Biblioteca:Eschilo, Prometeo Incatenato

Personaggi della dramma:

Crato (dominio) e Bia (terrore)
Efesto
Prometeo
Coro delle oceanine
Oceano
Io
Ermes
Il luogo: una rupe desolata, ghiacciata, ai confini del mondo.

Compaiono Crato e Bia. Tra loro, serrato, Prometeo. Li segue Efesto, che reca una catena e un cuneo. In pugno ha la mazza da fabbro ferraio.

Opera

CRATO
Ci siamo: qui, all'orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa di Scizia. Disumani, vuoti silenzi. Efesto, forza: fa' tuo l'impegno che il Padre ti diede, piantare alle rocce, ai picchi d'abisso quel disperato - guardalo - tra blocchi senza spiragli, di nodi d'acciaio. La gemma ch'è tua, la fiamma lucente radice d'industrie, lui l'ha carpita, l'ha fatta compagna dell'uomo.
Eccolo, il suo delitto: è dovere che ne sconti il castigo agli dèi. Gli serva da scuola, per farsi devoto a Zeus Padrone, per spegnere quel suo amoroso tendere all'uomo.

EFESTO
Crato e tu, Bia: è fatta, per voi due. L'incarico di Zeus è concluso, nulla vi frena quassù.
Io no. Mi manca, dentro, lo scatto brutale di stringere un dio del mio sangue alla rupe, rabbiosa di gelo. Ma è certo, fatale: io devo afferrarla, in me, la forza del gesto. Pesa, non dare importanza alla parola del Padre. Sì, pozzo d'ingegno, figlio di Temi dai probi pensieri, io - ribellandomi, dentro - dovrò martellarti ribelle al massiccio inumano, con blocchi di bronzo, duri a slacciare.
Qui non vedrai né figure, né suoni di esseri vivi: fisso, cotto alla vampa fiammante del sole, sentirai la tua carne sformarsi, sfiorire. Che sollievo sarà, per te, la notte col suo velo gemmato, che soffoca il lampo, e il riapparire del sole, che scioglie la crosta di brina nell'alba! Ti peserà addosso, a schiantarti, questa fissa vicenda di mali.
Non esiste, ancora, la tempra di chi possa darti conforto. Questo ti frutta la tua tensione d'affetto per l'uomo. Già: tu, dio, non ti curvi fremendo sotto il cruccio degli altri divini, e hai fatto compagni ai viventi privilegi che varcano il giusto. Ora paghi, con questa veglia al sasso del tuo sacrificio: irrigidito, senza chiudere occhio, le ginocchia contratte.
E striderai, fitte grida dolenti, e pianti, nel vuoto. Sai che Zeus, dal fondo di sé, resiste alle suppliche. Ferreo, chi ha fresco dominio. Sempre.

CRATO
Via! Che spreco di tempo, che pietà folle è la tua? Non hai disgusto d'un dio coperto dall'odio di tutti gli dèi? Lui che di frodo ha passato la tua dote ai mortali?

EFESTO
Lo stesso sangue, il vivere insieme. È tremendo!

CRATO
Anch'io lo dico. E restare sordi alla parola del Padre? È lecito forse? Non ti fa tremare più forte?

EFESTO
Sei truce, ogni volta trabocca la tua insolenza.

CRATO
Cantargli la nenia è una cura da nulla. Tu non sforzarti a vuoto, è fatica folle la tua.

EFESTO
O mani maestre dell'arte, vi odio, vi odio!

CRATO
Ti fanno ribrezzo, e perché? Parliamoci chiaro: radice di questo suo strazio non è il tuo mestiere.

EFESTO
Eppure, se fosse toccata ad un altro quest'arte.

CRATO
Tutto è peso che inchioda: salvo comandare agli dèi. Già, nessuno è padrone di sé: salvo Zeus.

EFESTO
L'ho appreso. Non ho parole, da contraddirti.

CRATO
Vuoi muoverti? Eccolo, chiudigli addosso gli anelli! Non ti adocchi il Padre, dall'alto, che ciondoli in ozio.

EFESTO
Sono qui, le ho in pugno, le cinghie: qui, sotto gli occhi di tutti.

CRATO
Piantale ai polsi, mulina la mazza con furia ostinata, martellalo al sasso.

EFESTO
Ecco, fa progressi il mio sforzo, non è vano.

CRATO
Gràndina peggio, allaccialo, non rallentare. È tremendo, scova la strada anche dove non esiste lo sbocco.

EFESTO
Ecco, il braccio è bloccato. Duro, slacciarlo!

CRATO
Allora cinghiagli l'altro, con attacco sicuro. Deve capire: con tutto il suo ingegno, è più ottuso di Zeus.

EFESTO
Salvo lui, o Prometeo, nessuno a rigore mi può criticare.

CRATO
È tempo: incuneagli in cuore, salda, la ganascia caparbia di un chiodo d'acciaio.

EFESTO
Aaah, Prometeo, io piango su questo tuo strazio.

CRATO
Ancora ti freni? E piangi su quelli odiati da Zeus? Attento, che domani la pena non sia su te stesso.

EFESTO
Che scena negli occhi! Torci lo sguardo a guardare.

CRATO
Io, negli occhi, ho uno che ha quanto gli spetta. Tu pensa a imbrigliargli col pettorale le costole.

EFESTO
È fatale che io esegua: non sforzarti a dar ordini.

CRATO
Se te ne darò di comandi! Anzi, ti latrerò addosso! Giù, torna, torna, cerchiagli forte gli stinchi.

EFESTO
Ecco, un buon lavoro davvero, senza sforzo eccessivo.

CRATO
Ora martella ben fermi i blocchi che traffigono. Bada, è rude chi scruterà la fatica.

EFESTO
È stridente la tua voce: s'accorda alla faccia.

CRATO
Tu sciogliti, dentro. Io, di carattere, resto aspro, caparbio. Non ostinarti a gettarmelo in faccia.

EFESTO
In cammino. Già tutto - polsi, caviglie - è avvolto nei nodi.

CRATO
(A Prometeo)
Sta' lì, sfògati, adesso, a predare gli onori riservati ai celesti, offrili agli esseri che in un giorno tramontano. Come sapranno i viventi cavarti di dosso la zavorra della tua sofferenza? E i divini ti chiamano Prometeo, il Presago: illusione d'un nome! Di "presagi" proprio tu hai bisogno, del trucco, come sgusciare da questo cerchio ingegnoso. Gli aguzzini escono. Sulla scena è Prometeo, solo.

PROMETEO
O aria lucente, o scatto alato dei venti, e voi, vene dei fiumi; mare, sconfinata vicenda di creste ridenti, e tu, maestosa Genitrice, terra, e tu, cosmico occhio, cerchio del sole, io vi chiamo: vedete quanto patire, io, dio, per mano di dèi!
Inorridite al mio strazio
- in polvere, cado - alla mia agonia
destinata a durare millenni.
Tanta è l'infamia che il giovane Duce
del cielo scovò a serrarmi!
Aaah, io singhiozzo sui dolori che soffro
e su gli altri, pronti all'assalto.
Sarà destino, un tempo, che albeggi
il termine del mio soffrire?
Basta, che dico? Ho limpida scienza, io, in anticipo, di ciò che sarà. Nessun male verrà, improvviso, a sorprendermi. Certo, io devo portare il mio peso fatale - quanto mi tocca - più sciolto che posso: so che è assurdo resistere contro un duro, fisso destino. Eppure, né star muto, né non star muto m'è dato ugualmente, su quel che mi capita ora.
Ho offerto privilegi ai viventi ed eccomi, soffro sotto le stanghe di questa stretta fatale. Quel giorno, a colmare uno stelo di canna, intrappolo di frodo lo zampillo del fuoco. Esso riluce, da allora, tra gli uomini, artefice, strada maestra d'ogni mestiere ingegnoso. Fu questo il peccato: ora ne sconto il castigo, qui, perso nel cielo, trafitto nei ceppi. Una pausa. Poi come un battito d'ali lontane.
Là, ecco, ecco! Che accento,
che cieca fragranza m'aleggia sul viso?
Spira da un dio, da un uomo
o intreccio d'entrambi
arriva al mio picco, frontiera del mondo?
Pellegrino a scrutare il mio strazio,
o diverso è l'impulso?
Mi vedete? Sono io, dio disperato, legato
io incarno l'odio di Zeus, tocco
il fondo dell'odio
di tutti gli dèi, quanti fanno corona
al soglio di Zeus.
Radice è il mio affetto violento per l'uomo.
Aaah, che battito avverto, ora,
di voli vicini? Nell'aria un sibilo lieve,
di snelli palpiti d'ali.
È angoscia, tutto ciò che mi spunta vicino.
Un cocchio alato approda alla rupe, presso Prometeo. Reca le Oceanine, ninfe figlie di Oceano.

