Biblioteca:Erodoto, Le Storie, Libro IX

Versione del 27 apr 2017 alle 08:57 di Ilcrepuscolo (discussione | contributi) (Sostituzione testo - 'Eraclidi' con 'Eraclidi')

1) Mardonio, quando Alessandro, al ritorno, gli ebbe riferito la risposta degli Ateniesi, mosse dalla Tessaglia e condusse rapidamente l'esercito contro Atene; dovunque arrivasse, prendeva con sé le genti del posto. I capi della Tessaglia, per nulla pentiti del loro precedente operato, aizzavano ancora di più il Persiano: Torace di Larissa, che aveva accompagnato Serse nella sua ritirata, allora concesse a Mardonio, apertamente, libero transito contro la Grecia.

2) Quando l'esercito, nella sua marcia, giunse in Beozia, i Tebani cercarono di far fermare Mardonio e di consigliarlo, sostenendo che non c'era località più adatta di quella per piazzare l'accampamento; volevano che non procedesse oltre, che si installasse lì e agisse in modo da sottomettere tutta quanta la Grecia senza colpo ferire. Sopraffare con la forza i Greci uniti e compatti, gli stessi d'altronde che anche prima erano concordi, sarebbe stato difficile anche a tutto il mondo in armi. "Invece", sostenevano "se seguirai i nostri consigli, sarai padrone senza fatica di tutti i loro piani. Manda denaro ai notabili delle varie città; così facendo dividerai la Grecia e a quel punto con l'aiuto dei tuoi fautori avrai facilmente la meglio su chi ti è ostile".

3) Così lo consigliavano, ma lui non si lasciava convincere; gli si era radicato nell'animo un desiderio terribile di conquistare Atene per la seconda volta: in parte per insensatezza, in parte perché contava, per mezzo di segnali luminosi da isola a isola, di informare Serse, a Sardi, che aveva Atene in mano sua. Neppure questa volta, giunto in Attica, vi trovò gli Ateniesi; seppe che la maggior parte si trovava a Salamina, sulle navi, e occupò la città deserta. L'occupazione del re era avvenuta nove mesi prima della successiva spedizione di Mardonio.

4) Mardonio, quando fu ad Atene, inviò a Salamina un uomo dell'Ellesponto, Murichide, a ribadire il messaggio già trasmesso agli Ateniesi da Alessandro il Macedone. Fece questo secondo tentativo già consapevole dei sentimenti ostili degli Ateniesi, ma nella speranza che essi, considerando l'Attica intera un paese ormai conquistato e sottomesso ai suoi ordini, recedessero dalla loro follia.

5) Per questo inviò Murichide a Salamina. Murichide, presentatosi al Consiglio, riferì le parole di Mardonio. Uno dei consiglieri, Licide, espresse l'opinione che fosse bene accogliere la proposta di Murichide e presentarla al popolo. Ebbene, Licide manifestò questa opinione, vuoi che avesse accettato denaro da Mardonio, vuoi magari perché la cosa gli piaceva. Ma gli Ateniesi, i membri del Consiglio e gli altri di fuori, quando lo seppero, ritennero di gravità estrema il fatto, circondarono Licide e lo lapidarono: l'inviato d'Ellesponto, invece, lo rispedirono indietro sano e salvo. Dopo che a Salamina, sull'episodio di Licide, era scoppiato un tumulto, alle donne ateniesi giunse notizia di quel che stava accadendo: si passarono la voce l'una con l'altra, si radunarono, mossero spontaneamente contro la casa di Licide: e lì lapidarono la moglie di lui, lapidarono i suoi figli.

6) Ecco in quali circostanze gli Ateniesi si erano trasferiti a Salamina. Finché si aspettavano l'arrivo dal Peloponneso di un esercito in loro soccorso, se ne restarono in Attica, ma poiché quelli sempre di più si attardavano e se la prendevano comoda e ormai l'invasore veniva segnalato in Beozia, allora portarono segretamente tutte le loro cose, e si trasferirono essi stessi, a Salamina. A Sparta inviarono ambasciatori, un po' per rinfacciare agli Spartani di aver permesso l'avanzata del barbaro in Attica e di non averla contrastata assieme a loro in Beozia, e un po' per ricordargli cosa aveva promesso il Persiano agli Ateniesi se cambiavano campo; per avvertire, insomma, che se gli Spartani non venivano in aiuto degli Ateniesi, questi si sarebbero trovati anche da soli una via di scampo.

7) In effetti gli Spartani celebravano in quel momento una festività (erano le Iacinzie) e si preoccupavano più che altro di ottemperare ai doveri religiosi. E intanto la muraglia, che costruivano sull'Istmo, era ormai arrivata alla merlatura. Quando gli ambasciatori ateniesi giunsero a Sparta, accompagnati da colleghi di Megara e di Platea, si presentarono agli efori e dichiararono:

A)"Gli Ateniesi ci hanno inviato per dirvi che il re dei Medi ci restituisce la terra e ci vuole come alleati a pari condizioni e dignità, senza dolo e senza inganno; e oltre alla nostra terra è pronto a darcene anche dell'altra, a nostra scelta. Noi, però, per rispetto verso Zeus Ellenio e perché aborriamo l'idea di tradire la Grecia, non abbiamo accettato; anzi abbiamo rifiutato, anche se dai Greci siamo stati trattati ingiustamente e abbandonati e ci rendiamo conto che per noi sarebbe più vantaggioso venire a patti col Persiano che non combatterlo. Non ci accorderemo con lui, almeno di nostra volontà. Il nostro atteggiamento verso i Greci è dunque onesto e leale.

 B)E a voi, caduti allora nel più nero terrore di un nostro eventuale accordo con il Persiano, adesso che vi è nota esattamente la nostra intenzione di non tradire mai la Grecia, visto che la muraglia sull'Istmo è ormai quasi finita, degli Ateniesi non vi importa più nulla: il piano di difesa in Beozia concordato con noi lo avete tradito e lasciate che il barbaro occupi l'Attica. Sino a questo momento gli Ateniesi sono sdegnati con voi: non avete agito come si doveva. Al presente però vi invitano a spedire con noi un esercito, al più presto, per contrastare il barbaro in Attica. In effetti, giacché ci siamo giocata la Beozia, la zona più adatta a una battaglia, nel nostro paese, è la pianura Triasia".

8) Ebbene, ascoltato il discorso, gli efori differirono la risposta al giorno dopo, il giorno dopo al successivo, e così via per altri dieci, procrastinando di giorno in giorno. E nel frattempo tutti i Peloponnesiaci lavoravano a gran ritmo alla costruzione della muraglia sull'Istmo; e ormai l'opera era vicina al compimento. Non saprei dire perché dopo la visita di Alessandro di Macedonia ad Atene si erano tanto preoccupati che gli Ateniesi passassero dalla parte dei Medi e ora invece non se davano pensiero; l'unica spiegazione è che l'Istmo stavolta era ormai fortificato e forse pensavano di non aver più bisogno degli Ateniesi, mentre all'epoca della missione in Attica di Alessandro la muraglia non era ancora pronta e anzi vi stavano lavorando per timore dei Persiani.

9) Infine ecco come si arrivò alla risposta e alla partenza dell'esercito spartano. Il giorno prima dell'ultima udienza prevista, un uomo di Tegea, Chileo, uno straniero che godeva del massimo prestigio a Sparta, apprese dagli efori tutti i ragionamenti fatti dagli Ateniesi. Dopo averli sentiti, Chileo disse loro: "Signori efori, la situazione è questa: se gli Ateniesi non ci sono amici, ma si alleano col barbaro, per quanto solida sia la muraglia costruita da un capo all'altro dell'Istmo, si spalancano per il Persiano immense porte sul Peloponneso. Date retta agli Ateniesi prima che prendano un'altra decisione, rovinosa per la Grecia".

10) Questo fu il suo consiglio; ed essi, afferrato il senso del discorso, senza dire nulla agli ambasciatori giunti dalle città, fecero partire, che era ancora notte, cinquemila Spartiati, assegnando a ciascuno di loro sette iloti e affidando il comando a Pausania figlio di Cleombroto. Il comando spettava in realtà a Plistarco, figlio di Leonida, però ancora ragazzo: Pausania ne era tutore e cugino. Cleombroto, padre di Pausania e figlio di Anassandride, ormai non era più vivo: una volta ricondotta in patria dall'Istmo l'armata che vi aveva costruito il muro, era morto, in breve volger di tempo. Cleombroto aveva ricondotto in patria gli uomini dall'Istmo per la seguente ragione. Stava offrendo sacrifici per ottenere auspici contro il Persiano, quando il sole si oscurò nel cielo. Pausania si aggregò Eurianatte, figlio di Dorieo, esponente della sua stessa casata.

11) Pausania e i suoi, dunque, uscirono da Sparta. Gli ambasciatori, del tutto ignari della spedizione, si presentarono di buon mattino agli efori con l'intenzione di andarsene verso i rispettivi paesi; si presentarono agli efori e dissero: "Voialtri Spartani ve ne state qui a celebrare le Iacinzie e a festeggiare, dopo aver tradito i confederati. Ma gli Ateniesi, offesi da voi e privi di alleati, verranno a un accordo col Persiano come gli sarà possibile. E una volta siglato l'accordo, poiché è chiaro che diventeremo alleati del re, marceremo con lui e i suoi dove vorranno guidarci. E voi, a quel punto, vi renderete conto delle conseguenze". Alle parole degli ambasciatori gli efori replicarono giurando di ritenere che le truppe in marcia contro gli stranieri fossero ormai a Oresteio: chiamavano "stranieri" i barbari. Gli ambasciatori, che nulla sapevano, chiesero spiegazioni e in tal modo appresero tutto, sicché, pieni di stupore, partirono alla svelta sulle tracce dell'esercito. La stessa cosa fecero, con loro, cinquemila perieci spartani scelti.

