando a tutta velocità per il mare in varie direzioni. Quando ormai ci eravamo abituati al nostro soggiorno, ho preso con me sette compagni e mi sono diretto verso l'interno della selva con l'intenzione di perlustrare attentamente i dintorni. Dopo un breve percorso, nemmeno cinque interi stadi, ho scoperto un santuario dedicato a Poseidone - così recitava l'iscrizione - e, non molto distante, molte tombe con tanto di cippi sopra; vicino, inoltre, una sorgente di acqua limpidissima. Sentivamo anche l'abbaiare di un cane e in lontananza si scorgeva del fumo sicché abbiamo intuito che ci doveva essere pure una casa abitata.
Ci mettiamo a camminare spediti e ci troviamo davanti a un vecchio e a un ragazzo, che lavoravano con molta cura un orticello e incanalavano l'acqua dalla sorgente per irrigarlo. Ci fermammo allora, divisi tra la gioia e la paura, mentre anche loro, come era logico, in preda ai nostri stessi sentimenti, erano rimasti immobili e muti. Dopo qualche istante, tuttavia, il vecchio domandò: «Chi siete mai voi, stranieri? Forse divinità marine, o disgraziati mortali che dividono la nostra stessa sorte? Già, perché anche noi, da uomini che eravamo, cresciuti sulla terra, ora siamo diventati esseri acquatici, costretti a vagare per i mari insieme a questo mostro in cui siamo rinchiusi, senza nemmeno sapere con esattezza qual è la nostra condizione: presumiamo di essere morti, al tempo stesso però nutriamo l'intima convinzione di essere vivi». Risposi allora: «Sì, anche noi siamo uomini, padre mio, arrivati da poco; siamo stati inghiottiti ieri l'altro con tutta la nave e ora ci siamo spinti fin qui perché volevamo scoprire cosa si nascondeva in questo bosco che ci appariva molto vasto e fitto. Il cielo, non c'è dubbio, ci ha guidato fino a te, a scoprire insomma che non siamo i soli prigionieri di questo mostro. Ma raccontami quel che ti è capitato, chi sei e come sei finito qua dentro». Il vecchio replicò che non avrebbe parlato né avrebbe chiesto nulla, prima di averci offerto i doni ospitali di cui disponeva. C'invitò quindi a entrare in casa - se l'era costruita adatta ai suoi bisogni ed era fornita di letti fabbricati da lui e provvista di ogni comodità -, ci servì verdure, frutta e pesci e ci versò anche del vino; poi, quando fummo adeguatamente rifocillati, s'informò sulle nostre peripezie: e io gli ho raccontato tutto per filo e per segno, la tempesta e le disavventure nell'isola, la navigazione attraverso lo spazio, la guerra e le altre vicende fino a quando eravamo sprofondati nel ventre della balena.
Alla fine, il nostro ospite, più che mai stupito, cominciò a sua volta a raccontarci la sua storia. «Stranieri, io sono Cipriota. Un giorno sono partito per affari della mia patria insieme a mio figlio, che vedete qui, e a molti servi, ed ero diretto in Italia; trasportavo un carico di merci di vario tipo su quella grossa nave che avete notato, immagino, completamente distrutta in fondo alla bocca della balena. Fino in Sicilia il viaggio è andato bene; ma da lì, in balia di un violento fortunale, al terzo giorno siamo stati spinti in pieno Oceano, dove, incappati nella balena, siamo stati inghiottiti con tutto l'equipaggio: soltanto noi due ci siamo salvati, tutti gli altri sono morti. Data sepoltura ai compagni e innalzato un santuario a Poseidone, ora tiriamo avanti così, coltivando verdura nell'orto e nutrendoci di pesce e frutta. La selva è grande, come vedete, e vi crescono anche molte viti, da cui si ricava il più prelibato dei vini. Probabilmente avrete visto pure la sorgente di acqua limpidissima e freschissima. Dormiamo su giacigli di foglie e non ci facciamo mai mancare un bel fuoco acceso; diamo la caccia agli uccelli che volano in questo cielo, catturiamo i pesci ancora vivi uscendo lungo le branchie del mostro e lì, quando ne abbiamo voglia, possiamo anche fare il bagno. Non molto lontano di qui per di più c'è uno stagno, della circonferenza di venti stadi, che abbonda di pesci di ogni tipo: là nuotiamo e andiamo anche in barca su un battellino che mi sono costruito io stesso. Ormai sono ventisette anni che siamo stati inghiottiti.
