Biblioteca:Euripide, Reso

PERSONAGGI:

Reso
Ettore
Enea
Dolone
Ulisse
Diomede
Atena
Paride
Musa
Auriga di Reso
Araldo
CORO di scolte troiane


La scena è nella pianura di Troia, dinanzi alla tenda di Ettore,
che, dopo una sortita vittoriosa, s'è accampato di fronte agli Achei.
è notte.

CORIFEO (Rivolto ai corèuti):
   Muova d'Ettore alcuno alla tenda
   delle guardie del sire, che insonni
   stanno a veglia, se udir le novelle
   ei vuol delle scolte,
   che la quarta notturna vigilia
   per tutto l'esercito fanno.
CORIFEO (All'ingresso della tenda d'Ettore):
   Alza il capo, sul cúbito lèvati,
   il sopore dagli occhi terribili
   discaccia, dal letto di foglie
   sorgi, Ettore, udir tu mi devi.
Ettore:
   Chi va là? D'un amico è la voce?
   Di' su la parola.
   Chi mai fra la tènebra appressa
   al nostro giaciglio? Parlate.
CORO:
   Sentinelle del campo.
Ettore:
   Perché
   t'appressi con tanto rumore?
CORO:
   Fa' cuor.
Ettore:
   Faccio cuor: ci minaccia
   qualche insidia notturna?
CORO:
   Ancor no.
Ettore:
   Perché, dunque, lasciato il tuo posto,
   distogli l'esercito, quando
   niun annuncio tu rechi? Non sai
   che presso all'esercito argivo
   giacciam, tutti chiusi nell'arme?
CORO: Strofe
   Stringi l'armi, al giaciglio
   degli alleati corri, Ettore, esortali
   che si scuotan dal sonno, e l'aste impugnino.
   Alle tue schiere amici
   manda: adattate ai corsïer le redini.
   Chi andrà di Panto al figlio,
   d'Europa al figlio, principe dei Lici?
   Dove son quei che attendono alle vittime?
   Dove dei fombolieri
   i capitani? E voi, stringete ai cornei
   archi le funi, o della Frigia arcieri.
Ettore:
   Ciò che dici, da un lato sgomenta,
   dall'altro incoraggia; e di certo
   nulla dici. Di Pane Saturnio
   ti percosse la sferza, e per questo,
   lasciato il tuo posto,
   disturbi le schiere? Che dici?
   Qual nunzio dirò che tu rechi?
   Le parole son molte; ma nulla
   tu dici d'esplicito.
CORO: Antistrofe
   Ettore, alto si espande
   fulgor, tra il buio, dall'argivo esercito:
   le stazïoni delle navi brillano.
   Le schiere accorse sono
   tutte quante alla tenda d'Agamennone,
   per qualche ordine; ed il tumulto è grande.
   Mai prima d'ora con sí gran frastuono
   non s'adunaron le falangi nautiche.
   Per gli eventi futuri
   temendo, io corsi a te, ché qualche biasimo
   la negligenza a me poi non procuri.
Ettore:
   Benché sgomente sian le tue parole,
   giungi in buon punto: ché i nemici tentano
   da questa terra, con notturna fuga,
   sul mar salvarsi, e agli occhi miei sfuggire;
   onde i notturni fuochi il cuor m'allegrano.
   Oh Demone che me lungi tenesti
   come leone dalla preda, quando
   vincevo già, pria che l'argivo esercito
   tutto potesse la mia lancia struggere!
   Ché, se del sole i luminosi raggi
   non si fossero spenti, io la mia lancia
   vittorïosa non avrei frenata
   prima che avessi arse le navi, e fossi
   giunto alle tende a sterminar gli Achivi
   col mio braccio omicida. Io, per mio conto,
   ero disposto a seguitar la zuffa
   anche di notte, e profittar dell'impeto
   vittorïoso di fortuna, Ma
   mi convinsero i saggi, e quanti interpreti
   sono dei Numi, ch'io dovessi attendere
   del dí la luce, e niuno degli Achivi
   lasciare allor sul continente. E quelli
   tempo non dànno ch'io conduca a termine
   degli arúspici il piano: assai la notte
   agevola i fuggiaschi. Or quanto prima
   dar conviene all'esercito l'annunzio
   che sorgano dal sonno, e l'aste impugnino,
   sí che qualcuno dei nemici, mentre
   balza dal legno già, colpito a tergo,
   spruzzi le scale col suo sangue, ed altri,
   presi nei lacci delle reti, imparino
   nei campi frigi a dissodar le zolle.
CORO:
   T'affretti prima di saper gli eventi,
   Ettore: non sappiam bene se fuggono.
Ettore:
   Perché tanti, se no, fuochi arderebbero?
CORO:
   Non so; ma gran sospetto in cuore accolgo.
Ettore:
   Se di ciò temi, d'ogni cosa temi.
CORO:
   Mai prima d'ora tanti fuochi accesero.
Ettore:
   Né mai sí turpemente a fuga volsero.
CORO:
   L'opra fu tua: provvedi ora anche al seguito.
Ettore:
   Contro i nemici un motto basta: all'armi!
CORO:
   Ora Enea vedi, che a gran passo avanza,
   ed agli amici un nuovo annuncio reca.
(Giunge Enea)
Enea:
   Ettore, a che l'escubie interrorite
   al tuo giaciglio, fra le schiere, mossero
   a favellarti, ed in tumulto è il campo?
Ettore:
   Enea, le membra tue nell'armi chiudi.
Enea:
   Che avvenne mai? Celata fra le tènebre
   dei nemici s'annuncia alcuna frode?
Ettore:
   Fugge il nemico, già le navi ascende.
Enea:
   E puoi darmi di ciò prova sicura?
Ettore:
   Tutta la notte ardono fiamme, e penso
   che il dí novello attendere non vogliano,
   bensí le navi a quel bagliore ascendere,
   da questo suol partir, fuggire in patria.
Enea:
   Ed a qual fine la tua mano armasti?
Ettore:
   Mentre fuggiaschi su le navi balzano,
   con la mia lancia piomberò sovr'essi
   ferocemente, ostacolo farò.
   Ché vergogna sarebbe, ed oltre a ciò
   danno per noi, se quando a noi provvede
   un Dio, fuggir lasciassimo il nemico,
   senza contrasto, e tanto mal ci ha fatto.
Enea:
   Deh, se tanto valesse il tuo consiglio
   quanto il tuo braccio! Ma non può di tutto
   esser maestro un uomo: han varie doti
   e questo e quello: tu nelle battaglie
   ed altri vale nei consigli. Tu
   per la notizia di quei fuochi, immagini
   che fuggano gli Achei, ti esalti, vuoi
   muover le schiere, e traversar la fossa
   nel buio della notte. Or, quando avessi
   traversata la sua cupa voragine,
   se volti in fuga non trovassi, ma
   alla tua lancia volti gli avversari,
   vinto saresti, e a Troia non faresti
   ritorno piú. Come potresti, infatti,
   in una rotta, superare i valli,
   come, senza spezzar gli assi, potrebbero
   i cavalieri attraversare i ponti?
   E se tu vinci, il figlio di Peleo,
   campione fresco, piomberà su te,
   né lascerà che tu le navi bruci,
   né che gli Achei, come disegni, stermini.