12) Essi, dunque, si affrettavano verso l'Istmo. Gli Argivi, come seppero che Pausania e i suoi si erano mossi da Sparta, mandarono in Attica un araldo, il corriere migliore che scovarono. In precedenza, infatti, avevano promesso a Mardonio di bloccare l'esercito spartano, di impedirgli di lasciare il loro territorio; l'araldo giunse ad Atene e disse: "Mardonio, gli Argivi mi hanno mandato a dirti che la gioventù in armi è partita da Sparta e che gli Argivi non sono in grado di impedirle di uscire dal paese. Perciò sappiti regolare al meglio".

13) Detto ciò, l'araldo tornò indietro; Mardonio da parte sua, dopo aver ricevuto questa notizia, non aveva più voglia di fermarsi in Attica. Prima di riceverla se ne stava quieto, intenzionato a sapere cosa avrebbero fatto gli Ateniesi: non devastava né saccheggiava la campagna dell'Attica, sempre sperando che venissero a trattare con lui. Non riuscendo a convincerli, appena fu al corrente di tutto e prima che gli uomini di Pausania arrivassero all'Istmo, si ritirò, ma dopo aver dato alle fiamme Atene: se qualche pezzo di mura, di case o di templi era ancora in piedi, lo abbatté e rase al suolo. Si allontanò per la semplice ragione che l'Attica non era terreno adatto alla cavalleria e, in caso di sconfitta, non c'era via di scampo se non attraverso stretti sentieri dove anche pochi uomini avrebbero potuto bloccarli. Si proponeva dunque di risalire fino a Tebe e di combattere là, vicino a una città amica e su un terreno adatto alla cavalleria.

14) Mardonio dunque stava ripiegando; ed era già in cammino quando gli giunse notizia che un altro contingente di mille Spartani in avanscoperta era giunto a Megara. Quando lo seppe, fece i suoi calcoli: innanzitutto era ansioso di riuscire, se lo poteva, a eliminare quelli. Invertì la marcia delle sue truppe e le guidò verso Megara: la cavalleria, spintasi avanti, compì scorrerie nella Megaride. Questo fu il punto più occidentale in Europa raggiunto dall'esercito persiano.

15) In seguito a Mardonio giunse notizia che i Greci si erano tutti concentrati sull'Istmo. Sicché tornò indietro attraverso Decelea; i capi Beoti avevano convocato i vicini Asopi, che lo guidarono verso Sfendalea e di là a Tanagra. Sostò una notte a Tanagra e il giorno dopo, piegando verso Scolo, venne a trovarsi nel paese dei Tebani. Qui, benché i Tebani fossero schierati dalla sua parte, tagliò al piede le piante, non per ostilità nei loro confronti, ma perché stretto da una imperiosa necessità: voleva assicurare una difesa al suo esercito e si costruì questo riparo nel caso l'esito della battaglia non dovesse essere quello desiderato. L'accampamento cominciava da Eritre, fiancheggiava Isie e si spingeva fino al territorio di Platea, accanto al fiume Asopo. Il muro che alzarono, però, non fu altrettanto esteso: solo una decina di stadi su ciascun lato.

16) Mentre i barbari erano impegnati in queste opere, il Tebano Attagino, figlio di Frinone, fatti sontuosi preparativi, invitò a pranzo Mardonio in persona e cinquanta Persiani fra i più ragguardevoli, i quali accettarono l'invito; il banchetto ebbe luogo a Tebe. Quanto segue l'ho sentito raccontare da Tersandro, uno dei cittadini più illustri di Orcomeno. Mi raccontò Tersandro di essere stato invitato pure lui da Attagino a questo banchetto, a cui partecipavano anche cinquanta personaggi di Tebe. Gli invitati non si sistemarono su divani separati, ma su ogni lettuccio c'erano un Persiano e un Tebano. Dopo il pasto, mentre si beveva, il Persiano con cui divideva il posto gli chiese in greco di dove fosse e lui gli rispose che era di Orcomeno. Il Persiano allora proseguì: "Poiché sei stato mio compagno di tavola e hai brindato con me, voglio lasciarti un ricordo di ciò che penso, perché tu, preavvisato, possa riflettere bene su quello che ti conviene fare. Tu vedi questi Persiani che banchettano e l'esercito che abbiamo lasciato accampato sulle rive del fiume? Di tutti costoro fra non molto tu ne vedrai ben pochi ancora vivi". Diceva così il Persiano, e intanto piangeva, piangeva. Tersandro meravigliato delle sue parole gli domandò: "Ma non sarebbe il caso di dirlo a Mardonio e agli altri che, dopo di lui, godono di maggior prestigio fra i Persiani?". Ma quello rispose: "Straniero, quel che gli deve venire dal dio nessun uomo può stornarlo; e anche se dài avvertimenti degni di fede, nessuno vorrà prestarti ascolto. Siamo in tanti, fra i Persiani, ad essere convinti di ciò che si prepara e non ci opponiamo, obbligati dalla necessità. Ed è questa al mondo l'angoscia più odiosa: capire molto e sentirsi impotenti". Questo sentii da Tersandro di Orcomeno; ed anche che ne aveva parlato subito ad altri, prima che avesse luogo la battaglia di Platea.

17) Mardonio era dunque accampato in Beozia. Tutti gli altri Greci che in quelle zone parteggiavano per i Medi gli fornivano truppe, e già avevano invaso con lui Atene; solo i Focesi non avevano partecipato all'attacco, perché senza dubbio stavano anch'essi coi Medi, ma costretti e non per propria volontà; però non molti giorni dopo il rientro di Mardonio a Tebe arrivarono mille loro opliti, al comando di Armocide, cittadino fra i più illustri. Quando anch'essi giunsero a Tebe, Mardonio inviò loro l'ordine di sistemarsi, in disparte dagli altri, nella pianura. Come ebbero obbedito, subito si dispiegò l'intera cavalleria. Quindi per il campo dei Greci che erano con i Medi si sparse la voce che la cavalleria doveva abbatterli sotto un nugolo di frecce, e la voce giunse anche tra i Focesi. Allora il comandante Armocide li esortò con queste parole: "Focesi, è chiaro: questa gente si prepara a darci una morte sicura; immagino che i Tessali ci abbiano calunniato. Ora bisogna che ognuno di voi si dimostri uomo di valore. È meglio fare qualcosa di grande e morire battendosi, che farsi massacrare in maniera ignominiosa. Facciamogli vedere che sono dei barbari e che hanno tramato l'assassinio di veri Greci!".

18) Li esortò così. I cavalieri li accerchiarono, avvicinandosi come per spazzarli via e già puntavano le frecce facendo atto di scoccarle, e qualcuno, forse, l'avrà pure lasciata partire; ma i Focesi li fronteggiarono, stretti fianco a fianco e con le file serrate il più possibile. Allora i cavalieri voltarono e tornarono indietro. Non sono in grado di dire con certezza se si erano avvicinati per sterminare i Focesi su richiesta dei Tessali e se poi, quando li ebbero visti pronti alla difesa, si ritirarono per timore di subire delle perdite (conforme agli ordini di Mardonio) o se Mardonio abbia voluto saggiare il coraggio dei Focesi. Appena ritiratisi i cavalieri, Mardonio mandò un araldo con il seguente messaggio: "Coraggio, Focesi, vi siete dimostrati uomini di valore, diversamente da quanto mi avevano raccontato. Adesso mettetecela tutta in questa guerra. In benefici non batterete né me né il sovrano". Così andò a finire l'episodio dei Focesi.

19) Gli Spartani, arrivati all'Istmo, vi si accamparono. Venuti a saperlo, gli altri Peloponnesiaci, quelli che avevano preso la decisione migliore e alcuni anche perché vedevano gli Spartiati scendere in campo, non vollero restare esclusi dalla spedizione. Pertanto, tratti gli auspici, si misero tutti in marcia dall'Istmo e giunsero a Eleusi. Anche lì eseguirono un sacrificio e, ottenuti i presagi favorevoli, proseguirono, assieme agli Ateniesi, che erano sbarcati da Salamina e si erano uniti a loro a Eleusi. Appena giunti a Eritre, in Beozia, appresero che i barbari erano accampati sul fiume Asopo e, quando lo seppero, andarono a schierarsi di fronte a loro alle falde del Citerone.

20) Mardonio, visto che i Greci non scendevano nella pianura, lanciò loro addosso l'intera cavalleria, al comando del nobile persiano Masistio, chiamato Macistio dai Greci, che montava un cavallo niseo dalle briglie d'oro e splendidamente bardato. Allora i cavalieri, lanciandosi verso i Greci, li attaccarono a squadroni e, attaccandoli, infliggevano loro duri colpi, e li insultavano chiamandoli "donnicciuole".

21) Per caso i Megaresi si trovavano schierati nel punto più vulnerabile dell'intera posizione, dove più facilmente poteva spingersi la cavalleria. Premuti dunque dagli attacchi della cavalleria, i Megaresi mandarono agli strateghi Greci un messaggero, il quale, giunto a destinazione, parlò così: "I Megaresi dicono: "Alleati, non siamo in grado di reggere da soli l'urto della cavalleria persiana, mantenendo la posizione su cui ci siamo attestati all'inizio; fino a ora abbiamo resistito con tenacia e valore, benché schiacciati dai nemici. Se adesso non inviate dei soldati a darci il cambio in prima linea, sappiate che abbandoneremo la nostra posizione"". Questo comunicò l'araldo, e Pausania sondò se c'era qualcuno fra i Greci volontariamente disposto a recarsi sul luogo e a dare il cambio ai Megaresi. Mentre gli altri si rifiutavano, accettarono gli Ateniesi, e, fra gli Ateniesi, i trecento soldati scelti comandanti da Olimpiodoro figlio di Lampone.

22) Accettarono e si dislocarono verso Eritre, davanti a tutti gli altri Greci, dopo aver preso con sé gli arcieri. Dopo un bel po' che combattevano, ecco come finì la battaglia. Durante un attacco a squadroni della cavalleria il cavallo di Masistio sopravanzò gli altri e fu colpito al fianco da una freccia; per il dolore si impennò, disarcionando Masistio. Subito gli Ateniesi si gettarono sul caduto: ne catturarono il cavallo e uccisero Masistio che si difendeva, ma non ci riuscirono subito perché era così equipaggiato: sotto portava una corazza d'oro a squame e sopra la corazza indossava un chitone di porpora. Colpendolo sulla corazza non gli facevano nulla, finché qualcuno non capì come stavano le cose e gli trafisse un occhio. Allora cadde e morì. Gli altri cavalieri non si accorsero di nulla: non lo avevano visto cadere da cavallo né morire, e nel ritirarsi e fare una conversione non si resero conto di quel che era accaduto. Una volta fermi si accorsero della sua mancanza, perché non c'era più nessuno a disporre gli schieramenti. Compreso cos'era successo, incitandosi a vicenda, spinsero tutti il cavallo all'attacco, almeno per recuperare il cadavere.