E forse tutto il resto potremmo anche tollerarlo, ma i nostri vicini e confinanti costituiscono per noi una spina nel fianco, assolutamente insopportabile, tanto sono asociali e feroci». «Ah», chiedo, «allora ci sono anche altri nella balena?». «E come! Molti, intrattabili e di aspetto stranissimo. Nella zona ovest della selva, verso la coda, abitano i Salamoiati: hanno gli occhi d'anguilla e la testa di granchio, sono battaglieri, temerari e cannibali. Dalla parte del fianco destro stanno i Capronimarini, di sopra uomini, di sotto pesci spada, per la verità meno prepotenti degli altri. A sinistra i Cheledigranchio e i Testeditonno, che si sono alleati e hanno stretto amicizia tra loro; nel mezzo abitano i Granchidi e i Piedisogliole, tribù bellicose e velocissime nella corsa; le zone orientali, invece, a ridosso della bocca, sono in gran parte deserte perché battute dal mare. Io, peraltro, per occupare questo territorio, sono costretto a pagare ai Piedisogliole un tributo annuo di cinquecento ostriche.
Questa è la situazione nel paese: vedete un po' voi come possiamo lottare contro tanti popoli e riuscire a sopravvivere». «Quanti sono in tutto?», ho domandato. «Più di mille». «Hanno armi?». «No, solo le lische dei pesci». «E allora», ho replicato, «la soluzione migliore sarebbe muovere guerra contro di loro, visto che sono senza armi e noi invece ne siamo ben forniti. Se li vinceremo, potremo abitare qui per il resto della nostra vita in piena libertà e sicurezza». Si optò a favore della mia proposta e così ritornammo alla nave a prepararci. Il casus belli sarebbe stato il mancato pagamento del tributo - ormai era vicino il giorno della scadenza. Come previsto, mandarono gli incaricati a riscuoterlo; ma il vecchio rispose in malo modo e cacciò via i messi. Per primi i Piedisogliole e i Granchidi, furiosi contro Scintaro - così si chiamava il vecchio - partirono all'assalto con urla selvagge di guerra.
Noi però, armati di tutto punto in previsione dell'attacco, li attendevamo a piè fermo dopo aver predisposto un'imboscata utilizzando venticinque uomini, a cui avevamo comandato di piombar addosso ai nemici non appena li avessero avvistati: e gli ordini furono eseguiti puntualmente. Saltati su alle loro spalle li fecero a pezzi, mentre noi dall'altra parte, pure in venticinque - Scintaro e suo figlio combattevano al nostro fianco - muovevamo contro di loro e, azzuffatici, sostenevamo la lotta con coraggio e decisione. Alla fine li costringemmo alla fuga, inseguendoli fino quasi alle loro caverne. Dei nemici ne morirono centosettanta, noi invece perdemmo un solo uomo, il timoniere, che aveva avuto la schiena trapassata da una lisca di triglia. Quel giorno e quella notte bivaccammo sul campo di battaglia e innalzammo un trofeo impalando la carcassa scarnificata di un delfino. Il giorno successivo, venuti a conoscenza dell'accaduto, sopraggiunsero anche gli altri: occupavano l'ala destra i Salamoiati, al comando di Fangoso; l'ala sinistra i Testeditonno, il centro i Cheledigranchio; i Capronimarini, invece, se ne stettero tranquilli perché avevano deciso di rimanere neutrali. Stavolta partimmo all'attacco per primi e li affrontammo nelle vicinanze del santuario di Poseidone, lottando con urla selvagge: il ventre del mostro ne rimbombava come una caverna. Dopo averli obbligati a ripiegare - erano armati alla leggera - e braccati fino alla selva, da quel momento diventammo padroni del paese.
Non molto dopo c'inviarono degli araldi per chieder di portar via i morti e discutere un eventuale accordo; a noi, però non sembrava opportuno trattare: il giorno dopo, invece, compimmo un'incursione nei loro territori, sterminandoli tutti quanti, salvo i Capronimarini, i quali del resto, preso atto della situazione, se ne fuggirono attraverso le branchie e si tuffarono in mare. Noi allora, liberi di muoverci in lungo e in largo per il paese, ormai sgombrato da ogni presenza nemica, nel periodo successivo vi abitavamo in tutta tranquillità, impiegando il nostro tempo prevalentemente in esercizi ginnici e battute di caccia, coltivando le viti e raccogliendo i frutti degli alberi: insomma, eravamo come dei prigionieri che vivono in un carcere spazioso ma da cui non si può fuggire, provvisti di ogni comodità e senza ceppi ai piedi. Trascorremmo in questo modo un anno e otto mesi.