   Ché bollente e quell'uomo, e a torre simile
   la sua baldanza. Lascia pur che in pace
   presso agli scudi dormano le schiere
   dopo il travaglio della guerra. E al campo
   dei nemici, direi, si mandi un uomo,
   di buona voglia, ad esplorar. Se proprio
   volgono a fuga, su l'argivo esercito
   noi piomberemo: se un'insidia invece
   questa notturna luminaria asconde,
   dal nostro esplorator la frode appresa,
   terrem consiglio. Io cosí penso, o re.
CORO: Strofe
   Ciò mi convince. Tu pure a questo parere appígliati.
   Le temerarie gesta dei duci m'aggradan poco.
   Miglior consiglio
   v'ha che alle navi mandar chi rapido muova, ed invèstighi
   per qual ragione sopra il naviglio
   degl'inimici di tanti lumi scintilla il fuoco?
Ettore:
   Vincete, quando in ciò tutti concordi
   siete. Tu muovi, e fa' che gli alleati
   restin tranquilli: ché, parlare udendo
   di notturne assemblee, potrebbe il campo
   facilmente agitarsi. Io fra i nemici
   chi esplori manderò. Se nuove ei rechi
   d'un'insidia nemica, a tutto tu
   sarai presente, e tutto udrai. Se invece
   volgono in fuga e sciolgono le gómene,
   lo squillo d'una tromba a udir t'appresta,
   ch'io fermo non starò: ma questa volta
   irromperò sopra le navi d'Argo.
Enea:
   Mandalo quanto puoi prima: prudente
   partito è questo ch'ora prendi. Teco
   mi vedrai, dove occorra, all'opra valido.
Ettore:
   Qual dei Troiani qui presenti vuole
   esploratore muovere alla flotta
   degl'inimici? A questa terra, ad Ilio
   chi vuol prestare aiuto e agli alleati?
   Non posso io solo provvedere a tutto.
Dolone:
   Per la patria affrontare un tal pericolo
   io bramo, andare alla nemica flotta
   esploratore; e tornerò quando abbia
   scoperto degli Achei tutti i disegni.
   Ma pongo un patto a questa mia fatica.
Ettore:
   Buon auspicio è il tuo nome, e tu la patria
   ami, Dolone. Di tuo padre illustre
   era la casa; e tu l'onor ne addoppi.
Dolone:
   Giusto è ch'io mi travagli, e del travaglio
   abbia degno compenso. Aggiunto a ogni opera,
   il compenso ne fa duplice il gaudio.
Ettore:
   Giusto è ciò che tu dici, e non contrasto.
   Stabilisci tu stesso, ove non sia
   la mia sovranità, questo compenso.
Dolone:
   Non bramo il regno tuo pieno d'affanni.
Ettore:
   Genero divenir vuoi dei Priamidi?
Dolone:
   Nozze coi piú da me stringer non voglio.
Ettore:
   Oro ce n'è, se tal compenso brami.
Dolone:
   In casa n'ho: penuria io non conosco.
Ettore:
   Che brami, allor, di quanto Ilio racchiude?
Dolone:
   Vinti gli Achivi, un dono a me prometti.
Ettore:
   Lo avrai: tranne che il duce delle navi.
Dolone:
   Per Menelao non intercedo: uccidilo.
Ettore:
   Il figlio d'Oileo non vorrai chiedermi?
Dolone:
   Man di signori poco val nei campi.
Ettore:
   E di qual degli Achei brami il riscatto?
Dolone:
   Già te l'ho detto, ho in casa oro a dovizia.
Ettore:
   Le spoglie che vorrai tu stesso eleggi.
Dolone:
   Alto sui templi dei Celesti appendile.
Ettore:
   Qual dono chiederai maggior di questo?
Dolone:
   I cavalli d'Achille. Alto dev'essere
   il guiderdone del travaglio, quando
   l'anima esponi ai dadi di Fortuna.
Ettore:
   I cavalli che brami anch'io li bramo:
   ch'essi immortali sono, e d'immortali
   nacquero; e il carro traggono del figlio
   impetuoso di Peleo. Li diede,
   poi che puledri li domò, raccontano,
   Poseidone, del mar Nume, a Peleo.
   Pur, te ne fo certa promessa: il cocchio
   potrai d'Achille alla tua casa addurre.
Dolone:
   Sta bene. E se l'avrò, dirò che in premio
   del mio coraggio il piú bel dono m'ebbi
   dai Frigi; e tu non devi invidïarmelo.
   Mille e mille altri averne che t'aggradano
   puoi: ché il piú prode sei di questa terra.
CORO: Antistrofe
   Grande il cimento, grande il compenso che ne desideri.
   Se tu riesci, colma di gloria sarà la gesta,
   tu di letizia.
   Gran cosa è pure l'essere genero del re. Fra i Súperi
   avrà pensiero di te Giustizia;
   ma ricompensa grande fra gli uomini per te s'appresta.
Dolone:
   Son pronto. Prima alla mia casa, ai Lari
   vado, le vesti acconce indosso, e quindi
   ai legni degli Achivi il pie' sospingo.
CORO:
   Dimmi, indossare un'altra veste pensi?
Dolone:
   All'opra adatta ed al cammin furtivo.
CORO:
   Da un uom che sa, puoi qualche cosa apprendere
   sempre. Come sarà questa tua veste?
Dolone:
   La pelle al dorso adatterò d'un lupo,
   il muso della fiera al capo attorno,
   alle mani le zampe anterïori,
   i miei piedi ai suoi piedi, e imiterò
   l'andatura del lupo, a quattro zampe,
   sí che ai nemici arduo sia scoprirmi,
   mentre ai valli m'appresso, e ai propugnacoli
   navali. Quando poi giunto sarò
   in qualche luogo solitario, andrò
   su due piedi, diritto. Ecco la frode.
CORO:
   A buon fine ti guidi, e poi di nuovo
   di Maia il figlio, Ermes, a noi t'adduca,
   protettor degli scaltri. Il piano è fatto:
   manca sol che t'assista la Fortuna.
Dolone:
   Tornerò salvo, Ulisse ucciderò -
   e il capo suo ti porterò, ché chiara
   prova tu abbia che alle navi achive
   giunse Dolone -, o il figlio di Tideo.
   Pria che la luce in terra torni, io qui
   sarò: né la mia man di sangue immune.
(Parte)
CORO: Strofe prima
   Delio, Timbreo, che in Licia
   inoltri il pie' nel tempio,
   giungi, o divino, o re dell'arco, Apollo,
   vieni, e quest'uomo guida fra le tenebre
   alla mèta sicura.
   Assistilo, i Dardanidi
   soccorri, tu ch'ergesti, o potentissimo,
   d'Ilio le antiche mura.

                                       Antistrofe prima
   Possa alla flotta giungere,
   ad esplorar l'esercito
   d'Ellade; e poscia torni alla sua patria
   d'Ilio, e quando cadrà, dal nostro principe
   disfatto, il Ares achèo,
   ascender possa il cocchio
   de le cavalle ch'ebbe da Poseidone
   l'eàcide Peleo.

                                       Strofe seconda
   Ch'egli ardí pei suoi Lari e per la patria
   solo alla flotta dei nemici muovere.
   Ammiro il suo coraggio,
   Scarso è dei prodi il numero,
   quando il mare s'ottènebra,
   e fra i marosi è la città. Pur, valido
   v'è alcun, tra i Frigi: nelle Misie cuspidi
   è pur valore, anche se alcuno spregia
   quei che al mio fianco pugnano.