CORO
str. I
Non angosciarti!
T'è fraterno lo stuolo
che a sfida, nello scatto del volo,
approda al tuo picco. Ha sciolto,
suadente, il divieto paterno
fondo, ostinato.
M'hanno retto fedeli folate di vento.
Sorda, un'eco
di mazza sonora d'acciaio
cadde, a picco, nel cavo
anfratto marino
disfece il riserbo
che china lo sguardo.
Un balzo - scalza, perfino -
e via sul cocchio volante.

PROMETEO
Ah, figliole,
frutto della fertile Teti
e d'Oceano padre - spirale
fluente d'acque vivaci
intorno al pianeta - gelate d'orrore
a vedere che cinghia mi serra
alle punte scheggiate del mio precipizio:
solitario, aborrito turno di veglia!

CORO
ant. I
Mi brucia, Prometeo, la tua vista:
assalto, ai miei occhi, d'una nebbia
angosciosa velata di pianto
a vederti disfatto sul sasso
nello strazio d'acciaio che inchioda.
Giovani dèi alla barra: è loro dominio
l'Olimpo. Domina Zeus
con regole di strano stampo
non radicate alla legge. Disperde
la grandezza d'un tempo.

PROMETEO
M'avesse scagliato sotterra, più fondo
dell'Inferno che ospita i morti
nel Tartaro senza spiragli: ferocia
di nodi serrati, ribattuti. Né un dio,
allora, né un altro godrebbe
di queste mie pene. Invece patisco
- brandello che sventola in cielo -
e il martirio è festa a chi m'odia.

CORO
str. II
Chi dei celesti è tanto spietato
in petto, da far festa al tuo strazio?
Chi non ribolle concorde
al tuo sacrificio? Zeus, solo lui. Duro
non scioglie il rancore, la mente diritta:
schianta il ceppo d'Urano,
non vuole placarsi, se prima non sfama
il suo cuore. O se scaltro colpo di mano
non gli schianta d'assalto l'arcigna potenza.

PROMETEO
Di me, sì, di me - di quest'infamia vivente
coi polsi nei ceppi di ferro -
avrà urgenza il sovrano celeste:
che gli spieghi il nuovo tranello, la mano
decisa a razziargli corona e potere.
Dolci scongiuri a incantarmi, fascini.
a farmi dire di sì: nulla potranno.
Né mai mi fletto all'aspra minaccia.
Non chiarirò il segreto, se prima non snoda
i disumani ceppi, e consente
a pagarmi il riscatto d'osceno martirio.

CORO
ant. II
Hai coraggio. Non t'incrina
l'amaro soffrire.
Ma il tuo labbro è sfrenato.
Irta angoscia mi scava, profonda.
È spavento per me il tuo domani:
mi chiedo se un giorno potrai salutare
porto sicuro al tormento.
Non si espugna il cuore di Zeus: non si stempra,
parlando, il figlio di Crono.

PROMETEO
So. È dispotico, Zeus. Giustizia
è suo possesso privato. Pure,
un giorno si farà fragile, dentro:
a quel colpo di maglio che so.
Levigando il carattere rude
verrà a fraterna alleanza da me,
lui desideroso a me desideroso.

CORO
Fa' piena luce, gridaci alto il motivo: che crimine Zeus t'ha addossato, da farti tanto patire, tra spasimi vili brucianti? Facci comprendere: se il ragionare non ti fa aspra la pena.

PROMETEO
È una fitta, per me, il puro parlare di questi miei casi. Ma anche il silenzio trafigge: cerchio sinistro, fatale! Fu subito quando gli dèi, collerici, presero a odiarsi. Montava tra loro il contrasto: chi era ansioso di scuotere Crono dal seggio, sperando che Zeus - lui, certo - divenisse monarca; negli altri una contraria passione: che mai nel tempo Zeus fosse principe in mezzo agli dèi. In quell'ora io suggerivo ai Titani, figli di Urano e di Terra, la scelta più accorta.
Non seppi farmi ascoltare. Non dettero peso alla scaltra malizia, sicuri - ferrea arroganza! - di poter essere loro i padroni, d'impeto, sciolti da ogni fatica. La madre, Temi - o Gea: ha una sola figura, ma titoli vari - più d'una volta m'aveva predetto, ispirata, il domani, com'era destino finisse.
Era fatale: sarebbe emerso al potere non chi contava sullo sforzo bruto, ostinato, ma sull'insidia. Ed io, ragionando, volevo guidarli: neppure un'occhiata da loro, per tutta risposta. Era il mio stato d'allora. Scelsi come meglio pareva: tenermi a sostegno la madre e offrirmi, franco, alla franca alleanza di Zeus.
Io l'ispiravo, e ora la fossa, il gorgo nero di Tartaro inghiotte Crono, remota creatura, e con lui i suoi scudieri. Ecco il frutto, che il divino despota ha goduto da me: ed ecco l'atroce riscatto con cui mi liquida ora! Certo: è nel cuore dell'essere despoti - un'intima peste, di resti - non confermare fiducia a chi è più vicino. Ora, la vostra domanda: il crimine per cui mi tortura. Voglio dirvelo chiaro.
Rapido - s'era allora insediato sul trono del padre - di volo spartiva i poteri, il proprio a ciascuno dei numi, e pensava a inquadrare, fila per fila, il suo impero. Degli uomini invece - dolente miseria - non volle saperne. Aspirava a dissolverne il ceppo, a fondo, a trapiantarne una fresca semenza. Nessuno provava a resistergli, in questo: io da solo.
Io, temerario, io volli salvare i viventi, che non finissero - polvere sfatta - sotterra, da Ade. Per questo m'inarca il tormento, soffrire che lacera, da piangere forte a vedermi. Io sì, io ho pianto - fu mia quella scelta - sugli esseri umani: fortuna - il compianto - che a me, troppo vile, è stata negata.
Così eccomi, rimesso in riga senza pietà: spicco, vivido sfregio all'onore di Zeus.

CORO
È ferro, dentro, è figura di sasso, Prometeo, chi non freme concorde al tuo spasimo. Anch'io, vorrei non averlo negli occhi: da quando lo vedo davanti ho fitte acute nel cuore.

PROMETEO
Certo: per i miei sono vista pietosa, io.

CORO
Non varcasti - un passo, forse - questa soglia di colpa?

PROMETEO
Era fisso, sbarrato all'ora fatale l'occhio dell'uomo: io lo distolsi.

CORO
Che medicina inventasti a questa piaga?

PROMETEO
Opaco sperare: l'ho fatto colono dei cuori.

CORO
Regalo grande hai donato ai viventi.

PROMETEO
Non basta: io, ho fatto loro compagna la fiamma.

CORO
E ora ha il lampo del fuoco chi tramonta col giorno?

PROMETEO
Una fonte, da trarne la scienza di molti mestieri.