Al quinto giorno del nono mese, più o meno alla seconda apertura della bocca - la balena compiva questa operazione una volta ogni ora e così, in relazione alle aperture di fauci, potevamo calcolare il trascorrere del tempo - verso la seconda apertura dunque, come stavo dicendo, all'improvviso si sono udite urla altissime, un gran baccano, e come degli ordini secchi e uno sciacquio di remi. In preda a una viva agitazione, ci arrampichiamo su fino alla bocca del mostro, e standocene un po' dietro i denti, ci troviamo davanti agli occhi lo spettacolo più assurdo di quanti ne abbia visti mai: dei giganti alti circa mezzo stadio che navigavano su grandi isole come fossero delle triremi. Naturalmente, mi rendo conto che sto per raccontare cose che hanno più l'aria di fantasie che di verità, ma parlerò ugualmente. Le isole erano di forma allungata, non molto alte, circa cento stadi ognuna di perimetro; a bordo - diciamo così - di ciascuna si trovavano circa centoventi di quegli uomini. Di questi, parte stavano seduti in fila ai due lati dell'isola e vogavano servendosi come remi di poderosi cipressi con tanto di rami e foglie; nella parte posteriore - a poppa, per così dire - su un rilievo collinoso stava il pilota, che reggeva un timone di bronzo di cinque stadi di lunghezza; a prua combattevano una cinquantina di individui ben armati, in tutto e per tutto identici ad esseri umani salvo nella capigliatura, che era una massa di fuoco accesa, per cui non avevano nemmeno bisogno di elmi. Invece che nelle vele, il vento soffiava dentro la selva, vasta e fitta in ciascuna isola, piegava i rami e portava l'isola nella direzione voluta dal timoniere; alla ciurma era preposto un capo rematore, e le isole si muovevano veloci al battito dei remi, come le navi da guerra.
Prima ne avvistammo due o tre, poi ne comparvero almeno seicento: le parti avverse si attestarono su posizioni contrapposte e iniziarono a combattere, più precisamente a combattere una battaglia navale. Molte, urtandosi di prua, si schiantavano le une contro le altre; molte dopo la collisione, colavano a picco; altre restavano incastrate, lottavano furiosamente e difficilmente riuscivano a separarsi. I guerrieri schierati a prora mostravano tutto il loro ardore nell'andare all'arrembaggio e massacrare: non si facevano prigionieri. Invece di arpioni di ferro, lanciavano giganteschi polipi intrecciati gli uni agli altri, che si abbarbicavano alla vegetazione e trattenevano l'isola. Si ferivano scagliandosi ostriche grandi tanto da riempire un carro, e spugne colossali. A capo degli uni c'era Centauroveloce, degli altri Bevimare. Il conflitto era scoppiato tra loro, pare, per colpa di una razzia: dicevano che Bevimare si era portato via molte mandrie di delfini di Centauroveloce, almeno a quanto abbiamo potuto capire dalle accuse reciproche che si lanciavano, urlando i nomi dei loro re. Alla fine ebbero la meglio gli uomini di Centauroveloce: affondarono circa centocinquanta isole nemiche, e ne presero altre tre con tutto l'equipaggio; le altre, muovendosi a ritroso, batterono in ritirata. I vincitori le inseguirono per un certo tratto, poi, siccome era ormai sera, tornarono indietro verso la zona dei relitti, s'impadronirono della maggior parte di questi e raccolsero i propri: erano colate a picco anche non meno di ottanta loro isole. Infine innalzarono un trofeo in ricordo della battaglia delle isole, impalando sulla testa della balena una delle isole nemiche. Quella notte bivaccarono intorno al mostro, legandovi le gomene e gettando nelle acque circostanti le ancore, enormi, di vetro, robustissime. Il giorno dopo offrirono un sacrificio sulla balena e, seppelliti i loro morti su di lei, presero il mare tutti contenti, intonando canti che suonavano come inni di vittoria. Questo avvenne durante la battaglia delle isole.