                                       Antistrofe seconda
   Entro le tende achèe, che scempio compiere,
   saprà costui, che, a piedi, a fiera simile,
   imprime ai quadruplice
   orma il terreno? Uccidere
   Menelao? D'Agamennone
   recare il capo ad Elena, che un ululo
   levi sul reo cognato, che l'esercito
   spinse di mille navi allo sterminio
   del nostro suol, di Troia?
(Giunge un bifolco, e si rivolge ad Ettore)
BIFOLCO:
   Sempre di tali nuove araldo giungere
   a te debba, o signor, come ora io giungo.
Ettore:
   Sempre i bifolchi hanno pel capo mille
   goffi pensieri. Ai tuoi signori certo
   tu giungi ad annunciar che i greggi figliano;
   e non è questo il punto. E non conosci
   la casa mia, la reggia di mio padre?
   Corri a gridare lí, se il gregge prospera.
BIFOLCO:
   Ricco pastor sono io: non lo contendo;
   ma pur, l'annuncio ch'io ti reco è fausto.
Ettore:
   Desisti e non parlar di villerecce
   fortune: e spade e lancie ora s'impugnino.
BIFOLCO:
   E di tali argomenti, a dir qui venni.
   Un uomo amico tuo, d'Ilio alleato,
   qui giunge, e guida un infinito esercito.
Ettore:
   E di qual patria abbandonò le zolle?
BIFOLCO:
   Di Tracia: è lo Strimon suo padre, narrano.
Ettore:
   Reso! Ed è giunto, dici, nella Troade?
BIFOLCO:
   Sí: metà del mio dir tu mi risparmi.
Ettore:
   E come i vasti piani abbandonò
   adatti ai cocchi, e ai balzi d'Ida venne?
BIFOLCO:
   Non lo so bene; ma mi sembra facile
   argomentarlo: ché impresa da poco
   non è, di notte muovere un esercito,
   quando si sa che di nemici è piena
   tutta la terra. Eppur tra le boscaglie
   giunse di notte, e gran terrore infuse
   in noi bifolchi che sul balzo d'Ida,
   nativo antico della terra altare,
   abbiam soggiorno: ché con gran frastuono
   incedeva, scorreva il Tracio esercito.
   Percossi di terror, che degli Argivi
   non giungesse taluno a far bottino,
   a saccheggiare le tue stalle, i greggi
   conducevamo sulle vette, quando
   le orecchie mi colpí di non ellènica
   loquela il suono; ed il terror cessò.
   Io mossi allora; e ad un uom che giungeva
   esploratore del signore, chiesi
   con traci accenti il condottier chi fosse
   di quelle schiere che giungeano a Troia,
   e di qual padre. E quando tutto seppi
   ciò che bramavo, stetti; e Reso vidi
   sopra un carro di Tracia, a un Nume simile.
   Un giogo d'oro costringeva i colli
   di due puledri, piú che neve candidi:
   di fregi d'oro impresso, e di cervici
   equestri ornato, rifulgea sugli omeri
   uno scudo di bronzo, ed una Gorgone
   simile a quella ch'à la Dea su l'egida
   terrore alto dai fitti tintinnaboli
   crepitanti, spirava. E dell'esercito
   nessuno far, tant'era immane, il novero
   potrebbe: molti i cavalieri, molte
   dei pèltasti le schiere, i lanciatori
   di frecce, molti, e molti si addensavano
   vèliti, in tracia veste. Un uomo simile
   giunge a Troia alleato: alle sue mani
   sfuggire non potrà, né stando in campo,
   né con la fuga, il figlio di Peleo.
CORO:
   Se son propizi ai cittadini i Demoni,
   la crollante fortuna al meglio volge.
Ettore:
   Or che fortuna volge favorevole
   alla mia lancia, e Zeus è dalla nostra,
   amici molti troverò; ma d'uopo
   di tali amici non ho già, che prima,
   allor che Ares rabido soffiava
   impetuosamente, e lacerava
   della città la vela, non accorsero
   alla fatica. Quale amico fosse
   di Troia, Reso ha ben mostrato: è giunto
   all'ora del banchetto. E non ci fu,
   l'asta non impugnò, quando alla preda
   erano stretti i cacciatori attorno.
CORO:
   Tali amici a ragione spregi e biasimi.
   Ma chi Troia aiutar vuole, gradiscilo.
Ettore:
   Bastiamo noi: la difendiam da tanto.
CORO:
   Già sconfitti i nemici aver tu credi?
Ettore:
   Lo credo: e al nuovo dí si vedrà chiaro.
CORO:
   Varia fortuna assai: temo il futuro.
   Respinger gli alleati, è gesto, o re,
   troppo arrogante: il solo aspetto loro
   terrore agl'inimici incuterà.
   Se pur non alleato, ora ch'è giunto,
   degli ospiti alla mensa ospite sia,
   poi che le grazie perse ha dei Priamidi.
Ettore:
   Bene tu mi consigli, e bene vedi
   quanto è opportuno, tu: di Troia questo
   Reso alleato sia, che, come dice
   l'araldo, brilla di tant'arme d'oro.
(Si trae da parte)
CORO: Strofe prima
   Dal labbro mio l'invidia
   lungi tenga Adrastea, di Zeus figlia:
   ciò che gradito all'anima
   mia riesce, dirò.
   Tu giungi, giungi, o gèrmine
   del Fiume, vieni a questa reggia Frigia,
   poi che infin la Pieride,
   che t'è madre, e lo Strimone,
   fiume dai ponti belli, t'inviò,

                                       Antistrofe prima
   che un dí, della melodica
   Musa nel grembo immacolato, i vortici
   spingendo, alla tua giovine
   vita il rigoglio die'.
   Al par di Zeus fulgido
   tu giungi a me sovra i puledri rapidi.
   Esultare nei cantici,
   adesso, o patria Frigia,
   Zeus liberator, concesso m'è.

                                       Strofe seconda
   Dunque, di nuovo la vetusta Troia
   adunerà da mane a sera i tíasi
   d'innamorati intorno ai colmi calici,
   tra le canzoni, e il volgere
   ebbro di gare che da destra muovano,
   poi che, ben lungi d'Ilio,
   gli Atridi a Sparta moveran sul pelago.
   Con la tua man tu possa, o mio diletto,
   con la tua lancia a mia salvezza compiere
   questa impresa, e tornar quindi al tuo tetto.

                                       Antistrofe seconda
   Vieni, móstrati, fa' caro, che l'aureo
   tuo scudo agli occhi del Pelide sfolgori:
   dove del carro il giro s'apre, innalzalo
   obliquo, i puledri èccita,
   vibra della zagaglia il doppio cúspide.
   Non danzerà nel tempio
   d'Era in Argo mai piú, chi ardisca attenderti.
   Ma questo suolo, poi che avrà lo stame
   tronco del viver suo la parca tracia,
   lo accoglierà, dolcissimo gravame.
(Giunge Reso, con un gran séguito. Le sue armi squillanti
brillano al fulgor delle fiaccole)
CORIFEO:
   O re grande! Un bel cucciolo, o Tracia,
   tu nutristi, che il regno reggesse.