CORO
Così, di tanto Zeus t'incrimina e ti...

PROMETEO
... tortura, e non smorza per nulla la pena.

CORO
Non c'è limite fisso, nel tempo, alla tua agonia?

PROMETEO
Nessuno. Finché a quello - quando, chissà - non paia il momento.

CORO
Gli parrà, poi? C'è speranza? Tui hai peccato, lo vedi? Il tuo peccato: dirlo non è gioia, per me; per te, poi, è una fitta. Basta parlarne, scova un sollievo alla tua agonia.

PROMETEO
Lieve cosa, a chi cammina fuori dai mali, alzare la voce, criticare chi naviga in acque agitate. Io, io sapevo le cose fino in fondo. Scelsi, scelsi io di peccare, non voglio negarlo. Da me, da me ho creato il mio strazio per proteggere l'uomo.
Oh no, non credevo di dover tanto pagare, rigido, riarso agli aerei dirupi: caso fatale, per me, questo morto, spopolato macigno! Oh no, basta lacrime sul mio vivo tormento di oggi; posatevi in terra vicine. Udite anche il mio fatale domani che lento trapela. Saprete fino in fondo le cose. Fate, fate ciò che vi chiedo, stringetevi a me, soffrite il mio strazio. Equa, l'angoscia. Vaga randagia e approda: da te, poi subito via, da un altro.

CORO
Non a sorde, Prometeo, gridasti,
acuto, l'invito: eccomi, snello
è il mio passo. Abbandono
il cocchio saettante
e l'aria, intatto varco d'alati:
tocco questa terra scheggiata
nell'ansia d'udire,
fino in fondo, i tuoi mali.
Le Oceanine posano al suolo, fanno cerchio davanti a Prometeo. Dall'orizzonte spunta il padre loro, Oceano, sul magico carro mosso da un grifone.

OCEANO
Sono da te! Varco ora la soglia
d'un viaggio che si stende remoto,
Prometeo. Ecco il mio alato,
scattante nel volo: lo reggo
col puro volere, senza colpo di briglie.
Sento con te il tuo soffrire fatale, ti dico.
È il ceppo comune - credo - che tanto mi spinge.
Ma il ceppo non basta: non esiste
un altro che goda da me
l'alto grado di stima ch'è tuo.
Proverai questo dire, s'è schietto. Folle
illusione, a sedurre: non sarebbe da me.
Ora illustra che soccorso ti serve:
son pronto. Non dirai nel futuro:
"uno m'è stato più franco, più fraterno
di lui, di Oceano."

PROMETEO
Strano, arrivi tu pure, curioso del mio tormento? Che slancio t'è nato, nel sangue, di staccarti dal cerchio di acque che porta il tuo nome, dalle volte di sasso, dagli anfratti nativi, per recarti quassù, alla terra che dà il ferro alla luce? O il tuo scopo, venendo, è scrutare i miei casi fatali, saldare alla mia la tua rabbia, per tanto patire? Orrore nei tuoi occhi: ecco, sono io, il fratello di Zeus, io che al suo fianco gli ho fatto saldo il dominio. Come m'inarco, al tormento che mi viene da lui!

OCEANO
O Prometeo, vedo. Sento che devo ispirarti la scelta migliore. A te, che pure sei sciolto di mente.
Studiati, dentro: accorda nel modo più adatto, rinnova le tue tendenze. C'è un despota nuovo adesso, in mezzo agli dèi. Se t'ostini e saetti sempre le crude parole, vere armi temprate, c'è rischio che Zeus presti orecchio, pure se il trono è ad altezze infinite, lassù, sul tuo capo.
Finisce che la folla - già viva in te - dei tuoi mali, ti pare trastullo di bimbi. Creatura di dolore, placa la tensione che hai dentro, studia le vie per staccarti dal tuo martirio. C'è sapore di tempi passati in queste mie frasi, dirai.
Prometeo, bada. La tua lingua s'impenna, superba: e ora ne incassi la paga. Neppure t'abbassi, non t'inchini ai colpi maligni, vuoi tirartene addosso di nuovi, oltre a quelli che soffri. Lascia che io ti insegni: non devi impuntarti sotto la sferza. Vedi, oggi domina un despota aspro, immune da ogni giudizio.
È ora, parto. Voglio tentare a mio modo, chissà se ho potere di scioglierti da questo martirio. Calmati, intanto. Soffoca in gola la rabbia. Sei pieno d'ingegno sottile: come non sai che supplizio inchioda una lingua sventata?

PROMETEO
Mi fa gola il tuo stato, davvero! Nessuno t'incrimina. Eppure tutto hai spartit con me, hai osato con slancio costante. Ora smetti però non prenderti a cuore il mio caso. Non puoi fletterlo in nulla. È inflessibile, lui. Anzi, sta' ad occhi aperti. Non esporti da te a qualche colpo penoso, con questo tuo andare.

OCEANO
Sei bravo a istruire chi ti trovi di fronte, più che te stesso: l'hai nel sangue. Realtà è la mia prova, non chiacchiere. Bene, in cammino! Tu non crearmi ostacoli: è inutile. Ho fiducia, sì, piena fiducia che Zeus per me farà quel favore: io riuscirò a darti sollievo da questo soffrire.

PROMETEO
Voglio fartene onore, ora e per sempre, senza stanchezze. Se c'è bisogno di cuore, tu non ti tiri mai indietro. Ora però non devi impegnarti. Sperderesti alla cieca il tuo impegno - impegno certo sincero - senza frutto per me.
Calmati, intanto. Alla larga da questa vicenda. Il mio è destino sinistro.
Mi spiace, se - per mia colpa - cresce la cerchia di quelli che soffrono urti fatali. Non voglio! Già mi tortura il destino di Atlante, mio fratello: radicato laggiù, dove risiede il crepuscolo, regge sul dorso il pilastro tra firmamento e terra, mole ingrata alle spalle. Gemetti pietoso pure sul figlio di Terra - ospite delle caverne cilicie - sanguinario prodigio, Tifone centoteste, il flagello: lo scorsi abbattuto di schianto. Irto, ribelle al cosmo divino, schiumava spavento dalle zanne agghiaccianti, scrosci, dagli occhi, di saette roventi, a impietrire; avido - forse - di schiantare d'assalto, furibondo, l'impero di Zeus. Lo toccò lo strale di Zeus, che non sa la quiete; la folgore, a picco, fiato che avvampa.
Così lo precipita dalla vertigine delle sue ciarle spavalde: trafitto nel fondo del superbo sentire, fu scintille, subito, e cenere, assalto che sfuma in saette tonanti. Ora dilaga, carne ferma, oziosa, sull'orlo d'un breve varco marino: lo torchia, nell'abisso, il ceppo dell'Etna.
In alto, sui picchi, Efesto signore martella la colata rovente.
Verrà il giorno, e lassù sarà scatenarsi di fiumane infuocate, a straziare golose, con zanne bestiali, gli aperti poderi, la Sicilia incantata di messi. Sarà Tifone: la sua rabbia, che erutta e ribolle. Strali brucianti, ostico nembo vaporante di fiamme. E pure la saetta di Zeus l'ha fatto nero, tizzo riarso! Ma a te l'esperienza non manca. Non sarò io a insegnarti, non serve.
Pensa tu a risparmiarti: sai bene il sistema. Io, giorno per giorno, scarico la zavorra fatale che ho addosso: aspetto che Zeus, dal fondo di sé, lasci morire la rabbia.

OCEANO
Prometeo, informati. Si cura, la febbre dell'ira: ragionando.

PROMETEO
Se la fase è propizia e sai sciogliergli il cuore. Certo, non devi asciugargli di colpo il gonfiore, l'interna tensione.

OCEANO
Se uno si offre di cuore, nel suo scatto s'annida rovina, ai tuoi occhi. Insegnami, quale?