23) Gli Ateniesi, vedendo che i cavalieri non si lanciavano più all'assalto a squadroni, ma tutti in massa, chiamarono a gran voce il resto dell'esercito. Mentre tutta la fanteria si muoveva in loro soccorso, scoppiò un'aspra battaglia per il corpo di Masistio. Finché furono soli, i trecento ebbero la peggio e stavano per perdere il cadavere, ma quando giunse in aiuto il grosso delle truppe allora furono i cavalieri a non reggere più; non riuscirono a recuperare il corpo di Masistio e, per giunta, persero altri uomini. Fermatisi a un paio di stadi di distanza, si consultarono sul da farsi; decisero, poiché erano senza comandante, di ripiegare presso Mardonio.

24) Quando la cavalleria giunse all'accampamento l'intero esercito e Mardonio si dolsero moltissimo per Masistio: si rasarono il capo, tosarono i cavalli e le bestie da soma, abbandonandosi a un pianto interminabile. La notizia si sparse per tutta la Beozia, perché era caduto l'uomo più stimato dopo Mardonio presso i Persiani e presso il re. I barbari, dunque, resero onore, come s'usa fra loro, alla memoria di Masistio.

25) Dal canto loro i Greci, per aver retto all'attacco della cavalleria e per averlo respinto, si rinfrancarono molto di più. Per prima cosa posero la salma di Masistio su un carro e lo fecero transitare lungo le linee. Il morto per statura e bellezza meritava di essere visto, e per questa ragione si spinsero persino a uscire dalle file, per andare a vedere Masistio. Poi decisero di scendere verso Platea: la zona di Platea sembrava molto più adatta di quella di Eritre per accamparsi e, tra l'altro, ricca di acque. Ritennero opportuno spostarsi in quella località e presso la fonte Gargafia, che vi si trova, schierarsi e accamparsi lì. Presero su le armi e, attraversando le pendici del Citerone e passando accanto a Isie, si trasferirono nella campagna di Platea; qui, appena arrivati, si dislocarono, popolo per popolo, vicino alla fonte Gargafia e al sacrario dell'eroe Androcrate, fra basse collinette e un tratto pianeggiante.

26) Qui, al momento di schierarsi, sorse un duro contrasto verbale fra Tegeati e Ateniesi; entrambi pretendevano di occupare una delle ali, adducendo imprese di fresca data e antiche. Ecco cosa, da un lato, sostenevano i Tegeati: "Da sempre tutti gli alleati ci hanno ritenuti degni di questa posizione: è stato così per tutte le spedizioni comuni fuori del Peloponneso compiute dai Peloponnesiaci, in passato e in tempi recenti, dall'epoca in cui gli Eraclidi, dopo la morte di Euristeo, tentarono di tornare nel Peloponneso. Lo ottenemmo allora per questo motivo: quando accorremmo all'Istmo per affrontarli assieme agli Achei e agli Ioni, che allora risiedevano nel Peloponneso, e prendemmo posizione di fronte agli invasori, Illo, così si racconta, dichiarò che non era necessario che gli eserciti corressero il rischio di uno scontro e sfidò il guerriero giudicato migliore sul campo peloponnesiaco, a battersi in duello con lui a condizioni prestabilite. I Peloponnesiaci decisero di accettare la proposta e siglarono con giuramento il seguente patto: se Illo avesse battuto il campione dei Peloponnesiaci, gli Eraclidi sarebbero scesi nelle sedi avite, se ne fosse stato sconfitto, dovevano al contrario ritirarsi, condurre via l'esercito e per cento anni non tentare più la calata nel Peloponneso. Ebbene, fra tutti gli alleati fu scelto un volontario, Echemo, figlio di Aeropo e nipote di Fegeo, nostro comandante militare e nostro re, che affrontò Illo e lo uccise. Grazie a quest'impresa ottenemmo dai Peloponnesiaci di allora, fra gli altri grandi onori di cui continuiamo a godere, il diritto di guidare sempre una delle ali in caso di spedizioni comuni fuori dei confini. Noi non ci opponiamo a voi, Spartani, anzi vi lasciamo la scelta dell'ala che volete comandare; ma l'altra affermiamo che spetta a noi comandarla, come già in passato. A parte l'impresa appena menzionata, meritiamo noi più degli Ateniesi di avere questa posizione nello schieramento: abbiamo combattuto spesso, e con buon esito, contro di voi, Spartiati, e spesso contro altre genti. Pertanto è giusto che siamo noi a occupare l'altra ala, e non gli Ateniesi: non possono vantare gesta pari alle nostre, né recenti né antiche".

27) Così dissero, e così replicarono gli Ateniesi: "Ci risulta che ci siamo radunati qui per combattere contro il barbaro e non per discutere; ma, visto che il Tegeate ha proposto di sbandierare le imprese vecchie e nuove che ciascuno di noi ha compiuto nell'arco dei secoli, non possiamo rinunciare a spiegarvi come sia tradizione per noi, guerrieri valorosi, essere sempre ai primi posti, ben più che per gli Arcadi. Cominciamo dagli Eraclidi, dei quali costoro si vantano di avere ucciso il capo sull'Istmo: fummo noi i soli ad accoglierli, mentre prima venivano respinti da tutti i Greci presso cui cercavano riparo fuggendo la schiavitù micenea, i soli a stroncare la prepotenza di Euristeo, vincendo in battaglia assieme ad essi le genti che allora dominavano il Peloponneso. Passiamo poi agli Argivi che avevano marciato su Tebe assieme a Polinice, avevano perso la vita e giacevano insepolti; ebbene noi possiamo dire di essere scesi in guerra contro i Cadmei, di aver recuperato le salme e di aver dato loro sepoltura a Eleusi nel nostro paese. Annoveriamo poi un'altra bella impresa contro le Amazzoni che dal fiume Termodonte vennero un tempo a invadere la terra attica; e nella guerra di Troia non siamo rimasti indietro a nessuno. Ma non ha senso rievocare queste gesta: chi fu valoroso, oggi potrebbe essere codardo e chi fu codardo, potrebbe essere migliore. Basta con le vecchie imprese! Per noi, anche se non avessimo compiuto nient'altro - ma abbiamo compiuto molte gloriose azioni come nessuno dei Greci -, anche solo per i fatti di Maratona saremmo degni di questo privilegio e di altri ancora, noi che fra i Greci ci siamo battuti da soli, testa a testa con il Persiano e, gettatici in una simile impresa, ne siamo usciti e abbiamo sconfitto quarantasei popoli. E unicamente per questa sola azione, non spetterebbe già a noi, legittimamente, la posizione nello schieramento su cui discutiamo? Comunque, giacché non conviene altercare in una simile circostanza per dove schierarci, siamo pronti a obbedirvi, Spartani, a piazzarci dove e di fronte a chi credete meglio. In qualunque posto cercheremo di comportarci da valorosi. Comandate e vi obbediremo". Questo risposero gli Ateniesi, e l'intero campo spartano proclamò a gran voce che gli Ateniesi erano più degni degli Arcadi di tenere una delle ali dell'esercito. Così dunque gli Ateniesi ottennero la postazione voluta e prevalsero sui Tegeati.

28) Dopodiché, ecco come scesero in campo i Greci, quelli a mano a mano sopraggiunti e quelli venuti fin dall'inizio. L'ala destra l'ebbero diecimila Spartani: tra questi i cinquemila Spartiati erano assistiti da trentacinquemila iloti, armati alla leggera, in ragione di sette per ciascuno. Gli Spartiati vollero accanto a sé i Tegeati, per rendergli onore e per il loro valore militare; il contingente dei Tegeati era di millecinquecento opliti. Di seguito c'erano cinquemila Corinzi, che si ritrovarono vicini, per volere di Pausania, i trecento Potideati della Pallene. Quindi c'erano seicento Arcadi Orcomeni e tremila Sicioni; poi ottocento soldati di Epidauro. Accanto a essi, nell'ordine, mille Trezeni, duecento Lepreati, quattrocento fra Micenei e Tirinti e mille Fliasi; poi trecento Ermionei. Agli Ermionei si affiancarono seicento fra Eretriesi e Stirei, quattrocento Calcidesi, e cinquecento Ambracioti. Dopo gli Ambracioti ottocento fra Leucadi e Anattori, quindi duecento Palei da Cefalonia. Poi erano schierati cinquecento Egineti, accanto ai quali si piazzarono tremila Megaresi. Infine c'erano seicento Plateesi, e ultimi, e primi gli Ateniesi, che occupavano l'ala sinistra, in numero di ottomila: li comandava Aristide, figlio di Lisimaco.

29) Costoro, a eccezione dei sette iloti assegnati a ciascuno Spartiata, erano tutti opliti e ammontavano complessivamente a trentottomilasettecento. Tanti furono gli opliti convenuti contro il barbaro; quanto ai fanti leggeri la loro consistenza era la seguente: i trentacinquemila del contingente spartiata - sette per ogni soldato -, ognuno dei quali in assetto di guerra, e gli altri fanti leggeri di Sparta e dei Greci, trentaquattromilacinquecento in ragione di uno per ciascun uomo.

30) Pertanto i combattenti armati alla leggera erano in tutto sessantanovemilacinquecento. E l'intero esercito greco convenuto a Platea, opliti e fanti leggeri combattenti, fu di centodiecimila uomini meno milleottocento. Con i Tespiesi presenti si raggiunse la cifra esatta di centodiecimila; infatti si trovavano nel campo anche i Tespiesi superstiti, milleottocento, ma neppure essi avevano armamento pesante. Essi dunque, così inquadrati, si accamparono sull'Asopo.