   Vedi l'armi, che, d'oro fulgenti,
   le sue membra riparano, ascolta
   il clamor dei minaci, che squillano
   tintinnàboli appesi alle guigge
   degli scudi. è un Iddio questo germine
   della Musa canora, è un Iddio,
   è Ares medesimo, e giunge,
   e spira salvezza per Ilio.
RESO (Si rivolge ad Ettore):
   Prode, e figlio d'un prode, Ettore, sire
   di questa terra, salve. A te rivolgo
   già da gran tempo la parola. Godo
   che a te fortuna arrida, e che tu spinto
   abbia il tuo pie' su le nemiche torri.
   Per abbatterne i muri io son qui giunto,
   per arder teco dei nemici i legni.
Ettore:
   O d'una madre armonïosa, o d'una
   delle Muse figliuolo, e dello Strimone
   fiume di Tracia, a me dir sempre il vero
   piace, ché doppio non sono io. Da tempo,
   da lungo tempo già, dovuto avresti
   di questa terra alla difesa accorrere,
   e non lasciar, che, per tua parte, almeno,
   sotto l'armi nemiche Ilio cadesse.
   Né dir potrai che non venisti, aiuto
   non ci recasti, non badasti a noi
   perché gli amici a te non ricorressero.
   E quale araldo, e quale ambasceria
   di Frigi a te non giunse, a farti supplica
   per la nostra città? Qual di presenti
   pregio a te non mandammo? E tu, che sei
   barbaro, sei parente nostro, i barbari,
   per conto tuo, tradisti ai Greci. Eppure,
   da signorotto, eccelso re dei Traci
   con questa man ti resi, allor che intorno
   di Pange al monte e ai campi dei Peoni,
   sui piú forti dei Traci a fronte a fronte
   piombai, spezzai le loro pèlte, e il popolo
   servo a te diedi. A questo gran favore
   vibrasti un calcio, e ben tardi a soccorrere
   giungi gli amici dai malanni oppressi.
   Da un pezzo invece qui venuti, molti
   che non m'eran parenti, alcuni giacciono
   caduti, e sopra lor s'ergono i tumuli,
   prova di fede non esigua ad Ilio:
   presso ai carri e ai cavalli altri nell'armi
   gli aliti freddi e il sitibondo fuoco
   sopportano del sol, con cuore intrepido,
   e non sui letti del convivio, libano
   come fai tu, le fitte coppe. A te
   a faccia a faccia io volgo questo biasimo,
   perché veda, che franco Ettore parla.
RESO:
   E anch'io son come te: la via diritta
   batto nei miei discorsi, e non son duplice.
   Ed io pativo piú di te l'affanno
   di rimaner lungi da Troia, e il fegato
   mi consumavo. Ma una terra prossima
   ai miei confini, degli Sciti il popolo,
   mentre a venire ad Ilio io m'apprestavo,
   mi mosse guerra; e a capo d'un esercito
   tracio, del Ponto Eusino ai lidi venni.
   Qui di scitico sangue una poltiglia
   fu sparsa a terra dalle lance, e mista
   molta strage di Traci. E tale evento
   m'impedí ch'io venissi al pian di Troia
   al fianco tuo. Ma poi che vinti li ebbi,
   e ostaggi m'ebbi i loro figli, e imposto
   ch'essi ogni anno un tributo a me portassero,
   parte delle mie schiere oltre le fauci
   del Ponto spinsi su le navi, ed altre
   per terra, attraversando altri confini,
   non per cioncare, come tu rampogna
   mi fai, non per dormire in auree case;
   ma come glacïali i venti piombano
   sul mar di Tracia, ed i Peoni opprimono,
   insonne, in veste militare, appresi,
   e so quanto patii. Tardi son giunto,
   ma pure in tempo. Poi che tu combatti
   già da dieci anni, e non approdi a nulla,
   bensí di giorno in giorno i dadi getti
   nella battaglia con gli Argivi. A me
   la luce basterà d'un giorno solo,
   per espugnar le torri, e degli Argivi
   irrompere nel campo, e farne scempio;
   e il giorno dopo, poi che fine avrò
   posta alle tue fatiche, partirò
   da Troia, e in patria tornerò. Dei vostri
   niuno imbracci lo scudo. Io frenerò,
   per vanto ch'essi menino, io gli Argivi
   debellerò, sebbene ultimo giunto.
CORO:
   Evviva, evviva!
   Col favore di Zeus, a noi propizia
   la tua parola e la tua lancia arriva.
   Pur, l'invidïa temo
   che suscitar le tue parole possano:
   Zeus lungi la tenga, il Dio supremo.
   Piú valido di te la flotta argiva
   niun guerrïero addusse, ora né mai.
   Come, Achille, alla sua lancia resistere,
   come, Aiace, potrai?
   Possa io quel giorno scorgere, o sovrano,
   che la vendetta tu con la tua lancia,
   esigerai da lor sanguinea mano.
RESO:
   Della mia lunga assenza un tal compenso
   voglio a te dare. Se Adrastea ci assiste,
   poi che questa città dai suoi nemici
   fatta libera avremo, e del bottino
   elette le primizie avrai pei Numi,
   invadere con te voglio la terra
   d'Argo, e l'Ellade tutta a sacco mettere,
   ché i malanni a soffrire anch'essi apprendano.
Ettore:
   Se dall'affanno ch'or ci opprime libero
   viver nella città sicuramente
   potessi, come ai dí trascorsi, ai Superi
   molto sarei riconoscente. Ma
   Argo mettere a sacco e i campi d'Ellade
   facil non è cosí come tu pensi.
RESO:
   I piú prodi non son qui degli Elleni?
Ettore:
   Non lo neghiamo; e assai duro è respingerli.
RESO:
   Dunque, se li uccidiam, compiuta è l'opera.
Ettore:
   Non trascurar, pei ben remoti, i prossimi.
RESO:
   Patire i guai ti basta, e non infliggerli.
Ettore:
   La terra ond'io son qui sovrano, è molta. -
   Or se nel destro corno, oppur nel manco,
   o se nel mezzo vuoi pugnar, t'è lecito:
   la pèlta spingi, ed ordina le schiere.
RESO:
   Coi nemici pugnare io vo' da solo;
   ma se vergogna credi tu non ardere
   meco le navi, poi che tanto già
   t'affaticasti, contro Achille ponimi
   a faccia a faccia, e contro alle sue schiere.
Ettore:
   Non si può contro lui stringer la lancia.
RESO:
   Pur navigò, voce ne corse, ad Ilio.
Ettore:
   Navigò certo, è qui; ma contro i duci
   d'ira s'accese, e piú lancia non stringe.
RESO:
   Chi dopo lui, piú prode è nell'esercito?
Ettore:
   Punto da meno Aiace non mi sembra,
   né il figlio di Tideo. Poi, lo scaltrissimo
   Ulisse v'è, maestro di furbizie,
   e cuore audace quanto basta. Mali
   a questa terra egli recò gravissimi;
   ché nel tempio d'Atena a notte ei venne,
   e il simulacro ne rubò, l'addusse
   ai legni achivi. In veste da pitocco,
   da vagabondo un altro giorno entrò
   dentro le torri, ed imprecava mille
   danni agli Argivi; e ad Ilio esploratore
   l'avean mandato. E uccise poi le scolte
   delle porte i custodi, e s'involò.