PROMETEO
Sciupare le forze. Leggerezza, da buonuomo senza criterio.

OCEANO
È questa la mia febbre. Lasciami questa mia febbre. Preferisco provare, io, sensi d'affetto e parere insensato.

PROMETEO
È il mio caso! Io, mi sentirò dire che proprio questo è il mio sbaglio.

OCEANO
Capisco. La tua parola è un invito a tornarmene indietro.

PROMETEO
Piangermi può attirarti odio nemico. Non voglio.

OCEANO
Da lui? Da lui che siede da poco sul trono del cosmo?

PROMETEO
Da quello. Veglia, che il suo cuore non senta il peso dell'odio.

OCEANO
Il tuo patire, Prometeo, è scuola per me.

PROMETEO
Ti saluto. Incamminati, tieniti la tua mentalità.

OCEANO
Mi sferzi, col tuo ultimo grido. Ma io già mi stacco. Ormai il destriero volante scivola d'ala nell'etere aperto. È già festa per lui: gli par quasi d'essere a casa, di posare sui garretti alla greppia. Al suono di queste parole, Oceano s'è staccato dal suolo e ora sparisce volando.

CORO
str. I
Singhiozzo sulla tua
devastata vicenda, Prometeo.
Spiove dagli occhi languore di pianto
- mio dono votivo - a rigare la gota
già fradicia, da liquide fonti.
Tremendo, sì, è l'impero di Zeus
- la sua Legge è Sovrana -
che sul capo degli antichi celesti
sfoggia scettro abbagliante.
ant. I
È già tutto un vibrare di pianto
qui intorno. Lacrime...
sul fregio superbo, sul culto
che ti fece bello, Prometeo
un tempo, insieme al tuo sangue.
E la gente che vive qui accanto
nella terra devota dell'Asia
intreccia concorde singhiozzo
al tuo urlante patire;
str. II
fino in Colchide, là, le guerriere
fanciulle senza paura
e la scitica truppa che tiene
l'ultimo orlo del mondo, rasente
lo stagno Meotide;
ant. II
e l'eroica gemma d'Arabia,
popolo di vertiginose fortezze
laggiù, al Caucaso, armata
tremenda, fluttuante
baleno di lame.
[str. III?]
Solo un altro divino - ricordo -
subì - curvo - rovina di nodi d'acciaio:
Atlante, il Titano, forza enorme, sovrana
che tra le lacrime regge la volta stellata.
[ant. III?]
Spasima, geme il mare bollente
onda di pianto che l'abisso ripete.
Ha brividi cupi l'antro di Ade, sotterra
e le vene dei limpidi fiumi
lamentano fitta struggente.

PROMETEO
No, no. Se sto muto - credete - non è il mio amore di me, che mi scalda, ostinato. Rifletto, e intanto mi lacero, dentro: vedo me stesso coperto di fango! E sì che io - chi altri? - proprio io distinsi i poteri tra questi giovani dèi. Basta.
Sto zitto. Che serve, spiegare a voi che sapete le cose? Sentite invece che dolori in mezzo ai viventi, creature puerili a quei tempi. Io li formai: riflessivi, sovrani del loro intelletto. Narrerò non a umiliare gli esseri umani, ma a svelare fino in fondo l'affetto che mi dettava quei doni.
Anche prima di me guardavano, ed era cieco guardare; udivano suoni, e non era sentire; li vedevi, erano forme di sogni, la vita un esistere lento, un impasto opaco senza disegno; non sapevano case - trame di cotti mattoni - inondate di sole, né il mestiere del legno; l'alloggio era un buco sotterra - come formiche sul filo del vento - nel seno di grotte cieche di sole. Mancavano loro i fissi presagi del gelo che viene, della primavera fragrante, fiorita, del tempo caldo dei frutti. Era tutto un darsi da fare senza lume di mente. Finché io insegnai le aurore e i tramonti nella volta stellata: un problema, saperli! Fu mia - e a loro bene - l'idea del calcolo, primizia d'ingegno, e fu mio il sistema di segni tracciati, Memoria del mondo, fertile madre di Muse.
Io, inventai l'attacco di bestie selvatiche al giogo, io le domavo sotto cinghie: dovevano essere loro gli eredi dell'uomo nella fatica pesante, che stronca. Io trassi il cavallo alle stanghe del carro, lo feci tutt'uno alle briglie: fregio stupendo del lusso che spicca e trionfa. Fu mia, solo mia, la scoperta di un mezzo marino - vele come ali - per la gente che corre le onde. Io che ho ideato tanti congegni per l'uomo non trovo per me uno scaltro pensiero, sollievo al tormento che ora m'assale.
È la mia sofferenza!

CORO
Passione che ti offende, la tua! Brancoli, scivoli ormai nel delirio. Sembri un medico inetto, piombato nel male: ti senti mancare, nel cuore, non scorgi rimedi, come fare a sanarti.

PROMETEO
C'è altro. Crescerà il tuo stupore, udendo il racconto dei mezzi, delle strade maestre che la mia mente ha tracciato. Senti ciò che conta di più: se l'uomo piombava infermo, nulla gli faceva da scudo, né alimento, né pozione, né balsamo. Sempre più secco, scavato: disperato bisogno di cure. Finché venni io a indicare gli amalgami, i composti che alleviano, fanno barriera a qualunque malanno. Non basta: io regolai le linee infinite dell'arte profetica.
Io primo scelsi fra i sogni quelli destinati a farsi mondo reale, io interpretai gli ambigui rumori e i segni, in cui t'imbatti per strada. Fui io a definire con termini netti i voli degli uccelli dall'artiglio falcato - quelli da destra che hanno in sé forza propizia, e gli altri... che hanno il bene nel nome - e l'indole, le schermaglie di guerra e d'amore, l'affollarsi d'ogni razza d'alati; poi il nitore delle viscere, l'aspetto della bile a suscitare la grazia dei numi, la diversa armonia benigna del fegato.
Io misi al fuoco quarti fasciati di grasso e - intero - il filo del dorso: così feci strada ai viventi, verso la chiusa scienza dei segni, e diedi sguardo eloquente ai messaggi del fuoco, vitrei, un tempo, appannati. Tutto qui in questo campo. Poi i beni che l'uomo si gode, sepolti da sempre nel fondo, sotterra: bronzo e ferro, oro e argento.
Avanti, chi può dire di averli scovati prima di me? Nessuno, son certo. Altrimenti è parlare borioso, da folle. Poche parole a dirti intero il concetto: fonte di tutte le scienze ai viventi è Prometeo.

CORO
Tu non ostinarti a far ricchi i viventi. Non è più il caso se per questo abbandoni te stesso al destino sinistro. Io sono piena di fede, ti dico: libero da questi tuoi nodi avrai forza non meno di Zeus.

PROMETEO
La Quota Fatale decide la fine: per lei non è ancora destino che sia questa la mia realtà. Folla di spasimi e strazi, fino a lasciarmi infranto: solo dopo sfuggo ai miei nodi. Fragile cosa l'ingegno, contro il destino che stringe.

CORO
Chi drizza la barra del fato?

PROMETEO
Quota trina, e le Erinni, memoria di ferro.

CORO
Vuoi dire che Zeus è fragile contro di loro?

PROMETEO
Il suo futuro è obbligato, non può svincolarsi.

CORO
Che altro futuro, per Zeus, se non perpetuo dominio?

PROMETEO
Non t'è dato saperlo, non fare domande.

CORO
Forse è un arcano ciò che serri in cuore?

PROMETEO
Mutate argomento. Non è l'ora di gridare il segreto. Bisogna seppellirselo dentro, più forte. Solo se io lo proteggo mi sciolgo - libero - da questo groppo d'infamia e miseria.