31) I barbari di Mardonio, posto fine al compianto per Masistio, quando seppero che i Greci si trovavano a Platea, si affacciarono anch'essi sull'Asopo, che scorre in questi luoghi; una volta arrivati, ecco come Mardonio li contrappose ai Greci. Di fronte agli Spartani schierò i Persiani; ma poiché i Persiani erano molto più numerosi, li dispose su più file e anche di fronte ai Tegeati, col seguente criterio: scelse tutti i più forti tra di loro e li contrappose agli Spartani, i più deboli li piazzò contro i Tegeati. Fece così dietro consiglio e istruzioni dei Tebani. Di fianco ai Persiani collocò i Medi; questi fronteggiavano Corinzi, Potideati, Orcomeni e Sicioni. Accanto ai Medi mise i Battri; questi si contrapponevano a Epidauri, Trezeni, Lepreati, Tirinti, Micenei e Fliasi; dopo i Battri mise gli Indiani, che avevano davanti a sé Ermionei, Eretriesi, Stirei e Calcidesi. Dopo gli Indiani dislocò i Saci, in faccia ad Ambracioti, Anattori, Leucadi, Palei ed Egineti. Di fronte ad Ateniesi, Plateesi e Megaresi, schierò vicino ai Saci, Beoti, Locresi, Maliesi, Tessali e i Focesi in numero di mille. Non tutti i Focesi, infatti, stavano coi Medi; alcuni, ritirati sul Parnaso, ingrossavano le forze dei Greci e muovendo di là infliggevano continue perdite all'esercito di Mardonio e ai Greci che stavano con lui. Contro gli Ateniesi dispose anche i Macedoni e quelli che abitano vicino alla Tessaglia.

32) Ho nominato qui i popoli più importanti schierati da Mardonio, i più rinomati, i più meritevoli di menzione. Ma vi erano anche uomini di altre nazionalità, confusamente mescolati: Frigi, Misi, Traci, Peoni e, per esempio, dall'Etiopia e dall'Egitto, i cosiddetti Ermotibi e Calasiri, armati di spade corte, che sono gli unici guerrieri fra gli Egiziani. Questi Mardonio li aveva fatti scendere dalle navi su cui prestavano servizio come combattenti, quando si trovava ancora al Falero; Egiziani, infatti, non comparivano tra le file dell'esercito giunto ad Atene con Serse. I barbari erano trecentomila come ho detto prima. Quanto ai Greci uniti a Mardonio, nessuno ne conosce il numero, visto che non furono contati, ma immagino, per ipotesi, che ne fossero convenuti circa cinquantamila. Gli uomini così schierati erano fanti, la cavalleria venne allineata a parte.

33) Quando tutti furono al loro posto, per nazionalità e per squadroni, allora, il giorno dopo, da entrambe le parti si fecero sacrifici rituali. Per i Greci il sacrificante era Tisameno figlio di Antioco, che seguiva l'esercito in qualità di indovino: era un Eleo, della stirpe degli Iamidi, ma gli Spartani se lo erano reso concittadino. Infatti, una volta che Tisameno consultava l'oracolo a Delfi sulla propria discendenza, la Pizia gli aveva predetto le cinque più grandi vittorie. E lui, male interpretando il responso, si dedicò agli agoni ginnici, convinto di dover trionfare in competizioni atletiche; ma, gareggiando nel pentathlon, perse la vittoria olimpica per una sola prova, la lotta, e il suo avversario era Geronimo di Andro. Gli Spartani compresero che la profezia su Tisameno alludeva non alle competizioni atletiche ma a quelle militari e tentarono di convincere Tisameno, offrendogli un compenso, a guidarli nelle guerre assieme ai re Eraclidi. Tisameno, vedendo che gli Spartiati ci tenevano molto a farselo amico, capito questo, aumentò le pretese, facendo capire che se lo avessero reso loro concittadino con tutti i diritti annessi e connessi, avrebbe accettato, per altro compenso no. Gli Spartiati, sentendo questo, dapprima si sdegnarono e lasciarono cadere nel vuoto la sua richiesta; ma infine, sotto la grave minaccia incombente dell'invasione persiana, lo mandarono a cercare e acconsentirono. Tisameno, quando si rese conto che avevano cambiato idea, dichiarò di non accontentarsi più della prima condizione: bisognava che anche suo fratello Egia diventasse Spartiata con le stesse sue prerogative.

34) Dicendo così, chiedendo regno e cittadinanza, imitava, immagino, Melampo. Anche Melampo, quando le donne di Argo erano impazzite e gli Argivi tentavano di convincerlo, con denaro, a venire da Pilo per guarirle dal male, pretese la metà del regno. Gli Argivi rifiutarono e se ne andarono, ma poiché continuava a crescere il numero delle donne che diventavano folli, ad Argo si piegarono, alla fine, alla richiesta di Melampo e si recarono da lui per esaudirla. Allora Melampo, vedendo che avevano cambiato idea, alzò le pretese, e dichiarò che se non assegnavano un terzo del regno anche a suo fratello Biante, non avrebbe fatto ciò che volevano. Gli Argivi, messi alle strette, si piegarono a questa ulteriore condizione.

35) Così pure gli Spartiati, poiché avevano un terribile bisogno di Tisameno, cedettero in tutto. Quando gli diedero il loro pieno assenso, Tisameno di Elea, divenuto Spartiata, collaborò, da indovino, a cinque grandissime vittorie. Lui e suo fratello furono i soli uomini al mondo a ottenere la cittadinanza spartiata. Ed ecco quali furono le cinque vittorie: la prima sul campo, a Platea, la seconda a Tegea contro i Tegeati e gli Argivi, la terza a Dipea contro tutti gli Arcadi coalizzati, tranne i Mantinei; la quarta, sui Messeni, avvene presso Itome e l'ultima si ebbe a Tanagra contro Ateniesi e Argivi; con essa si concluse il ciclo delle cinque vittorie.

36) Questo Tisameno, dunque, condotto dagli Spartiati, fu l'indovino dei Greci a Platea. Ebbene ai Greci i sacrifici risultavano propizi se si difendevano, ma non più nel caso attraversassero l'Asopo dando inizio alle ostilità.

37) D'altro canto a Mardonio che desiderava attaccare battaglia i sacrifici non riuscivano favorevoli, anche per lui erano propizi a patto che si difendesse. Anche Mardonio ricorreva al rituale greco, con l'indovino Egesistrato, un cittadino di Elea, e uno dei Telliadi più illustri; in precedenza gli Spartiati avevano arrestato questo Egesistrato e lo avevano incarcerato con l'intenzione di condannarlo alla pena capitale, per aver ricevuto da lui, sostenevano, molte intollerabili offese. In un simile frangente Egesistrato, poiché correva rischio di vita e avrebbe dovuto pure subire aspre sofferenze prima di morire, compì un'impresa impressionante. Era incatenato a un ceppo di legno bloccato con ferri; mise le mani su un coltello che in qualche modo era finito vicino a lui e subito concepì il gesto più coraggioso di cui io abbia notizia. Misurato come il resto del piede potesse liberarsi, si amputò alla caviglia. Fatto ciò, dato che era sorvegliato da sentinelle, scavò un buco nel muro e scappò verso Tegea; marciava di notte e di giorno si nascondeva nel bosco e dormiva; sicché, malgrado la caccia in massa degli Spartani, la terza notte giunse a Tegea, mentre a Sparta grande era lo stupore per il suo coraggio: vedevano lì per terra il mezzo piede troncato e lui non riuscivano a trovarlo! Fu così che, sfuggito agli Spartani, riparò a Tegea, che all'epoca non era in buoni rapporti con Sparta. Una volta guarito e munitosi di un arto di legno, si dichiarò aperto nemico degli Spartani. Ma alla fin fine l'odio votato contro gli Spartani non gli giovò: fu da loro catturato mentre esercitava la professione di indovino a Zacinto e morì.

38) Comunque la morte di Egesistrato avvenne in tempi successivi a Platea; allora, sulle rive dell'Asopo, per Mardonio, che lo pagava non poco, sacrificava e mostrava molto zelo, sia per odio verso gli Spartani sia per amore di guadagno. Poiché il responso non consentiva il combattimento né ai Persiani né ai Greci che stavano con loro (avevano anch'essi un indovino, per conto loro, Ippomaco di Leucade) e intanto, grazie a nuovi apporti, i Greci diventavano sempre più numerosi, il Tebano Timagenida figlio di Erpi suggerì a Mardonio di presidiare i passi del Citerone, spiegando che i Greci vi transitavano in continuazione, ogni giorno, e che ne avrebbe catturati parecchi.

39) Erano schierati uno di fronte all'altro ormai da otto giorni, quando Timagenida diede a Mardonio questo consiglio. Mardonio, compreso che l'idea era buona, appena fu notte inviò la cavalleria agli sbocchi del Citerone che immettono nella regione di Platea, chiamati Tricefale dai Beoti e Driocefale dagli Ateniesi. I cavalieri inviati non fecero invano il viaggio: si impadronirono infatti di cinquecento bestie da soma, che entravano nella pianura portando vettovaglie dal Peloponneso al campo dei Greci, e degli uomini che le accompagnavano. Impadronitisi di queste prede, i Persiani le massacrarono senza pietà, senza risparmiare animali o uomini. Quando ne ebbero abbastanza di uccidere, radunarono quel che ne restava e lo sospinsero verso Mardonio e l'accampamento.

40) Dopo questo episodio passarono altri due giorni senza che una delle due parti si decidesse ad attaccare battaglia. I barbari si spingevano fino all'Asopo per provocare i Greci, ma nessuno dei due volle passare il fiume. Comunque la cavalleria di Mardonio continuava a stare addosso e a infliggere perdite ai Greci. Infatti i Tebani, filopersiani accaniti, fomentavano la guerra attivamente e guidavano i Persiani fino al momento dello scontro; allora subentravano Persiani e Medi, che davano prova del loro valore.