   Sopra l'ara timbrèa, nei pressi d'Ilio
   sempre in agguato sta. Dobbiamo un tristo
   di furbizie campione in lui combattere.
RESO:
   A faccia a faccia abbattere il nemico,
   e non di furto brama un cuor magnanimo.
   Quest'uom, che, come dici tu, s'appiatta
   in agguati furtivi, e trama insidie,
   vivo lo prenderò, l'infilerò
   per la schiena in un palo, e l'esporrò
   sopra la soglia della porta, pasto
   agli erranti avvoltoi. Esso è ladrone,
   a saccheggiar dei Numi i santuarî
   venne: la morte è tal ch'egli si merita.
Ettore:
   Accampatevi adesso. è notte. Il luogo
   ora ti mostro ove potran le schiere
   tue pernottare, dalle mie divise.
   Febo, se mai t'occorre, è la parola
   d'ordine: a mente tienila, ed insegnala
   alle schiere dei Traci. A voi conviene
   muover sul fronte delle schiere, e attendere
   Dolon, che delle navi esploratore
   andò. Se pure è salvo, ei deve già
   avvicinarsi al campo dei Troiani.
(Tutti i personaggi della scena escono. Rimane il Coro)
CORO: Strofe
   A chi spetta la guardia? A me succedere
   chi deve? Già tramontano
   le prime stelle, e ascendon le settèmplici
   Plèiadi l'ètra, e in mezzo al cielo l'Aquila
   volge le piume.
   Che s'indugia? Destatevi, levatevi
   su dai giacigli, a guardia.
   Non vedete rifulgere
   già della luna il raggio?
   Aurora giunge, e il lume
   di quell'astro precede il suo viaggio.
SEMICORO A:
   Chi fu scelto alla prima vigilia?
SEMICORO B:
   Corèbo, il figliuolo di Migdone.
SEMICORO A:
   Chi secondo? Peone ai Cilici
   die' la sveglia, ed i Misi a noialtri.
SEMICORO B:
   Dunque noi, come volle la sorte,
   dobbiamo riscòtere
   i Lici alla quinta vigilia.
CORO: Antistrofe
   Bene odo, sí. Del Simoénta ai margini,
   sul giaciglio sanguineo,
   l'usignoletta, di melodi artefice,
   geme, con l'armonia varia dei cantici,
   gli uccisi figli.
   Mòvon le greggi ai pascoli
   dell'Ida già: del súfolo
   notturno odi lo strepito.
   Le mie pupille molce
   il sonno, che sui cigli,
   quando arriva il mattin, posa piú dolce.
SEMICORO A:
   Come mai quei che mosse, le navi
   dei nemici a esplorar, non s'appressa?
SEMICORO B:
   Già da tempo è lontano; ed io trepido.
SEMICORO A:
   Forse cadde in oscuro tranello
   e fu spento: era grande il pericolo.
SEMICORO B:
   Presto, su, come volle la sorte,
   si vada, si scòtano
   i Lici alla quinta vigilia.
(Si effettua il cambio delle scolte. Tutto torna nel silenzio)
(Entrano cauti Ulisse e Diomede)
ULISSE:
   Diomede, non odi? O un rumor vano
   all'orecchio mi giunse? è suono d'armi?
Diomede:
   No, le catene son ferree, che stridono
   delle ruote dei carri: anch'io spavento
   n'ebbi, pria di capir ch'eran catene.
ULISSE:
   Ve' che fra il buio non t'imbatta in guardie.
Diomede:
   Ci baderò, sebben pel buio inoltro.
ULISSE:
   Sai, se alcun dèsti, la parola d'ordine?
Diomede:
   La so, Dolone me l'apprese: Febo.
(Ulisse entra un momento nella tenda d'Ettore, e súbito esce)
ULISSE:
   Ahimè, ché vuoti
   questi giacigli dei nemici scorgo.
Diomede:
   è, Dolone lo disse, il letto d'Ettore,
   contro il cui seno questa lancia è volta.
ULISSE:
   Che sarà? Qualche schiera a campo è mossa?
Diomede:
   Per ordir contro noi forse un'insidia?
ULISSE:
   Audace, or, poiché vinse, Ettore è audace.
Diomede:
   E allora, Ulisse, che faremo? L'uomo
   che cercavamo, non abbiam trovato
   nella sua tenda. Ogni speranza è persa.
ULISSE:
   Prima che sia, torniamo ai legni: salvo
   lo vuole il Dio che a lui die' la vittoria:
   alla fortuna contrastar non giova.
Diomede:
   No, Enea cerchiamo, o Paride, infestissimo
   tra i Frigi tutti, e il capo recidiamogli.
ULISSE:
   Cercarlo al buio, fra nemiche schiere,
   e ucciderlo potrem senza pericolo?
Diomede:
   Scorno è, tornare ai legni argivi, senza
   compier contro i nemici alcuna gesta.
ULISSE:
   Come, nessuna n'hai compiuta? Ucciso
   non abbiamo Dolon, che ad esplorare
   venía la flotta? Non ne abbiam le spoglie?
   Sterminar vuoi tutti i nemici? Credimi,
   torniamo indietro. E tu, Fortuna, assistici.
(Appare improvvisamente la Dea Atena)
Atena:
   Dove movete, le troiane schiere
   abbandonate, in cuor morsi dal cruccio,
   perché mettere a morte Ettore o Paride
   non vi concede il Nume? E non sapete
   che giunto è a Troia un alleato, Reso,
   con un grande apparecchio? Ov'ei la notte
   trascorra, sino al nuovo dí, la lancia
   far non potrà d'Achille, e non d'Aiace,
   ch'egli il campo naval non ponga a sacco
   degli Achei tutto, e i valli non abbatta
   e un grande accesso oltre le porte schiuda
   con la sua lancia. Se tu questo uccidi,
   il tutto stringi. Lascia in pace d'Ettore
   dunque i giacigli, e non volergli il capo
   mozzare: un'altra man l'ucciderà.
ULISSE:
   O diva Atena, il suon della tua voce
   odo, ben noto a me: ché nei perigli
   sempre mi sei vicina, e mi difendi.
   Dove posa quell'uom dimmi, del barbaro
   stuolo in qual punto le sue schiere accampa.
Atena:
   Sta qui presso, e le sue schiere confuse
   non son con le troiane, anzi in disparte
   Ettore le accampò, per questo scorcio
   di notte sino al dí. Stanno qui presso,
   legate al carro, le puledre tracie,
   e facile è scoprirle fra le tenebre:
   ch'esse brillano come ala di cigno
   fluvïatile. Poi che ucciso avrete
   il lor signore, al campo le addurrete,
   fulgidissima preda. Al mondo luogo
   non c'è che vanti una pariglia simile.
ULISSE:
   O Diomede, delle tracie turbe
   tu fa' sterminio, o a me la cura lasciane;
   ma dei puledri tu datti pensiero.
Diomede:
   A me la strage, a te i puledri. Pratico
   sei di scaltrezze, hai mente acuta; e gli uomini
   là schierare conviene ove piú giovino.
Atena:
   Ma ecco, verso noi vedo Alessandro
   muovere: da le scolte incerti indizi
   di nemici qui giunti a lui pervennero.
Diomede:
   E d'altri in compagnia qui giunge, o solo?
Atena:
   Solo. Al giaciglio vien d'Ettore, sembra
   a dir che spie nel campo s'introdussero.