CORO
str. I
Che la potenza cosmica, Zeus,
non sbarri mai i miei disegni!
Che io non sia pigra, col culto
delle feste di rito, cruente d'offerte
agli dèi, laggiù, al fuggitivo fluire
d'Oceano padre. Sia casta la lingua!
Mi si radichi dentro l'impegno, non sfumi.
ant. I
Soave, inarcare la vita
sullo slancio di sogni sereni:
dentro, ti matura luminosa la gioia.
Gelo d'orrore, a fissare la folla di strazi che t'azzanna la carne...
Zeus non ti turba. Ti dai tu la tua legge
Prometeo: culto acceso dell'uomo.
str. II
Come può concretarsi, la gratitudine? O caro
rispondi: che soccorso, che scudo
da chi tramonta? Non scorgi
il languore spossato
- d'incubo, quasi - che annoda
il fioco ceppo vivente?
Ciò che l'uomo decide
non varca il cosmo di Zeus.
ant. II
M'ha fatto scuola, Prometeo,
la vista di te devastato.
Che abisso, quest'onda che sboccia di canto,
dall'aria nuziale ch'io dedicavo
quel giorno - a corona del letto,
dell'acqua lustrale - a voi sposi:
tu seducevi coi doni di nozze
Esione, la nostra sorella, la fecevi tua donna
a fianco, nel letto.

Entra Io in delirio. Ha una maschera bovina.
Scarta come giovenca resa pazza dall'aculeo di un tafano.
A voce altissima.


Che paese? Che ceppo? Mi abbaglia
la vista di uno imbrigliato alla roccia
al flagello del gelo. Chi sarà?
Che colpa sconti, morendo? Fa' segno,
che terra è qui, meta al mio randagio penare?
Aaah!
Soffro! Ecco, lancinante aculeo
lo spettro di Argo, sangue di Terra.
Svialo, mio dio! Orrore
il bovaro - lo vedo! - costellato di occhi.
Cammina. Ho addosso il suo occhio. Mi spia.
Occhio morto, e neanche la terra lo vela!
A darmi tormento
varca l'abisso, mi bracca: cagna
magra, sbandata sulle dune salmastre.
str. I
Soffuso m'asseconda l'intreccio
di canne e di cera,
docile eco, ritmo che spande sopore.
Aaah, che dolore! Dove, dove mi scaglia
la corsa randagia che si perde lontano?
Tu, figlio di Crono, dove, dove, m'hai colto
in peccato, da gettarmi addosso le
stanghe del mio tormento?
Aaah! Perché mi trapassi
- spavento d'aculeo ch'inchioda -
spaurita, in delirio?
Fammi lucente al tuo fuoco, cancellami
giù nella terra,
offrimi, carne alle zanne
dell'abisso marino.
O Sovrano, non chiuderti
al mio supplicare.
Basta con l'immensa corsa randagia:
la corsa, la mia lotta è finita. Mi manca
l'idea per spogliarmi dei mali.
Mi senti? Sono io giovinetta che ti grido,
io, mascherata di corna, giovenca!

PROMETEO
Potrei non udirti? Tu sei quella di Inaco, la giovane che l'aculeo sferza. Sei quella che scalda Zeus di passione. Incarni l'odio di Era: ora gareggi senza via di scampo, tappa di corsa che non ha confini.


ant. I
Da che fonte tu chiami per nome mio padre?
Di' a me, di' alla sofferente chi sei
tu o dolente che a me addolorata
parlasti sincero, tu che hai saputo
dare il suo nome al male sfrecciato da dio
a smagrirmi, trapassarmi
con sproni di sbandato furore.
Aaah!
che miseria, i miei scatti continui
- via, digiuna - scalpitare, a folate,
e approdare quassù
sfiancata dal carico d'odio
fondo, cosciente di Era.
Gente, voi che avete nemico il destino,
chi soffre la mia tortura?
Avanti, scava,
illumina il fondo della mia passione
che m'attende al varco.
C'è mezzo, da sanare il mio male?
Devi dirlo, se sai.
Parla alto, svelalo
alla donna che lotta col suo vagare.

PROMETEO
Scaverò fino in fondo. Dirò quanto cerchi sapere. Non intreccio storte parole. Con trasparente linguaggio, come è dovere aprire le labbra con chi ti è vicino. Sono io, fautore del fuoco ai viventi: Prometeo!


Oh splendore di bene che illumina il mondo mortale, Prometeo! Ma tu soffri, che colpa sconti col tuo patimento?

PROMETEO
In questo punto ho placato i lamenti sul mio soffrire.


Vorrai però porgermi questo favore...

PROMETEO
Di' la richiesta. Puoi apprendere tutto da me.


Chi t'inchiodò al precipizio? Spiega.

PROMETEO
L'insidia di Zeus. E il braccio di Efesto.


È castigo, il tuo. Di quali delitti?

PROMETEO
Basta. Per me t'ho svelato abbastanza.


Prego, va' avanti. La meta, la meta del mio correre: dilla! E di' il giorno: chissà se esiste nel mio futuro di pena.

PROMETEO
Non sapere il futuro vale più che saperlo, per te.


Non tenermi nel buio sul mio futuro soffrire.

PROMETEO
Bene, non voglio negarti questo regalo.


Però dubiti. Non vuoi farmi pienamente luce?

PROMETEO
Non è chiuso egoismo. Tremo, a schiantarti la mente.


Non angosciarti più per me, per cose che m'è grato sentire.

PROMETEO
Lo vuoi caldamente. Bisogna parlare. Attenta.

CORO
Fermo, ti prego. Ci sono anch'io. Fa' cosa grata anche a me. Vogliamo la storia del suo delirio, dalle sue vive labbra il racconto del suo devastante passato. Poi s'istruisca da te sulla lotta che le resta da vivere.

PROMETEO
Io devi scegliere di piegarti, assecondare la loro preghiera. Bada, anzitutto: hanno il tuo sangue paterno. E disperarsi, sospirare sul proprio passato - se poi chi t'ascolta ti porge tributo di pianto - è prezzo buono per il tempo speso.


Non so certo tradirvi. State per udire l'intera mia storia, con lingua sincera, com'è vostro volere. Confesso. Ho pudore anche solo a narrare il gelido vento alitato da un dio, il mio bel viso stravolto, disfatto, la radice di quell'assalto che mi fu addosso di volo, a prostrarmi.
Sì. Nelle notti era fitto aleggiare di sogni al mio letto di giovane, a sedurmi con voci come carezze: "Fanciulla, il destino ti bacia. Perché questa verginità caparbia, se t'è offerto godere - è il tuo fato - di nozze sovrane? Zeus, sì Zeus è tutto caldo del tuo strale, della tua febbre.
La sua voglia è godere Afrodite con te. Figlia, non scalpitare contro il letto di Zeus. Alzati, corri alla radura di Lerna, nel folto, laggiù agli steccati, ai pascoli paterni: che tu sia di refrigerio all'occhio spasimante del dio!". Ecco che specie di sogni gremiva la mia pace notturna.
E io gemevo! Alla fine trovai la forza: svelai a mio padre le visioni che mi popolavano il sonno. E s'affannava, con gli esperti del dio, che corressero fitti a Pito, a Dodona: il suo scopo era sapere la supplica o il rito richiesto, a guadagnare la grazia dei numi. Al loro ritorno era sempre sfarfallio di presagi sfumati, insensati: una lotta, sbrogliarli. Finché trasparente parola venne a mio padre.
Alto, imperioso comando, e diceva di me: cacciarla dalle mura e dalla terra paterna, randagia fino all'orlo remoto del mondo, animale slegato. Se negava, scattava incandescente saetta da Zeus: e il suo ceppo intero svaniva nel buio. Credette mio padre all'Obliquo, alla sua voce presaga. Mi gettò sulla strada, mi sprangò in faccia le porte: lui disperato, io disperata! Ma lo schiacciava lo sperone di Zeus, senza via di fuga: era agire obbligato. D'un tratto si sfaceva la mia bellezza, e insieme il sentimento. Sulla fronte le corna - ecco, guardate - addosso le fitte, i morsi del moscone, a lacerarmi: delirio di scarti e di balzi, fino alla cara, dissetante fiumana Cercneia e allo sgorgo di Lerna.
M'era ombra un bovaro, sangue di Terra, Argo: pura rabbia furiosa, una folla di occhi, di avidi sguardi a contare uno dopo l'altro i miei passi. Una fine fatale - insperata, fulminea - lo strappò dalla vita. Da allora, ai colpi d'aculeo, celeste scudiscio, io mi trascino fuggendo paese dopo paese. Ecco, sai la vicenda. Se puoi dire il fondo del mio sacrificio, spiegalo. Via il consolante tepore delle bugie pietose: il più maligno vizio, ti dico, è parlare artefatto.