41) Per quei dieci giorni non accadde nulla di più. All'undicesimo giorno da quando si fronteggiavano a Platea, i Greci erano molto cresciuti di numero e Mardonio era irritato dall'indugio; allora per discutere si incontrarono Mardonio figlio di Gobria e Artabazo figlio di Farnace, che era nella ristretta cerchia persiana dei favoriti di Serse. Si scambiarono le opinioni, che furono le seguenti: secondo Artabazo bisognava far muovere al più presto tutto l'esercito e portarlo entro le mura di Tebe, dove era stato portato in abbondanza cibo per gli uomini e foraggio per il bestiame, quindi starsene tranquilli e ottenere un buon risultato agendo come segue: poiché avevano molto oro coniato, e molto anche grezzo, e molto argento e coppe, dovevano, senza economia, distribuirlo fra i Greci, e soprattutto fra notabili delle varie città; questi ben presto avrebbero rinunciato alla libertà ed essi non avrebbero corso il rischio di una battaglia. Era l'identica opinione dei Tebani, da persona più lungimirante. Più rigido fu invece il parere di Mardonio, più dissennato, per nulla conciliante; era convinto che il suo esercito fosse molto più forte di quello greco e voleva lanciare l'offensiva al più presto, non permettere più agli alleati di crescere continuamente di numero; andassero pure in malora le previsioni di Egesistrato: non valeva la pena di forzarle, ma di combattere, come era tradizione dei Persiani.

42) Di fronte a questa dichiarazione nessuno si oppose, sicché il suo parere prevalse: era lui ad avere, dalle mani del re, il comando supremo, e non Artabazo. Convocò, dunque, i comandanti degli squadroni e gli strateghi dei Greci schierati con lui e domandò loro se conoscevano qualche profezia riguardante una disfatta dei Persiani in Grecia. Poiché i convocati tacevano, gli uni per ignoranza degli oracoli, gli altri perché li conoscevano, sì, ma ritenevano poco prudente parlare, fu Mardonio da parte sua a concludere: "E allora, dato che voi non sapete nulla o non osate aprire bocca, parlerò io, da persona bene informata. Esiste un vaticinio secondo cui è destino che i Persiani, giunti in Grecia, mettano a sacco il santuario di Delfi, e poi, dopo il saccheggio, periscano tutti quanti. Ebbene noi, al corrente di questa profezia, non andremo al santuario in questione, non tenteremo di saccheggiarlo e quindi non periremo per questa colpa. Pertanto, tutti voi che nutrite sentimenti amichevoli verso i Persiani, rallegratevi pure, perché sconfiggeremo i Greci". Dopodiché, diede ordine di preparare e predisporre ogni cosa, perché il mattino seguente ci sarebbe stata battaglia.

43) L'oracolo che secondo Mardonio si riferiva ai Persiani, a quanto ne so io, era stato emesso per gli Illiri e per l'esercito degli Enchelei, e non per i Persiani. Invece l'oracolo di Bacide che alludeva a questa battaglia suona così: ...”Sul Termodonte e l’Asopo che ha verdi le sponde gli Elleni Stanno adunati, e l’esercito barbaro emette clamori, Più che non voglia il Destino ed il Fato ivi molti cadranno: Medi che portano l’arco, ove il giorno assegnato sia giunto”… (sul Termodonte e sull'Asopo dalle rive erbose il concorso dei Greci, il grido dei barbari, là dove molti Persiani, grandi arcieri, cadranno contro giustizia e destino, quando scoccherà il loro giorno fatale). Conosco questi vaticini e molti altri simili di Museo che si riferiscono ai Persiani. Il fiume Termodonte scorre fra Tanagra e Glisante.

44) Dopo le domande sugli oracoli e l'esortazione di Mardonio, scese la notte e vennero piazzate le sentinelle. A notte inoltrata, quando tutto sembrava tranquillo nell'accampamento e gli uomini erano sprofondati nel sonno, Alessandro figlio di Aminta, comandante e re dei Macedoni, si spinse a cavallo sino ai presìdi degli Ateniesi e chiese di parlare con gli strateghi. La maggior parte delle sentinelle rimase sul posto, le altre corsero dagli strateghi; e una volta di fronte a loro, riferirono che dall'esercito dei Medi era venuto un uomo a cavallo che, senza aggiungere ulteriori spiegazioni, affermava di voler parlare con i comandanti; e ne faceva i nomi.

45) Gli strateghi, udito ciò, seguirono le sentinelle sino alle postazioni. Al loro arrivo Alessandro disse: "Ateniesi, affido a voi le mie parole come un pegno, e non dovete riferirle a nessuno se non a Pausania, altrimenti decretereste la mia fine; non parlerei se non avessi molto a cuore le sorti della Grecia intera; personalmente, in effetti, vanto una antica origine ellenica e non vorrei vedere la Grecia ridotta da libera a schiava. Vi avverto dunque che per Mardonio e il suo esercito i sacrifici non si rivelano propizi; da tempo avreste dovuto combattere. Ora ha deciso di lasciar perdere i sacrifici e di attaccare alle prime luci del giorno: teme, a quanto presumo, che si accresca il numero dei vostri soldati. Quindi tenetevi pronti. Se Mardonio differisce l'attacco e non lo fa, aspettate con pazienza: fra pochi giorni gli mancheranno i viveri. E se questa guerra finirà come vi augurate, qualcuno dovrà ricordarsi anche della mia liberazione, di me, che per simpatia verso i Greci ho compiuto questo gesto rischioso, deciso a rivelarvi i piani di Mardonio, per impedire ai barbari di piombare su di voi all'improvviso. Io sono Alessandro di Macedonia". Detto ciò, fece ritorno all'accampamento e al suo reparto.

46) Gli strateghi ateniesi si recarono sull'ala destra e riferirono a Pausania quanto avevano appreso da Alessandro. Sentendo ciò, Pausania ebbe paura dei Persiani e disse: "Lo scontro avverrà al sorgere del sole: è bene, per ciò, che voi Ateniesi vi schieriate di fronte ai Persiani e noi di fronte ai Beoti e ai Greci attualmente piazzati contro di voi, per la ragione seguente: voi conoscete i Medi e il loro modo di battersi per esservi misurati con loro a Maratona; noi non li abbiamo provati in veste di guerrieri, ce ne manca l'esperienza. Nessuno Spartiata si è mai confrontato con i Medi, siamo pratici, invece, di Beoti e Tessali. È meglio che prendiamo su le nostre armi e ci trasferiamo: voi qui e noi all'ala sinistra". Al che gli Ateniesi risposero: "Anche a noi, già da un po', da quando abbiamo visto i Persiani schierati contro di voi, era venuto in mente di farvi la stessa proposta, ci avete battuti sul tempo; ma temevamo che le nostre parole potessero spiacervi. Ora che siete voi stessi a toccare l'argomento, il vostro discorso ci piace e siamo pronti a fare così".

47) Entrambe le parti erano soddisfatte: spuntò la luce dell'aurora e mutarono le rispettive posizioni. I Beoti se ne accorsero e lo andarono a riferire a Mardonio; e lui, come lo seppe, tentò subito di cambiare a sua volta, trasferendo i Persiani davanti agli Spartani. Appena Pausania si rese conto di quel che accadeva, comprese di non poter agire inosservato e ricollocò gli Spartani all'ala destra; e di nuovo Mardonio lo imitò, piazzando i Persiani alla propria sinistra.

48) Una volta tornati alle primitive posizioni, Mardonio mandò un araldo agli Spartiati col seguente messaggio: "Spartani, presso le genti di questo paese avete fama di essere uomini assai valorosi: vi ammirano perché non evitate la guerra e non abbandonate il vostro posto, perché, saldi sul campo, o uccidete i nemici o vi fate uccidere. Ma non c'era nulla di vero in tutto questo; prima ancora che attaccassimo e venissimo alle mani vi abbiamo visto fuggire e abbandonare la posizione, mettendo alla prova gli Ateniesi e andandovi a schierare di contro ai nostri schiavi. Questo non è affatto un comportamento da uomini veri e noi ci siamo molto ingannati sul vostro conto. In base alla vostra fama ci aspettavamo che ci inviaste un araldo a sfidarci; desiderosi di misurarvi da soli a soli coi Persiani, ed eravamo pronti a farlo; ma scopriamo che non ci proponete nulla di simile, e ve ne state invece acquattati. Ebbene, se voi non avete preso l'iniziativa di questo discorso, la prenderemo noi. Perché non combattiamo lealmente, pari di numero, voi per i Greci, giacché passate per tanto valorosi, e noi per i barbari? Se si ritiene giusto che anche gli altri scendano in campo, lo facciano pure, ma dopo. Se no, se si ritiene che bastiamo noi soli, ci batteremo fino alla fine e quelli di noi che vinceranno, daranno la vittoria alla rispettiva armata".

49) L'araldo, dopo aver parlato, si trattenne per un po'; ma poi, giacché nessuno gli rispondeva alcunché, se ne tornò indietro; e al suo ritorno riferì a Mardonio quanto gli era accaduto. Mardonio si rallegrò vivamente e, esaltato da un successo inconsistente, spinse la cavalleria contro i Greci. I cavalieri si lanciarono all'assalto, e infliggevano perdite a tutto lo schieramento greco, scagliando giavellotti e frecce da quegli arcieri a cavallo che sono, impossibili da avvicinare. La fonte Gargafia, a cui l'intero esercito greco attingeva acqua, la intorbidarono e ostruirono. Presso la sorgente erano accampati solo gli Spartani; gli altri Greci erano più o meno lontani dalla fonte, secondo la posizione che occupavano ed erano invece vicini all'Asopo, ma tenuti fuori com'erano dall'Asopo, andavano spesso alla sorgente: dal fiume non potevano trarre acqua per via dei cavalieri e delle frecce nemiche.

50) A questo punto gli strateghi dei Greci, dato che l'esercito era stato privato delle risorse d'acqua e veniva infastidito dagli attacchi della cavalleria, per questo e per altri motivi si riunirono e si recarono da Pausania all'ala destra; in effetti più della situazione su menzionata era altro a renderli inquieti; non avevano più viveri e i servi inviati nel Peloponneso per procurarsene erano stati bloccati dalla cavalleria e non erano più in grado di raggiungere l'accampamento.