Diomede:
   Non convien dunque a lui prima dar morte?
Atena:
   Piú non potrai di quanto il Fato vuole.
   Non è destino che costui soccomba
   sotto i tuoi colpi. Ma di lui che uccidere
   devi, la morte affretta. Ed io con Paride
   d'esser Ciprigna fingerò, d'assisterlo
   nei suoi travagli, e con discorsi vani
   illuderò quel mio nemico. A voi
   parlo; ma quei che patirà la frode,
   nulla sa: m'è vicino, eppur non m'ode.
(Entra Paride. Ulisse e Diomede si allontanano)
Paride (Parla rivolto alla tenda d'Ettore):
   A te, duce e fratello, Ettore io parlo.
   Dormi? Esser desto non dovresti? Alcuno
   dei nemici s'appressa al nostro esercito,
   non saprei se ladrone o esploratore.
Atena:
   Fa' cuor: su te veglia benigna Cipride.
   A cuore ho la tua guerra, e non dimentico
   ch'ebbi da te la palma, e ti proteggo
   perché fui favorita. E adesso giungo
   per la salvezza delle ilíache schiere,
   e un uomo reco a te, tuo grande amico,
   il tracio figlio della Dea canora,
   della Musa; e gli fu padre lo Strimone.
Paride:
   Sempre benigna ad Ilio e a me ti mostri.
   Un gran tesoro, penso, alla città
   procacciai, quando a te diedi la palma.
   Or qui giungo, ché udii, non chiaramente,
   ma fra le scolte pur corse la voce,
   che qui son giunti esploratori achivi.
   Chi non li vide, lo assicura, e chi
   li scorse, dir non sa per dove mossero.
   Al giaciglio per questo accorsi d'Ettore.
Atena:
   Non temer; nulla c'è di nuovo: Ettore
   di qui lontano, i Traci ordina in campo.
Paride:
   Credo ai tuoi detti, mi convinco: l'ordine
   tuo seguo, e, scevro di timore, parto.
Atena:
   Va', Tutto quanto a cuor ti sta, confida
   ché a cuor mi sta: ché fortunati io bramo
   gli alleati vedere. Ed anche tu
   conoscerai la mia benevolenza.
(Paride si allontana. Tornano Ulisse e Diomede)
Atena:
   Ora a voi parlo, o figlio di Laerte.
   O troppo audaci, le affilate spade
   ringuainate, ché trafitto giace
   ora dei Traci il condottiero, e prese
   le sue cavalle. Ma sentore n'ebbero
   gl'inimici, e su voi corrono. Ai legni
   presto correte, su, ponete in salvo
   la vostra vita: a che l'indugio, quando
   su voi già piomba dei nemici il turbine?
(Atena sparisce)
(Entrano i coreuti e piombano sui due guerrieri)
CORO:
   Ohè, ohè!
   Picchia, picchia, picchia, picchia,
   batti, via! Quest'uom chi è?
   Questo qui, dico, guardatelo.
   Pone il campo qualche ladro
   fra le tenebre a soqquadro.
   Corra ognuno, su su, su.
   Questo ha preso, ho còlto questo.
CORIFEO A (Riesce ad afferrare Ulisse):
   Chi sei tu?
   Donde vieni? Parla presto.
ULISSE:
   Tu, morrai, se male adoperi. Di saperlo hai tu diritto?
CORIFEO A:
   Presto il motto: o questo cuspide nel tuo seno avrò confitto.
ULISSE:
   Non colpir, sta di buon animo.
SEMICORO A:
   Fatti sotto, picchia forte.
CORIFEO A:
   Hai tu Reso ucciso?
ULISSE:
   Ho ucciso chi voleva dargli morte.
CORIFEO B:
   Fermi tutti!
CORIFEO A:
   No, ti dico!
CORIFEO B:
   Non uccidere un amico.
CORIFEO A (Ad Ulisse):
   Quale il motto?
ULISSE:
   Febo.
CORIFEO B:
   Basta. Dal suo sen distogli l'asta.
(Ulisse e Diomede si allontanano)
CORIFEO A:
   Dove andati son quegli uomini?
CORIFEO B:
   Io di qui prender li vidi.
CORIFEO A:
   Inseguirli dobbiam tutti? O val meglio alzare gridi?
CORIFEO B:
   Fra le tenebre a scompiglio - porre il campo è gran periglio.
CORO: Strofe
   Quale uom poté qui giungere?
   Vantar potrà che dalla mano mia,
   dopo che tanto osò, fuggiva libero?
   Dove mai potrò coglierlo,
   chi penserò che sia?
   Tra le guardie e le schiere, nelle tènebre
   con temerario pie' movere ardiva.
   Sarebbe forse un tessalo,
   un cittadin di Locri, al mar finítima,
   un isolano che randagio viva?
   Chi e? Di dove? Di che suol natio?
   Qual Dio sacro e per lui piú d'ogni Iddio?
SEMICORO A:
   Sarà d'Ulisse, o di chi mai, tale opera?
SEMICORO B:
   Di lui, se dal passato indurre è lecito.
SEMICORO A:
   Lo credi?
SEMICORO B:
   E perché crederlo
   non devo? Contro noi fu sempre intrepido.
SEMICORO A:
   Chi mai? Chi dici prode?
SEMICORO B:
   Ulisse.
SEMICORO A:
   Oh, non dar merito
   a un ladro, a un uom che grande è nella frode.
CORO: Antistrofe
   Un'altra volta giungere
   in città lo vedemmo. Era di bava
   molle il suo viso, avvolto in panni laceri,
   al pari di randagio
   pitocco, in giro andava
   limosinando, ispido il capo e sordido:
   e un ferro ascoso avea sotto quei cenci.
   E degli Atridi al regio
   lare lanciava fitte contumelie,
   quasi fiero nemico ei fosse ai prenci.
   Perito fosse, deh, pria che di Frigia
   calpestassero il suol le sue vestigia!
SEMICORO A:
   Sia pure Ulisse, o no, terror m'esàgita.
SEMICORO B:
   Su noi scolte cadrà d'Ettore il biasimo.
SEMICORO A:
   Che ci opporrà?
SEMICORO B:
   Rimprovero
   farà...
SEMICORO A:
   Che temi? Di che mai?
SEMICORO B:
   Che il transito
   sbarrar non seppi...
SEMICORO A:
   A chi?
SEMICORO B:
   A quei che fra le tenebre,
   tra le schiere dei Frigi entrare ardí.
(Entra, levando alti lamenti, l'Auriga di Reso)
Auriga:
   Ahimè, ahimè!
   O destino funesto! Ahimè, ahimè!
CORO:
   Zitti zitti! Fermi! Forse cade alcuno entro la ragna.
Auriga:
   Ahi, terribile sciagura per i Traci!
CORO:
   Chi si lagna?
Auriga:
   O me misero, e te, signor dei Traci!
   Funesta fu per te la vista d'Ilio.
   Di che misera morte oppresso giaci!
CORO:
   Qual degli amici sei? L'occhio indeciso
   è nella notte, e male io ti ravviso.
Auriga: Strofe
   Dove alcuno trovar dei Duci d'Ilio?
   Ettore in quale tenda
   dorme chiuso nell'armi? A qual dei príncipi
   il nostro mal dirò, la strage orrenda,
   ahimè, ahimè,
   che fe' di noi, la trama che ci tese
   talun che sparve, e il lutto è ben palese.