CORO
Via, via, frenati, basta!
Io no, io no; non osavo aspettarmi
d'udire storia fuori dal mondo
- pene, infamie, paure
riluttano, a coglierle, i sensi, la vista! -
che mi togliesse il respiro
il gelo che spira
dall'aculeo a due tagli.
Aaah, caso fatale:
tremo, negli occhi il passato di Io.

PROMETEO
Troppo in fretta spasimi, trabocchi quasi d'angoscia. Frenati, completa la tua conoscenza con gli ultimi casi.

CORO
Di' tutto, spiega la fine. Chi soffre è più lieto, se apprende per tempo, scavando, il fondo dei propri dolori.

PROMETEO
Il vostro volere di prima è compiuto. Fu comodo. A me, lo dovete. Volevate da lei, dal suo vivo racconto, sapere per prima la lotta che Io ha vissuto. Ora attente, vi dico la fine; i dolori che lei, questa giovane donna, deve ancora soffrire: Era è la fonte. E tu, germoglio di Inaco, chiuditi dentro il mio dire: saprai fino in fondo dove termina il viaggio.
Parti da noi, volgi il viso alle sorgenti del sole e corri pianure che non sanno aratro. Toccherai gli Sciti errabondi: per alloggio tettoie a graticcio, sospesi su carovane robuste, per armi hanno archi che vanno lontano. Non devi accostarli. Lambisci col passo gli anfratti ululanti di flutti, e traversa il paese.
A sinistra stanno i Calibi, fabbri ferrai: guardati bene da loro, sono incivili, scontrosi coi forestieri. Eccoti ora all'Ibistre, il fiume furioso: il suo nome non mente. Tu non passarlo - del resto non offre passaggi - finché non ti trovi sul Caucaso, la catena sovrana.
Lassù, dalla cresta più alta, il fiume sventaglia il suo soffio possente. Poi ti tocca scalare picchi compagni alle stelle, e imboccare la strada, giù, al mezzogiorno, finché incontrerai le Amazzoni armate, nemiche del maschio. Questa gente, col tempo, fisserà la sua sede a Temiscira, là al Termodonte. Laggiù è Salmidesso irta ganascia marina: odia ospitare marittimi, lei, madre snaturata di navi.
Saranno le Amazzoni a dirti la via, gioiose. Così arriverai alla lingua Cimmeria proprio alle bocche del lago, a quel varco serrato. Qui devi raccoglierti dentro il coraggio, partire, e guardare il canale Meotico. E sarà perenne nel mondo la storia famosa di questo tuo varco. Da esso avrà il nome: Bosforo, Guado di Io la Giovenca. Così avrai lasciato la terra d'Europa, e verrai nei paesi dell'Asia. Che vi sembra: quello, il despota del cielo, non è impetuoso, troppo, con tutti? Ecco, una donna: lui, dio, per la voglia di lei le precipita addosso questa vita randagia. Aspro innamorato ti toccò fanciulla, per la tua mano. Pensa: la vicenda che hai udito narrare non è ancora la prima nota del canto!


Aaah, Io Io!

PROMETEO
Ancora tu mugoli, stridi. Che altro farai, se senti la fine dei tuoi dolori?

CORO
Sì? Narri il fondo della sua passione?

PROMETEO
Gelido mare nemico di penosi strazi.


Ormai, che mi frutta la vita? Anzi, dovevo essere svelta, lasciarmi cadere dal picco pietroso. Uno schianto alle rocce, ed era il sollievo da tutti i tormenti. Sì, meglio la morte, e finirla per sempre, che vivere intero - catena di giorni maligni - il mio patimento.

PROMETEO
Che schianto, per te, se vivessi la mia agonia! Non esiste la morte, per me: è fatale. Quello mi sarebbe sollievo al tormento. Nel mio avvenire non è tracciata sicura frontiera al dolore: se prima Zeus non crolla dal suo potere di despota.


Esiste, quel tempo: Zeus che crolla dal regno?

PROMETEO
Festa grande, per te, vedere quel giorno, io credo.


E come, altrimenti? È colpa di Zeus la mia prova.

PROMETEO
Rallegrati: quest'evento è già quasi realtà.


Che mano lo spoglierà del suo scettro imperiale?

PROMETEO
La sua. Sarà colpa del suo vuoto cervello.


Come si svolge? Di' chiaro, se non temi colpo maligno.

PROMETEO
Sposa. Sposalizio che col tempo l'amareggia di pena.


Creatura celeste o vivente? Se t'è dato, rispondi.

PROMETEO
Non chiedere "chi"! È segreto che non si rivela.


È colpa della sposa, se Lui piomba dal trono?

PROMETEO
Di lei. Farà un figlio più potente del padre.


Non c'è mezzo per lui di sviare il futuro?

PROMETEO
Nessuno: solo io, quando mi siano aperti i miei ceppi.


Chi può aprirli, se Zeus è contrario?

PROMETEO
Dev'essere uno che viene da te, dal tuo sangue.


Come? Un figlio, da me, ti strapperà alla tua pena?

PROMETEO
Il terzo nato: conta dieci nascite, prima.


Non è esplicito questo tuo canto presago.

PROMETEO
Anche tu, non chiedere più. Non sviscerare la pena futura.


M'allunghi una grazia, poi la ritrai. Non farlo.

PROMETEO
Due vicende. Una soltanto te ne posso offrire.


Due, quali? Spiegale prima e concedimi scelta.

PROMETEO
Concedo. Tu scegli. O svelo chiara la passione che ancora ti attende, o quello che verrà a slegarmi.

CORO
Fanne uno a lei, l'altro a me di questi favori. Accetta, non deluderci: meritiamo il racconto. A lei profeta l'ultimo peregrinare, a noi il liberatore. Lo voglio, ti dico.

PROMETEO
Se vi sta tanto a cuore, non posso impedire: ecco l'aperta predizione, come voi insistete. Io comincerò da te. Svelo il gorgo infinito del tuo vagare: segnalo, tu, nei fogli profondi della memoria. Compiuto il tuo guado del fiume, frontiera di due terreferme, cammina alle fonti lucenti del sole, passa fragore di mare ed ecco, ti trovi alle zolle Gorgonie, laggiù, a Cistene.
Vi stanno le Graie, tre, millenarie fanciulle - cigni, a vederle - una sola pupilla per tutte, un identico dente. Mai si posò su di loro sguardo radioso di sole, o di notte lunare. Accanto, le loro sorelle, pennute, villose di rettili: tre Gorgoni, schifo del mondo. Un'occhiata, e non c'è creatura che serbi il respiro.
Ti serva da scudo il racconto. Attenta. Ecco il quadro che segue: ripugna, al contatto. Schiva la muta di Zeus, i Grifoni: becchi taglienti, non sanno ringhiare. Con loro il branco sgroppante dei guerci Arimaspi, al galoppo: stanno alla sponda del rivo Opulento, che fluisce dorato.
Gente da non starci vicina. Poi arrivi alla terra ai confini del mondo, agli uomini negri che vivono sotto le fonti del sole, là dove scorre l'Etiope, il fiume Riarso. Inoltrati lungo gli argini, finché incontrerai la cascata: laggiù, dalle alture dei Libri sgorga il flusso adorato e prezioso del Nilo. Sarà lui ad aprirti la strada, giù al triangolo di terra che si chiama Nilotide.
A tale distanza, Io è deciso che sorga a te e al tuo ceppo la nuova dimora. Se nel racconto c'è parola che zoppica, chiusa, ostinata, chiedi due volte, illumina la tua conoscenza. Tanto è fermo il mio tempo: più di quel che vorrei.