51) Gli strateghi riuniti in consiglio decisero, se i Persiani lasciavano passare quel giorno senza attaccare, di andare nell'"isola". Essa si trova di fronte alla città di Platea, a dieci stadi di distanza dall'Asopo e dalla fonte Gargafia, dove erano allora accampati. Si tratta di un "isola" sulla terraferma in questo senso: un fiume scorre giù nella pianura, dall'alto del Citerone, dividendosi in due correnti distanti tre stadi l'una dall'altra, che poi si ricongiungono. Si chiama Oeroe; le genti del luogo affermano che Oeroe è figlia di Asopo. Decisero di trasferirsi in quel punto sia per avere a disposizione acqua in abbondanza, sia per non venir molestati dalla cavalleria, come ora che le erano davanti. Pensavano di mettersi in movimento nella notte, al secondo turno di guardia, per impedire ai Persiani di vederli partire e ai cavalieri di dar noie inseguendoli. Raggiunta nella notte questa località, tutta circondata dall'asopide Oeroe che scende dal Citerone, ritenevano di poter distaccare metà di loro verso il Citerone onde recuperare i servi partiti per far provviste e allora, appunto, bloccati sul Citerone.

52) Dopo aver deciso così, per tutta la giornata furono incessantemente impegnati dagli attacchi della cavalleria. Poi il giorno finì e i cavalieri si quietarono; scesa la notte e giunta l'ora in cui avevano convenuto di allontanarsi, levarono il campo ma i più si allontanarono senza l'intenzione di raggiungere il punto stabilito: appena partiti, fuggirono con sollievo lontano dalla cavalleria in direzione di Platea città; e fuggendo giunsero al santuario di Era. Questo sorge in faccia alla città di Platea, a venti stadi dalla sorgente Gargafia.

53) Arrivati lì, si sistemarono davanti al santuario. Essi dunque erano accampati intorno al tempio di Era. Pausania, quando li aveva visti allontanarsi dal campo base, aveva dato ordine anche agli Spartani di prendere su le armi e di seguire il cammino degli altri che li precedevano, convinto che si stessero spostando nel luogo convenuto. A quel punto, mentre gli altri tassiarchi erano pronti a obbedire a Pausania, Amonfareto figlio di Poliade, capo del contingente di Pitane, si rifiutò di fuggire davanti agli stranieri e di infamare scientemente il nome di Sparta; e si stupiva a vedere quanto stava accadendo, perché non aveva assistito alla discussione precedente. Pausania ed Eurianatte consideravano grave il suo atto di insubordinazione nei loro confronti, ma consideravano ancora più grave, visto che quello ormai aveva deciso così, abbandonare sul posto la schiera di Pitane: temevano, se l'avessero abbandonata per agire come concordato con gli altri Greci, che Amonfareto e i suoi uomini facessero una brutta fine, una volta rimasti soli. Mentre riflettevano sul da farsi, tenevano fermo l'esercito spartano e cercavano di convincere Amonfareto che era inutile comportarsi così.

54) Essi dunque cercavano di placare Amonfareto, l'unico fra Spartani e Tegeati deciso a restare, e intanto ecco cosa facevano gli Ateniesi. Se ne stavano fermi anch'essi al loro posto, ben sapendo che gli Spartani dicono sempre una cosa e ne pensano un'altra. Quando fu levato il campo, mandarono un loro cavaliere per osservare se gli Spartiati si mettevano in marcia o se non pensavano minimamente di muoversi, e a chiedere a Pausania istruzioni sul da farsi.

55) Quando l'araldo giunse presso gli Spartani, li vide schierati al loro posto e che i comandanti erano trascesi a litigio. Sì, perché, pur continuando a esortare Amonfareto a evitare che i soli Spartani, rimanendo, corressero dei rischi, Eurianatte e Pausania non riuscivano ancora a convincerlo; ed erano ormai caduti in un alterco mentre si presentava, al suo arrivo, l'araldo degli Ateniesi. A un certo punto del litigio Amonfareto afferra un pietrone con entrambe le mani, lo sbatte davanti ai piedi di Pausania e dichiara che quello è il suo voto: di non fuggire davanti agli stranieri [intendendo i barbari]. Pausania gli diede del forsennato, del pazzo furioso; poi incaricò l'araldo ateniese, che lo interrogava secondo gli ordini ricevuti, di riferire la situazione agli Ateniesi: li pregava di avvicinarsi agli Spartani e, circa la ritirata, di fare come loro.

56) L'araldo tornò presso gli Ateniesi; il sorgere del sole colse gli Spartani ancora intenti a questionare fra loro, e Pausania, che era rimasto fermo in questo frattempo, ritenendo che Amonfareto non sarebbe rimasto indietro se gli altri Spartani si mettevano in marcia, cosa che appunto avvenne, diede il segnale e guidò tutti gli altri in ritirata attraverso le colline. Lo seguirono anche i Tegeati. Gli Ateniesi, schierati com'erano, si mossero all'opposto degli Spartani: questi si tenevano a ridosso delle alture e delle pendici del Citerone per paura della cavalleria, gli Ateniesi invece erano rivolti in basso, verso la pianura.

57) Amonfareto, mai più pensando che Pausania avrebbe osato abbandonarli, insisteva perché, rimanendo lì, non si ritirassero dalla postazione. Ma poiché gli uomini di Pausania procedevano, si convinse che lo stavano proprio lasciando solo, ordinò ai suoi di prendere le armi e li guidò a passo di marcia verso il resto delle truppe. Queste, allontanatesi ormai di dieci stadi, attendevano il gruppo di Amonfareto standosene presso il fiume Moloente, in località Argiopio, dove sorge anche un santuario di Demetra Eleusinia. Aspettavano lì per la seguente ragione, per poter ripiegare in loro soccorso qualora Amonfareto e il suo distaccamento non avessero abbandonato la posizione dove erano stati schierati, ma vi fossero rimasti. Amonfareto e i suoi si ricongiunsero agli altri, ma intanto li assalì l'intera cavalleria dei barbari. I cavalieri, infatti, avevano manovrato come al solito e, trovato vuoto il punto dove i Greci erano schierati nei giorni precedenti, avevano spinto i cavalli sempre più avanti, finché, ripreso contatto col nemico, non si lanciarono all'attacco.

58) Mardonio, quando lo avvisarono che i Greci si erano dileguati col favore del buio e vide deserte le posizioni, chiamò Torace di Larissa e i suoi fratelli Euripilo e Trasidio e così si rivolse loro: "Figli di Alevas, e ora cosa dite di fronte a questo deserto? Eravate voi, loro vicini, a sostenere che gli Spartani non fuggono dalla battaglia, che in guerra sono i migliori del mondo; prima li avete visti cambiare posizione nello schieramento e adesso tutti possiamo constatare che durante la notte hanno preso il volo. Al momento di misurarsi in battaglia contro gli uomini davvero più valorosi del mondo, hanno dimostrato di essere delle nullità in mezzo a quelle nullità che sono i Greci. A voi, che non avevate esperienza dei Persiani, andava la nostra indulgenza, di fronte alle vostre lodi degli Spartani; vi era noto qualche loro merito. Mi stupiva di più la paura che degli Spartani aveva Artabazo, e il suo esprimere, per quella paura, un parere vilissimo, che dovevamo levare il campo, rientrare a Tebe e subire il loro assedio; di questo parere informerò, a suo tempo, il sovrano. Ma rimando il discorso a un'altra occasione; ora, invece, non dobbiamo permettere ai Greci di agire come stanno agendo: dobbiamo inseguirli, raggiungerli e far loro pagare tutto il male compiuto ai Persiani".

59) Detto ciò attraversò l'Asopo e condusse i Persiani di corsa sulle tracce dei Greci convinto che stessero scappando, e finì addosso ai soli Spartani e Tegeati; gli Ateniesi, in effetti, che si erano avviati verso la pianura, non li scorgeva per via delle alture. Gli altri comandanti degli squadroni barbarici, vedendo i Persiani lanciarsi alla caccia dei Greci, alzarono tutti subito le insegne e si gettarono anch'essi all'inseguimento, ognuno più in fretta che poteva, senza rispettare alcun criterio di ordine o di schieramento.

60) Anch'essi, massa urlante di uomini, si lanciarono all'attacco come per fare un sol boccone dei Greci. Pausania, premuto dalla cavalleria, spedì agli Ateniesi un cavaliere col seguente messaggio: "Ateniesi, la lotta è giunta al momento decisivo, o la Grecia sarà libera o ridotta in schiavitù; noi Spartani e voi Ateniesi siamo stati traditi dagli alleati, fuggiti la notte scorsa. Ora è deciso quel che dovremo fare da questo momento: difenderci meglio che possiamo e coprirci a vicenda. Se la cavalleria nemica si fosse mossa all'inizio solo contro di voi, avremmo dovuto aiutarvi noi e quelli che con noi non tradiscono la Grecia, i Tegeati; ma si è lanciata tutta contro di noi e quindi è giusto che siate voi a soccorrere la parte in maggiore difficoltà. Se tuttavia vi è capitato qualcosa che vi rende impossibile aiutarci, mandateci almeno, per favore, gli arcieri. Sappiamo che nella presente guerra siete i più impegnati: e perciò presterete orecchio alla nostra richiesta".

61)Ricevuto questo messaggio, gli Ateniesi partirono per soccorrerli e garantire loro il massimo appoggio. E già erano in marcia quando furono assaliti dai Greci che stavano col re ed erano schierati di fronte a loro; sicché, molestati dagli attacchi, non potevano più accorrere in aiuto degli Spartani. E così Spartani e Tegeati, che erano rispettivamente cinquantamila, compresa la fanteria leggera, e tremila (i Tegeati non si separavano un solo momento dagli Spartani), rimasti soli, provvidero ai sacrifici intendendo scontrarsi con Mardonio e l'esercito che avevano davanti. Ma gli auspici non risultarono favorevoli e parecchi di loro nel frattempo caddero e molti di più venivano feriti: i Persiani, infatti, avendo serrato compatti gli scudi, scagliavano nugoli di frecce, senza risparmio; tanto che, visti gli Spartiati in difficoltà e i sacrifici che non riuscivano, Pausania si voltò verso l'Eraion dei Plateesi e invocò la dea pregandola di non frustrare le loro attese.