CORO:
   Costui, se intendo ben le sue parole,
   d'un mal che i Traci funestò si duole.
Auriga: Antistrofe
   L'esercito è perduto, il duce esanime:
   lo spense una ferita
   a tradimento. Oh qual mi strugge spasimo
   d'orrenda piaga! Oh, alfine uscir di vita!
   Ahimè ahimè ahimè!
   Senza gloria io morir qui devo, e Reso,
   al soccorso di Troia in campo sceso.
CORO:
   Chiaro ei favella omai, non per ambage,
   e degli amici miei narra la strage.
Auriga:
   La sciagura ci colse, e la vergogna
   s'aggiunge alla sciagura, e, il male è doppio.
   Perché la morte glorïosa, quando
   morir bisogna, per l'estinto è dura,
   e come no? ma orgoglio è di chi resta,
   è di sua casa onore. E invece, noi,
   senza scopo morimmo, e senza gloria:
   ché, poi che ci ebbe collocati in campo
   Ettore, e detta la parola d'ordine,
   gittati al suolo dormivamo, affranti
   dalla stanchezza; né l'escubie a veglia
   stavan del campo, né schierate l'armi,
   in ordinanza, né serrati i gioghi
   sopra il collo ai corsier': ché vincitori
   ci sapeva il signore, e sulle navi
   dei nemici incombenti; e giacevamo
   senza pensiero, al sonno abbandonati.
   Or dal sonno sorgendo, io - ché sollecito
   il cuore mi spronò -, biada ai puledri
   diedi con larga man, poiché su l'alba
   alla pugna aggiogarli io mi pensavo.
   E tra la fitta oscurità, due uomini
   ronzare vidi al nostro campo attorno.
   Ma come a lor m'avvicinai, fuggirono:
   ond'io gridai che lontano dal campo
   restassero: alleati io li credei
   che per rubare intorno a noi ronzassero.
   E quelli muti; ed altro piú non so.
   Al giaciglio tornai, m'addormentai;
   e a me nel sonno questa scena apparve:
   le cavalle che io nutrii, che spingere
   solea, stando sul carro a Reso presso,
   pareami in sogno che le cavalcassero
   due lupi a dorso nudo, e, con la coda
   battendo i crini dell'equine groppe,
   le cacciavano in corsa: ed annitrivano,
   dalle fauci furor quelle spiravano,
   nel terror le criniere alte scrollavano.
   Ed io, tentando allontanar le fiere
   dalle puledre, mi destai, dall'incubo
   esterrefatto. E, alzando il capo, un rantolo
   udii di moribondi; e un caldo rivolo
   di giovin sangue mi colpí, sprizzante
   dal signor mio, miseramente ucciso.
   In piedi io balzo; né di lancia armata
   la mano avevo; e mentre guardo, e cerco
   d'afferrare una spada, un uom gagliardo
   in fondo al fianco il ferro mi cacciò:
   ché della spada il colpo in me sentii
   scavare il solco di profonda piaga.
   Prono al suol piombo; e il carro e le puledre
   quelli afferrano, e a fuga il piede volgono.
   Ahimè, ahimè!
   Mi tortura il dolor, piú non mi reggo.
   E la sciagura so, ché ben la vidi;
   ma come poi fu spento, e da qual mano
   fu spento, dire non saprei, ma lecito
   m'è sospettar che fu mano d'amici.
CORO:
   Del Tracio re miseramente ucciso
   Auriga, non lagnar che la sua morte
   dei suoi nemici opra non fu. Ma giunge
   Ettore stesso. La sciagura apprese,
   e il duolo tuo con te, sembra, partecipa.
(Giunge Ettore, e, altamente sdegnato, rivolge la parola al Coro)
Ettore:
   E come mai nemici esploratori
   giunsero qui, d'immense doglie artefici,
   e niuno li scoprí, vergogna vostra,
   e macellata fu la nostra gente,
   né quando in campo entrâr, né quando uscirono
   respinger li sapeste? E chi ragione
   dar ne dovrebbe, se non tu? Custode
   sei tu del campo. E illesi ora s'involano
   e molto alla viltà dei Frigi irridono,
   ed a me duce. Ma sappiate, a Zeus
   giuro ne fo, che te la sferza attende
   per la tua colpa, o il capital supplizio:
   se non sarà, chiamate Ettore un vile.
CORO: Antistrofe
   Ahimè, ahimè!
   Grande è la mia disgrazia.
   Essi giunsero, o d'Ilio
   signore, quando a te recai l'annunzio
   dei lumi che brillavano
   sopra gli argivi legni;
   ché durante la notte, io l'occhio vigile
   tenni schiuso, né mai piegai le pàlpebre,
   del Simèto pei rivi io te lo giuro.
   O re, non sia che contro noi ti sdegni,
   perché noi siamo d'ogni colpa immuni.
   E se mai nel futuro
   saranno inopportuni
   gli atti miei, le parole, ordine dà
   che vivo ancor mi calino
   sotterra; né m'udrai chieder pietà.
Auriga:
   Perché minacce ad essi volgi, e, barbaro,
   tenti in inganno trarre un altro barbaro
   con intreccio di frasi? Tua fu l'opera.
   Né chi piagato fu, né chi fu spento
   che d'altri fu crederà mai. Ben lungo
   esser dovrebbe e scaltro il tuo discorso,
   ond'io credessi che agli amici tu
   morte inflitta non hai, pel desiderio
   delle puledre. Gli alleati uccidi
   per questa brama; e di venire molto
   li scongiuravi. Son venuti e morti.
   Onesto piú di te molto fu Paride:
   esso disonorò l'ospite suo;
   tu gli alleati uccidi. E non mi dire
   che degli Argivi alcun giunse ad ucciderci.
   Chi dei Troiani superar le schiere,
   poteva, e sino a noi di furto giungere?
   Dinanzi a noi l'esercito dei Frigi
   era teco schierato. E qual fu spento
   degli alleati tuoi, quale ferito,
   se gli avversarî, come dici, giunsero?
   Io fui ferito; e quei che piú sofferse
   il sol piú non vedrà. Per dirla in breve,
   niun degli Achivi incolpo. E chi, giungendo
   di notte al campo dei nemici, Reso
   trovar poteva, se dei Numi alcuno
   non avesse indicato ov'ei giaceva
   agli assassini? Ch'ei fosse pur giunto
   ignoravan: ma tua tutta è l'insidia.
Ettore:
   Da tempo già, da che l'argivo esercito
   la nostra terra invase, ebbi commercio
   con gli alleati, e taccia di misfatto
   niuno m'inflisse mai: primo tu sei.
   Mai di cavalli tanto amor m'invada,
   che per esso gli amici a morte io ponga.
   Fu d'Ulisse l'impresa: ordirla e compierla
   quale altro argivo pote' mai? Timore
   egli m'incute; ed il timore m'agita
   che trovato abbia e spento anche Dolone:
   ch'egli da tempo è lungi, e non appare.
Auriga:
   Questo Ulisse che dici io non conosco;
   ma nemico non fu chi noi trafisse.
Ettore:
   Pensa cosí, se vuoi cosí pensare.
Auriga:
   Ché non morii sopra il tuo suolo, o patria!
Ettore:
   Troppa dei morti è già la turba. Vivi.
Auriga:
   Orbo del mio Signore, ove rivolgermi?