CORO
Continua, se t'è rimasta una fine - o parole taciute - da predire al suo devastante vagare. Ma se la tua storia è conclusa, rendi a noi il favore richiesto. Certo ricordi.

PROMETEO
Conosce ormai l'ultima soglia del suo viaggiare. Ma voglio ridirle le pene patite, prima di giungere qui. Che sappia: non è folle la storia che ha udito. Sarà questo il pegno della mia profezia. Lascio nell'ombra il groppo pesante del tuo passato, eccomi dritto alla soglia del tuo viaggio randagio. Dopo che fosti alle campagne Molossie, a Dodona - la cresta scoscesa, dov'è il soglio veggente di Zeus Tesprozio e il sovrumano prodigio, le querce eloquenti, la cui voce gridò tersa, senza giri viziosi, che tu diventavi col tempo sposa
illustre di Zeus: c'è sprazzo di festa, per te, in quel tuo passato? - poi partisti, e a colpi d'aculeo, per la strada rasente la spiaggia, scappasti al seno vasto di Rea, e da qui raffiche di delirio, a rimbalzarti in scorrerie senza fine.
Ma tempo verrà, e quel rientro marino - ricordalo bene - Ionio, avrà nome: testimonio del tuo viaggio alle genti del mondo. Ecco, questa è per te garanzia del mio intelletto che sa spingere l'occhio ben oltre la chiara parvenza dei fatti. Voi e lei, qui, unitevi, attente: svelo la fine.
Ritorno nel solco della mia storia di prima. Esiste città, estrema del paese d'Egitto, Canobo: alla bocca del Nilo, alla sua massicciata terrosa. In quel punto Zeus ti fa gravida: col tocco, delicato sfiorare di mano che non sa tremore. E darai alla luce Epafo negro, Figlio del tocco, che dice col nome il suo essere nato da Zeus. Sarà lui a far fruttare la piana, quanta ne irrora il corso possente del Nilo.
Alla quinta progenie da Epafo, cinquanta fanciulle sbocciate al suo ceppo verranno ad Argo di nuovo: sarà scelta ribelle, fuggitiva ripulsa all'unione nuziale - intreccio di sangue - ai cugini. La passione di questi sarà fondo delirio: falchi che tortore non sanno staccare, caleranno alla caccia di nozze. Caccia vietata: e un dio sottrarrà questa carne di donna. Si spalancherà per loro il suolo pelasgio, prostrati da mano armata, assassina, di donna: scatto insonne, la notte di nozze! Sposa che strappa al suo uomo la vita: una per una, tempra la lama tagliente allo squarcio.
Fosse tale, a chi mi odia, l'assalto d'Amore! Ma la voglia d'amare sarà magico freno a una giovane donna: non può uccidere l'uomo a letto con lei, si smussa il suo progetto di morte. Tra due, sarà questa la sua scelta: avrà nome di fragile donna, non d'assetata di sangue. Sarà lei a far nascere ceppo di re, in Argo.
Ma scavare, scorrere i fatti richiede storia infinita. Da questa semenza sorgerà tempra d'eroe, destinato a brillare per l'arco: lui mi salverà da questo patire! Così suona il presagio che mi narrò la millenaria madre, la titanide Temi. Il momento, il mezzo, è storia che non termina mai: e tu non hai frutto a saperla completa.


Aaah! Pietà!
m'arroventano crampi, raffiche in cuore
dementi, punta d'aculeo,
senza tempra di fuoco, mi buca.
Scalpita il cuore d'angoscia,
si torcono gli occhi - ruote impazzite.
Cieco delirio, a folate, mi scaglia
fuori di me. Si scatena la lingua.
Impasto fangoso il mio dire,
risacca che picchia nei flutti
di amara rovina.

CORO
str.
Lucido, lucido ingegno l'uomo che primo
coltivò nella mente, spiegò con le labbra:
"Nozze a misura di sé sono scelta sovrana!
Chi suda la vita non può innamorarsi
di nozze con gente sfinita dal lusso
o altera per la gloria del sangue".
ant.
Quote, Quote fatali, non fate ch'io sia
colta che entro nel letto di Zeus:
mai mi affianchi a uno sposo venuto dai cieli.
Orrore, la vista di Io: freschezza di donna
che non vuole l'amore, e si sperde,
randagia, dolente, nell'andare che Era le infligge.
ep.
Per me, solo chi sposa il suo pari è sereno.
Passione di celesti sovrani non sfrecci
su me lo sguardo che inchioda.
Che lotta! Lottare non serve.
Foce che sfocia nel nulla.
Ignoro che fine mi tocca.
Se è Zeus che mi pensa,
non ho mezzo, a salvarmi!

PROMETEO
È sicuro. Con tutto il suo amore di sé, Zeus precipita in basso, col tempo. Pensa, che nozze prepara. Nozze capaci di farlo sparire, crollato dal soglio imperiale. Quel giorno avrà pieno vigore la minaccia rabbiosa che Crono, suo padre, gl'imprecava piombando dall'antico potere. Gravoso futuro: dei celesti, nessuno può offrirgli la chiara visione di come stornarlo.
Io solo! Io so la vicenda, la piega che prende: l'affronti, ci provi, Zeus, maestà che s'appoggia ai boati lassù tra le nubi, sicuro di sé, se solo sventaglia col pugno saette che sbuffano fiamma! Boati, saette non potranno fargli da scudo, evitargli uno schianto umiliante, insopportabile. Con le mani, si sta fabbricando a suo danno un campione di lotta, un miracolo, ostico, senza sconfitta.
Sarà lui a scovare saetta più robusta del fulmine, e boato possente che schiaccia la voce del tuono, saprà sperdere nel nulla l'oceanica febbre che fa spasimare la terra, l'arpione, lama acuta di Poseidone. Lascia che Zeus picchi contro questo sfacelo: saprà allora l'abisso tra dominare e vivere servo.

CORO
Già, così sfoghi il tuo sogno: sbavando su Zeus.

PROMETEO
Sogno presto reale. Di mio, v'aggiungo la brama.

CORO
È certo, nel futuro c'è uno che domina Zeus?

PROMETEO
Pesi gli spezzeranno il collo, ostici più dei miei pesi.

CORO
Non hai brividi, sferrando tante bestemmie?

PROMETEO
Terrore, di che? Non c'è morte, nella mia parte di mondo.

CORO
Può darti agonia più esasperante di ora.

PROMETEO
Che la dia. Ho tutto previsto, io.

CORO
Flettersi all'Inevitabile è equilibrio.

PROMETEO
Tu sempre in ginocchio, lusinga il padrone: il tuo idolo! Zeus, a me, sta a cuore meno di niente. Decida, faccia il padrone, a suo piacimento. Gli resta ben poco. Non potrà comandare i celesti per molto.

(Appare Ermes, affannato)
Là! Chi vedo. Lui, il corridore di Zeus, braccio destro del despota, appena arrivato. Senz'altro è qui a riferire fresche notizie.

ERMES
Ehi, pozzo di scienza, testardo intestardito, l'hai fatta grossa agli dèi: passare i poteri a chi tramonta in un giorno! Ladro di fuoco, dico a te. Zeus padre comanda: indica di che nozze ti glori, per mano di chi deve cadere il suo impero. E aggiunge: senza giri viziosi, ma svelando fatto per fatto. Non infliggermi doppio cammino, Prometeo. Non è modo, lo vedi, per fare più morbido Zeus.