62) Ancora stava invocando la dea, quando per primi, davanti a tutti, i Tegeati scattarono contro i barbari; e subito dopo la preghiera di Pausania finalmente agli Spartani riuscirono propizi i sacrifici che stavano compiendo. Un attimo dopo correvano anch'essi contro i Persiani, e i Persiani li affrontarono dopo aver deposto gli archi. Il primo scontro si ebbe intorno alla barriera di scudi. Quando essa cadde, si accese una mischia terribile ormai proprio accanto al tempio di Demetra, e durò a lungo, finché vennero al corpo a corpo; i barbari, infatti, afferravano le lance e le spezzavano. Per tenacia e vigore i Persiani non erano inferiori, ma non avevano armatura pesante e inoltre non erano pari agli avversari per addestramento specifico e per tecnica di combattimento. Si gettavano allo sbaraglio, da soli, a dieci per volta, in gruppi più o meno numerosi, piombavano sugli Spartiati e ne venivano massacrati.

63) Dove si trovava personalmente Mardonio, che combatteva su un cavallo bianco in mezzo al fior fiore dei Persiani, i mille migliori, lì soprattutto si premeva sugli avversari; finché ci fu Mardonio, essi tennero duro e nel difendersi abbattevano molti Spartani; ma quando Mardonio perse la vita e caddero gli uomini attorno a lui, che erano i più forti, allora anche gli altri volsero le spalle e cedettero agli Spartani. Moltissimo li danneggiava l'equipaggiamento, privo di armi pesanti: si battevano armati alla leggera contro degli opliti!

64) Quel giorno, conforme ai vaticini dell'oracolo, si compì per gli Spartani la vendetta su Mardonio per l'uccisione di Leonida, quel giorno Pausania figlio di Cleombroto, figlio di Anassandride, riportò la vittoria più bella che noi conosciamo. I suoi antenati li ho già menzionati nel discendere fino a Leonida: sono gli stessi. Mardonio cadde ucciso da Arimnesto, uno Spartano di valore, che morì in tempi successivi alle guerre mede in un attacco con trecento uomini a Steniclero durante una guerra contro tutti i Messeni, e con lui caddero anche i trecento.

65)A Platea i Persiani, quando furono messi in rotta dagli Spartani, fuggirono in totale disordine verso il loro accampamento e verso il fortilizio di legno che si erano costruiti nel territorio di Tebe. Una cosa mi sorprende: nessuno dei Persiani che combatterono presso il sacro bosco di Demetra risulta essere entrato all'interno dell'area del santuario né esservi morto; i più caddero nei dintorni del tempio in terreno non consacrato. La mia opinione, se è il caso di avere opinioni sulle cose divine, è che sia stata proprio la dea a non ammetterveli dentro, perché avevano incendiato il suo santuario di Eleusi. Tale fu dunque l'esito di questa battaglia.

66) Artabazo figlio di Farnace fin dall'inizio non condivideva l'idea del re di lasciare Mardonio in Grecia; e dopo, malgrado le sue insistenze per evitare lo scontro, non ottenne nulla. Ed ecco come si comportò lui personalmente, insoddisfatto delle iniziative di Mardonio. Aveva ai suoi ordini una schiera non esigua, quasi quarantamila uomini: quando scoppiò la battaglia, consapevole della piega che avrebbero preso gli avvenimenti, si mise alla testa dei suoi uomini in formazione di combattimento, dopo aver dato ordine a tutti di dirigersi dovunque li conducesse, con la stessa rapidità che avessero scorta in lui. Impartite queste disposizioni, guidò dunque le sue truppe come per affrontare i nemici; precedendole in marcia, vide che i Persiani stavano già fuggendo. Allora non fece più avanzare i suoi uomini nello stesso ordine, ma corse via in fuga, più velocemente possibile, non verso la cinta di legno né verso le mura di Tebe, bensì verso la Focide, con l'intenzione di raggiungere l'Ellesponto al più presto.

67) Essi dunque piegarono in quella direzione. Mentre gli altri Greci schierati col re si comportavano di proposito da vili, i Beoti lottarono a lungo contro gli Ateniesi. In effetti i Tebani filomedi si impegnarono non poco nella battaglia, senza alcuna codardia, tanto che trecento di loro, i più illustri e più coraggiosi, caddero sul posto uccisi dagli Ateniesi. Quando anch'essi voltarono le spalle, puntarono, ripiegando, verso Tebe ma per una strada diversa rispetto ai Persiani e a tutto il resto dell'armata, che fuggì senza aver combattuto con nessuno e senza aver compiuto nulla di rilevante.

68) Per me è chiaro che tutta la forza dei barbari stava nei Persiani, se anche allora costoro si dileguarono prima ancora di scontrarsi coi nemici, solo perché vedevano ritirarsi i Persiani. Insomma, scapparono tutti tranne la cavalleria, e in particolare la cavalleria beotica; questa si rese assai utile ai fuggitivi rimanendo sempre in prossimità dei nemici e tenendo lontano dai compagni in rotta i Greci.

69) I quali, ormai vincitori, inseguivano gli uomini di Serse, braccandoli e facendone strage. Nel bel mezzo di questo frangente giunse la notizia ai Greci fermi presso l'Eraion e rimasti estranei alla battaglia che la lotta si era accesa e che stavano vincendo le truppe di Pausania; allora, udito ciò, partirono, senza essersi disposti in ordine di battaglia: quelli di Corinto fra il declivio e le colline lungo la strada che porta dritta al tempio di Demetra, quelli di Megara e di Fliasa attraverso la pianura per la via più liscia. Quando i Megaresi e i Fliasi furono vicini ai nemici, i cavalieri tebani, comandati da Asopodoro figlio di Timandro, vedendoli avanzare caoticamente, spinsero i cavalli contro di loro. Al primo urto ne abbatterono seicento, gli altri li travolsero via e li inseguirono verso il Citerone.

70) Questi dunque caddero senza gloria alcuna. I Persiani e tutti gli altri, corsi a rifugiarsi dietro il fortilizio di legno riuscirono ad arrampicarsi sugli spalti prima dell'arrivo degli Spartani; una volta saliti, rinforzarono meglio che potevano lo steccato. Quando sopraggiunsero gli Spartani, si accese una lotta piuttosto accanita intorno al muro. In realtà finché non arrivarono gli Ateniesi i barbari si difesero bene ed ebbero nettamente la meglio sugli Spartani, che non erano pratici di questo genere di lotta. Ma quando arrivarono gli Ateniesi, allora la battaglia per la cinta si fece aspra e durò a lungo. Infine, grazie al loro valore e alla loro tenacia, gli Ateniesi misero il piede sul baluardo e aprirono una breccia, attraverso la quale i Greci si riversarono dentro. Nella cinta irruppero per primi i Tegeati, e furono loro a conquistare la tenda di Mardonio, a impadronirsi di quel che vi era dentro e in particolare della greppia per cavalli che è tutta di bronzo e merita di essere vista. I Tegeati consacrarono poi questa greppia di Mardonio nel tempio di Atena Alea, mentre tutto il resto su cui misero le mani lo ammassarono nel bottino comune dei Greci. Una volta caduto lo steccato, i barbari non serrarono più le file: nessuno di loro oppose più resistenza, angosciati com'erano, pieni di terrore, bloccati in poco spazio, in molte decine di migliaia. Ai Greci fu facile massacrarli, al punto che su trecentomila soldati, levando i quarantamila che Artabazo aveva portato con sé in ritirata, dei restanti non sopravvissero neppure in tremila. Complessivamente, invece, nella battaglia caddero novantuno Lacedemoni di Sparta, sedici Tegeati, cinquantadue Ateniesi.

71) Si distinsero, fra i barbari, la fanteria persiana, i cavalieri Saci, e, individualmente, si dice, Mardonio. Tra i Greci, con tutto che sia Tegeati sia Ateniesi si siano comportati benissimo, la palma del valore spetta agli Spartani. Non ho altro elemento per dimostrarlo, giacché tutti vinsero nel loro settore, se non che gli Spartani dovettero scontrarsi contro la parte più forte e la sgominarono. Largamente il migliore, a nostro parere, fu Aristodemo, quello su cui gravavano vergogna e disprezzo per essere l'unico dei trecento scampato alle Termopili. Dopo di lui si segnalarono Posidonio, Filocione e Amonfareto, Spartiati. Eppure in un pubblico dibattito su chi di loro avesse meritato di più in campo, gli Spartiati presenti ai fatti espressero il parere che Aristodemo aveva compiuto grandi gesta lottando e uscendo dallo schieramento nel palese desiderio di morire a causa dell'accusa che pesava su di lui. Invece Posidonio si era comportato da eroe pur non volendo morire; ecco perché andava giudicato il migliore. Si obietterà: dicevano così anche per invidia; fatto sta che tutti i caduti di quella battaglia da me ricordati, tranne Aristodemo, ricevettero onori; Aristodemo no, non ebbe onori perché voleva morire per la ragione che ho detto.

72) Questi, dunque, furono i più celebrati eroi di Platea. Callicrate, in realtà, perì fuori della battaglia; nell'esercito era entrato come l'uomo più bello dei Greci di allora, non solo fra gli Spartani ma anche fra tutti gli Elleni. Mentre Pausania provvedeva ai sacrifici, Callicrate, fermo al suo posto, fu colpito al fianco da una freccia. E mentre gli altri combattevano, lui, portato via, lottava con la morte e diceva ad Arimnesto, un Plateese, che non si rammaricava di morire per la Grecia, ma di non aver fatto uso delle armi, di non aver compiuto - e lo aveva tanto sperato! - nessun gesto degno di lui.

73) Fra gli Ateniesi si distinse, a quanto si racconta, Sofane figlio di Eutichide, del demo di Decelea, di quei Decelei già autori di una impresa preziosa per l'eternità, a dire degli stessi Ateniesi. Anticamente infatti, quando i Tindaridi per riprendersi Elena invasero il territorio dell'Attica con un ingente esercito e mettevano a soqquadro i demi non sapendo dove fosse riparata Elena, si narra che allora i Decelei, altri sostengono Decelo in persona, mal tollerando la tracontanza di Teseo e timoroso per la sorte dell'intero paese degli Ateniesi, rivelò ogni cosa ai Tindaridi e li guidò contro Afidna, che poi Titaco, uno del posto, mise a tradimento nelle mani dei Tindaridi. Dall'epoca di questa vicenda immunità e proedria sono garantite in Sparta agli abitanti di Decelea e tale è la regola ancora oggi, tanto che persino nel corso della guerra scoppiata molti anni più tardi fra Ateniesi e Peloponnesiaci, mentre gli Spartani devastavano il resto dell'Attica, Decelea non la toccarono.