Ettore:
   Avrai sotto i miei tetti albergo e cure.
Auriga:
   La mano che fería, curarmi? E come?
Ettore:
   Ripeterà costui sempre un sol detto?
Auriga:
   Possa morire chi colpia. Su te,
   se vero è ciò che affermi, il mal che impreco
   non può cadere; e sa Giustizia il vero.
Ettore:
   Sia sollevato, alla mia casa addotto,
   né muover lagni debba. E voi, movete
   entro le mura, e a Priamo ed ai vegliardi
   rimasti lí, dite che ai morti, presso
   alle pubbliche vie sepolcro diano.
CORO:
   Perché mai, dopo tanta ventura,
   fra novelli cordogli un Iddio
   spinge Troia? Che affanni prepara?
(Appare in aria la Musa, stringendo fra le braccia
il corpo esanime di Reso)
CORO:
   Ahi, ahi, oh oh!
   Qual dei Numi si libra sui nostri
   capi, o re, fra le braccia stringendo
   la salma recente? Contemplo
   il doglioso prodigio e stupisco.
(Chinano la fronte, si nascondono gli occhi)
MUSA:
   Gli occhi, o Troiani, a me volgete: io sono
   delle nove sorelle una: la Musa
   madre di Reso io sono, ai vati cara.
   E venni qui poiché mio figlio vidi
   barbaramente dai nemici ucciso.
   Ma chi l'uccise, il frodolento Ulisse,
   degna pena pagarne un dí dovrà.

                                       Sfrofe
   Con accorata nenia
   te piangerò, mio figlio,
   te, di tua madre cruccio,
   quando movesti a Troia.
   Tristo il viaggio fu, gli auspíci tristi:
   ch'io rattenerti volli su quel tramite,
   ti scongiurava il padre; e tu partisti.
   Diletto, oh, quanto duolo
   è il mio per te, diletto mio figliuolo!
CORO:
   Per quanto a me, che a lui non son di sangue
   stretto, s'addice, anch'io piango tuo figlio.
MUSA: Antistrofe
   Deh, muoia il germe d'Eneo,
   e di Laerte il germine,
   che me d'un fulgidissimo
   figlio ba privato; ed Elena
   muoia, che vagabonda al frigio letto
   giunse dalla tua reggia, e a te miserrima
   fine sotto Ilio inflisse, o mio diletto.
   E quanti tetti e quanti
   vuoti furon per lei d'eroi prestanti!
   Quanta doglia da vivo e quanta, sceso
   poi nell'Averno, o figlio di Filammone,
   tu recasti al cuor mio! Ché l'arroganza
   che ti perdé, la gara con le Muse
   cagione fu che questo figlio misero
   io generassi; ché nell'almo talamo
   fui di Strimone trascinata, mentre
   la corrente del fiume attraversavo,
   il dí che del Pangeo verso le balze
   d'oro movemmo noi, Muse, recando
   i musici strumenti, al gran cimento
   di melodia, col gran vate di Tracia,
   e Tamiri, che noi per l'arte nostra
   vituperato avea, cieco rendemmo.
   E come poi ti partorii, per onta
   delle sorelle mie, della perduta
   verginità, nei vortici del padre
   fluvïal ti gettai: né lo Strimone
   t'affidò per nutrirti, a man di donna,
   ma dei fonti alle Ninfe. E qui, cesciuto
   mirabilmente da virginee mani
   fosti, o figliuolo, e il primo eri fra gli uomini,
   imperando sui Traci. E che dovessi
   spingendo a guerra le cruenti schiere
   nella patria morire, io non temevo;
   ma ti vietavo che venissi a Troia,
   ché conoscevo il tuo destin. Ma d'Ettore
   le frequenti ambasciate e i mille inviti
   t'ebber convinto a sostener gli amici.
   E della strage Atena è sola autrice.
   Non la compieva Ulisse, e non il figlio
   di Tideo, pur compiendola: non credere
   che ignara io sia di ciò. Pure, alla tua
   città rendiam piú che ad ogni altra onore,
   frequentiam quella terra; ed i segreti
   degli arcani misteri Orfeo svelò,
   cugino di costui ch'ora tu spengi.
   E il tuo concittadin santo, Museo,
   che tanto si levò su tutti gli uomini,
   Febo, e noi, sue sorelle, ammaestrammo.
   Ed ecco il premio: fra le braccia stringo
   il figlio, e sopra lui levo la nenia
   funebre: ch'io non cerco altro poeta.
CORO:
   Ettore, a torto, dunque, il tracio Auriga
   che tu l'avessi ucciso t'accusò.
Ettore:
   Tutto io sapevo; e per saper che Ulisse
   con l'arti sue l'aveva ucciso, d'uopo
   di profeti non era. E quanto a me,
   quando io vedevo la mia patria invasa
   dall'esercito ellèno, ambasciatori
   non dovevo mandar forse agli amici,
   per chiamarli al soccorso? Io li mandai.
   Con me, come ei dovea, giunse a combattere:
   è morto, e assai men duole. E adesso, pronto
   sono ad alzargli un tumulo, e la pompa
   seco a bruciar di mille vesti: ch'egli
   giunse amico, e perí di morte misera.
MUSA:
   Nelle latèbre della terra oscure
   esso non scenderà: tanto di Demetra
   Dea delle spighe io pregherò la figlia,
   sposa al Signore di laggiú, che l'anima
   del figliuol mi conceda; ed essa ha l'obbligo
   con me, che onor palesemente rendo
   agli amici d'Orfeo. Ma d'ora innanzi,
   per me sarà come se morto ei sia,
   né luce vegga piú. Perché trovarsi
   dove io mi trovi, e della madre il volto
   vedere, ei non potrà. Dell'argentífera
   terra nascosto negli oscuri anfratti,
   uomo e Nume sarà, vivo e sepolto,
   come di Dioniso il sacerdote ch'abita
   l'alpe di Pange, e pei veggenti è Nume.
   E per la Dea del mar breve il mio cruccio
   sarà: ché morir deve anche il suo figlio.
   E noi, sorelle Muse, i canti funebri
   intoneremo per te prima, e un giorno
   per il figlio di Teti, Achille: Pallade
   che uccise te, salvar non lo potrà:
   tale una freccia la farètra serba
   per lui d'Apollo. Oh angosce che la nascita
   dei figli arreca! Oh come un uom di senno
   senza prole vorrà vivere, senza
   dare sepolcro ai figli a cui die' vita!
CORO:
   Cura la madre avrà che i riti funebri
   sian compiuti per lui. Tu, se qualche ordine
   impartir ci volessi, Ettore, affréttati,
   ché l'ora è già. Del dí la luce è questa.
Ettore:
   Movete dunque, ed impartite l'ordine
   agli alleati che in gran fretta s'armino,
   e il giogo al collo dei corsieri adattino,
   e, con le faci in pugno, il suono attendano
   della tromba tirrena. Oltre l'esercito
   ed oltre il muro degli Achivi irrompere
   confido oggi, e le navi ardere e struggere.
   Sarà foriero il sol che i raggi approssima
   del dí che Troia dai nemici liberi.
CORO:
   S'indossino l'armi, si muova,
   del Sire s'adempiano
   i comandi, e da noi gli alleati
   li apprendano, e il Demone
   che ci assiste, ci dia la vittoria.
(Partono tutti)