PROMETEO
Discorso sublime, davvero. Si sente, mente superba, la tua: da sgherro di dèi. Siete di oggi. Di oggi è il vostro dominio: illusi di vivere in torri sbarrate all'angoscia. Non sono già due i sovrani piombati dall'alto? Coi miei occhi li ho visti. Un lampo, e vedrò anche il terzo, quello che è ora monarca: più umiliato che mai.
Rabbrividire, io, acquattarmi di fronte a quei giovani dèi? Ti par proprio? Ne manca, anzi, non sarà mai. Tu riprendi la tua strada, spicciati: da me non udrai parola, di quello che chiedi.

ERMES
Già una volta, per amore caparbio di te, t'incagliasti tra questi tormenti.

PROMETEO
Il tuo stare a servizio, il mio sacrificio: non farei cambio mai, imparalo bene.

ERMES
Già, meglio il servizio a questa tua roccia, che esser portavoce docile di Zeus padre, immagino.

PROMETEO
Peccatori superbi così peccano, superbamente!

ERMES
Ti scaldi, mi pare, al pensiero di quello che sei.

PROMETEO
Io, scaldarmi? Vedessi caldo così chi mi odia. Nel numero metto anche te.

ERMES
Io? Addossi anche a me la disgrazia che soffri?

PROMETEO
Semplice. Sono carico d'odio contro gli dèi, tutti. Gente che mi deve favori e invece, tradendo, m'offende.

ERMES
Sento che ormai deliri: una febbre non passeggera.

PROMETEO
Febbre, delirio? Se è delirio esecrare chi t'odia.

ERMES
Impossibile reggerti, se fossi tu il fortunato.

PROMETEO
Aaah, che miseria!

ERMES
Ecco parola che Zeus neppure conosce.

PROMETEO
Il tempo, quel vecchio perenne, insegna di tutto, alla fine.

ERMES
Tu ancora però non conosci equilibrio di mente.

PROMETEO
Purtroppo: non starei a parlare con te, sgherro.

ERMES
Nulla hai da dire, vedo, alle richieste del Padre.

PROMETEO
Al contrario. Che gli sono obbligato, e vorrei ricambiarlo.

ERMES
Ti beffi. Per bimbo immaturo m'hai preso.

PROMETEO
Peggio. Peggio di un bimbo immaturo, più demente, se t'illudi di cavarmi parola di bocca. Zeus non possiede né infamia, né scaltra tortura, da piegarmi a svelare le cose: prima deve farmi cadere di dosso l'offesa dei nodi. Che risponda sferrando vampa infuocata. Sfasci, agiti il cosmo con piume lucenti di neve, coi boati d'abisso. Nulla mi farà inginocchiare, a svelargli la mano capace di gettarlo giù dall'impero.

ERMES
Pensa bene, se è il modo di porti al riparo.

PROMETEO
È un pezzo che penso. Ho deciso: va bene così.

ERMES
Coraggio, cieco che sei! Abbi coraggio, una volta, di riflettere a mente serena sul tuo soffrire.

PROMETEO
Cieco tu. M'angosci. Ma è come parlassi alla risacca del mare. Non ti venga pensiero che il progetto di Zeus mi spaventi, mi riduca ad aver cuore di donna. È lui tutto il mio odio vivo. Non avrà mai la mia supplica - donnetta, diresti di me, le mani curve, protese - che mi salvi da queste catene: tempo eterno, c'è in mezzo.

ERMES
Parlo, mi ostino. Ma è sempre parlare alla cieca, vedo. Non ti sciogli, non hai cedimenti, neppure alle mie insistenze. Sei puledro fresco di stanghe: morsica il ferro, tempesta, fa guerra alle briglie. Ma la tua furia è frutto d'ingegno spossato.
Puro, nudo amore di sé, in chi non gode equilibrio di mente, vale meno che nulla. Puoi anche non essere vinto dal mio ragionare: pensa la raffica, l'enorme ondata di mali pronta all'assalto. Non hai fuga. Comincerà così. A boati, a colpi di saetta lucente il Padre ti spacca il tuo precipizio scoglioso.
La tua carne sprofonda, ti raccoglie tenaglia di sasso. Sconterai fino in fondo vastissimi anni, per riemergere al sole. Allora il segugio volante di Zeus, l'aquila striata di sangue, golosa, farà macello di te, cencio smisurato di carne: tu non l'inviti, ma lei scivola dentro, al festino, e finché dura la luce fa onore alla mensa, al tuo fegato scuro! Non illuderti, non esiste confine al tormento, se prima dai celesti non sorge uno che erediti il tuo sacrificio, deciso a calarsi sotterra, dove raggio non brilla, nel Tartaro cavo, spento. Pesa i fatti, poi scegli.
Sta' certo, non è presunzione bugiarda la nostra, è realtà ribadita, fermissima. Lingua di Zeus non sa menzogna: ogni parola è spinta al suo fine. Sii prudente, calcola tutto: non seguire l'idea che l'amore di sé abbia forza più del chiaro intelletto.

CORO
Per noi, Ermes ragiona come il momento richiede. Ti comanda di deporre l'amor proprio caparbio, d'esplorare la via del chiaro, pensoso equilibrio. Seguilo: peccare sfregia chi possiede ragione.

PROMETEO
M'era già noto da sempre l'annuncio
che questa voce scandisce. Se c'è l'odio
non è sfregio patire da quello che t'odia.
Risponda fiondandomi addosso
l'affilata voluta di fuoco, s'impenni
la volta stellata ai boati, al delirio
di folate furenti. Oh, se il vortice schioda
il pianeta dal perno, con tutto il suo tronco!
Se oceano ribolle, roca mugghiante
muraglia al passaggio
dei corpi celesti! Sollevi, fiondi
la mia carne al Tartaro cupo:
morsa massiccia, fatale.
Non può dare morte totale al mio io!

ERMES
Voci, ragioni d'un cervello sconvolto:
sei subito certo, a sentirle.
Perfetta frenesia, corda stridente
il suo sogno. Non è folle, caparbio?
A voi, ora, che concordi spartite
il suo strazio: lasciate di volo
la vetta, che il rantolo sordo
prodigioso del tuono
non v'abbagli la mente.

CORO
Muta argomenti. Dimmi ragioni
che possa seguire. Il tuo dire
dilaga: una piena, senza riparo.
Allénati a essere vile, mi dici. Perché?
Soffro al suo fianco, fino in fondo.
Io, scelgo. So l'odio contro chi è perfido.
Non c'è peste
che mi disgusti tanto.

ERMES
Bene. V'anticipo tutto: fissàtelo in mente.
Non bestemmiate Fortuna
quando Supplizio
vi avrà nel carniere. Non dite che Zeus
v'ha scagliato improvviso castigo.
Non Zeus. Voi, proprio voi. Coscienti
- non come un lampo, di frodo -
cadrete nei nodi, rete senza spiraglio
di Supplizio: causa è la vostra demenza.

PROMETEO
Non è favola, è reale
questa terra che vibra.
Roco si rifrange il boato
- muggito profondo - turbine esplode
di rovente saetta, nodo di vento
mulina la sabbia: sgroppano raffiche
intreccio di folate rissose
scena di soffi che urtano, saldi.
Oceano, cielo: un impasto sconvolto.
Eccolo, il pugno, da Zeus:
è forgia d'angoscia. S'accosta. Risplende!
Madre adorata. O Cielo
che ruoti, diffondi chiarore nel cosmo,
contempla il martirio: vìola Giustizia.

La rupe si spacca. Prometeo e le Ninfe sprofondano. Bagliori e boati chiudono il dramma.