74) Su Sofane, appartenente a questo demo e risultato allora il più valoroso fra gli Ateniesi, circolano due diverse versioni leggendarie. La prima è che portava un'ancora di ferro legata alla cintura della corazza con una catena di bronzo, e tutte le volte che arrivava a contatto dei nemici, la gettava a terra, perché i nemici piombando su di lui non potessero smuoverlo da dove era schierato. Quando poi i suoi antagonisti si volgevano in fuga, era calcolato che si caricasse l'ancora e li inseguisse così. Questa è la prima versione; nell'altra, che contraddice la precedente, portava un'ancora come insegna sul suo scudo sempre in movimento e mai fermo, e non un'ancora di ferro fissata alla corazza.

75) C'è un'ulteriore magnifica impresa compiuta da Sofane, la volta che gli Ateniesi assediavano l'isola di Egina e lui sfidò a duello e uccise l'Argivo Euribate, un vincitore nel pentathlon. Anni dopo a Sofane, uomo di provato valore, toccò di morire mentre comandava gli Ateniesi assieme a Leagro figlio di Glaucone, ucciso dagli Edoni a Dato, in una battaglia per il possesso delle miniere d'oro.

76) Non appena i Greci ebbero sgominato i barbari a Platea, si avvicinò a loro una fuggiasca; appresa la disfatta persiana e la vittoria dei Greci, essa, che era una concubina del Persiano Farandate figlio di Teaspi, ornatasi d'oro a profusione, lei e le sue ancelle, e con la veste più elegante di cui disponeva scese dal suo carro e si avvicinò agli Spartani, ancora impegnati nel massacro; e vedendo che a dirigere tutte quelle operazioni era Pausania, di cui già conosceva nome e patria per averli sentiti ripetere più volte, lo individuò e stringendogli le ginocchia disse: "Re di Sparta, sono tua supplice: non fare di me una schiava del bottino; tu già mi hai beneficato sterminando questa gente che non rispetta né i dèmoni né gli dèi. Io sono originaria di Cos, figlia di Egetoride e nipote di Antagora. Il Persiano mi aveva perché mi portò via da Cos con la forza". Pausania le rispose: "Fatti coraggio, donna, perché sei una supplice e tanto più se dici la verità e sei figlia di Egetoride di Cos, l'ospite a me più strettamente legato fra tutti gli abitanti di quel paese". Disse così e l'affidò per il momento agli efori lì presenti; più tardi la fece accompagnare a Egina, dove lei stessa desiderava recarsi.

77) Subito dopo la partenza della donna, giunsero i Mantinei, a cose ormai compiute: si resero conto di essere arrivati in ritardo per la battaglia, se ne dolsero a gran voce e si dichiararono meritevoli di autopunirsi. Saputo che i Medi di Artabazo erano in fuga, volevano inseguirli fino alla Tessaglia; ma gli Spartani non permisero l'inseguimento dei fuggiaschi. I Mantinei, rientrati in patria, cacciarono dal paese i comandanti dell'esercito. Dopo i Mantinei, giunsero gli Elei, i quali, esattamente come i Mantinei, se ne andarono dopo molte espressioni di rammarico; anch'essi poi, tornati a casa, esiliarono i propri comandanti. E questo è tutto su Mantinei ed Elei.

78) A Platea, nel campo degli Egineti c'era Lampone figlio di Pitea, uno dei personaggi più illustri di Egina; egli se ne venne da Pausania con un discorso più che empio; si avvicinò a lui tutto zelante e gli disse: "Figlio di Cleombroto, hai compiuto un'impresa straordinariamente grande e bella; a te il dio ha concesso di salvare la Grecia e di procurarti la gloria più alta che si conosca sin qui fra i Greci. E allora completa le tue gesta, perché una fama ancora maggiore ti circondi e perché in futuro qualunque barbaro si guardi bene dall'intraprendere folli imprese contro i Greci. Quando Leonida cadde alle Termopili, Mardonio e Serse gli tagliarono la testa e la infissero in cima a una picca; se tu gli restituirai l'offesa, sarai lodato intanto da tutti gli Spartiati e poi anche dagli altri Greci: perché impalando Mardonio vendicherai tuo zio Leonida".

79) Lampone diceva questo, convinto di fargli piacere, invece Pausania replicò: "Ospite di Egina, apprezzo la tua premurosa attenzione, ma non hai detto una cosa intelligente. Prima hai esaltato me, la mia patria, la mia opera e poi ci hai tratto giù nel nulla, proponendomi di infierire su un cadavere e sostenendo che, se lo facessi, acquisterei più fama. Sono azioni degne dei barbari, non certo dei Greci! E anche ai barbari le rimproveriamo. Mi auguro di non piacere mai, per un gesto del genere, agli Egineti e a chi gode di simili nefandezze; a me basta soddisfare gli Spartiati, agendo e anche parlando con religiosa pietà. Quanto a Leonida, che mi inviti a vendicare, io affermo che è stato vendicato ampiamente: lui e gli altri caduti alle Termopili ricevono l'omaggio di innumerevoli vite nemiche. Tu non ti avvicinare più a me con simili discorsi, i tuoi consigli tienteli per te; e ringrazia se te ne vai senza danni".

80) E quello, udita la risposta, si allontanò. Pausania ordinò con un bando che nessuno toccasse il bottino e comandò agli iloti di raccogliere gli oggetti preziosi. Gli iloti, sparpagliandosi per l'accampamento vi trovarono tende decorate con oro e argento, letti rivestiti d'oro e d'argento, crateri, calici e altre coppe d'oro. Sui carri trovarono sacchi che si rivelarono pieni di lebeti d'oro e d'argento. I cadaveri a terra li spogliarono dei braccialetti, delle collane e delle corte spade che erano d'oro; nessuno si curò delle vesti ricamate. In quella occasione gli iloti sottrassero molti oggetti e li vendettero agli Egineti, ma molti anche ne esibirono, quanti non era possibile nascondere; proprio da lì ebbero origine le grandi fortune degli Egineti, i quali comprarono dagli iloti l'oro come se fosse bronzo.

81) Ammassate le ricchezze, ne tolsero la decima per il dio di Delfi: gli fu così dedicato il tripode d'oro che sta sul serpente di bronzo a tre teste vicino all'altare. Prelevarono la decima anche per il dio di Olimpia, ricavandone uno Zeus di bronzo alto dieci cubiti, e per il dio dell'Istmo; grazie ad essa fu eretto un Posidone di bronzo di sette cubiti. Fatte queste detrazioni, si spartirono il resto, le concubine dei Persiani, l'oro, l'argento e gli altri oggetti preziosi, il bestiame, prendendo ciascuno secondo i meriti. Nessuno dice quanto fu donato ai maggiori eroi di Platea, ma credo che anche essi abbiano ricevuto la loro parte. A Pausania fu riservato e dato dieci di tutto: dieci donne, cavalli, talenti, cammelli e così anche per il resto. E accadde, si narra, anche questo.

82) Nel fuggire dalla Grecia Serse aveva lasciato la propria tenda a Mardonio. Pausania dunque, vedendo la tenda e gli arredi di Mardonio, l'oro, l'argento e le splendide cortine ricamate, ordinò ai fornai e ai cuochi di preparare un pasto come per Mardonio. Gli incaricati obbedirono e allora Pausania, scorgendo letti d'oro e d'argento con preziose imbottiture, tavolini d'oro e d'argento, tutto uno sfarzoso apparato da banchetto, sbalordito dal lusso dispiegato davanti ai suoi occhi, ordinò, per divertimento, ai suoi servitori di allestire un pasto alla spartana. Il pranzo fu preparato e, poiché grande era la differenza, Pausania scoppiò a ridere; e mandò a chiamare gli strateghi dei Greci ai quali, quando furono lì, disse indicando le due tavole imbandite: "Greci, vi ho convocato per questa ragione: volevo mostrarvi l'imbecillità del Medo, che, disponendo di un simile tenore di vita, si è mosso contro di noi, che ne abbiamo uno così miserabile, per portarcelo via!". Questo Pausania avrebbe detto agli strateghi dei Greci.

83) In epoca successiva a tali avvenimenti anche parecchi Plateesi rinvennero cofani pieni d'oro e d'argento e di altri preziosi. E ancor più tardi ecco cos'altro si vide. Quando ormai gli scheletri avevano perduto le carni, una volta che, appunto, i Plateesi radunavano le ossa in un luogo solo, fu trovata una scatola cranica priva di suture, formata di una unica calotta ossea, e venne alla luce anche una mascella che nella mandibola superiore aveva denti di un unico pezzo, anteriori e posteriori formati di un unico osso; e affiorò lo scheletro di un uomo alto cinque cubiti.

84) Il giorno dopo la battaglia fu fatto sparire il cadavere di Mardonio; da chi non saprei dirlo con certezza, ma già di molte persone, e di diversa provenienza, ho sentito raccontare che avrebbero seppellito Mardonio; e so che molti per questa ragione hanno avuto ricchi doni da Artonte, figlio di Mardonio. Chi di loro sia stato a trafugare e a seppellire il corpo di Mardonio non riesco ad appurarlo con certezza. Anche su Dionisofane di Efeso corre voce che abbia sepolto Mardonio. Così insomma Mardonio ebbe sepoltura.

85) I Greci, dopo essersi spartito il bottino a Platea, onorarono i propri morti ciascuno per conto proprio. Gli Spartani allestirono tre tombe; in una deposero gli ireni, fra i quali c'erano anche Posidonio, Amonfareto, Filocione e Callicrate. Se in una delle tombe c'erano gli ireni, nella seconda c'erano gli altri Spartiati e nella terza gli iloti. Gli Spartani si regolarono così, i Tegeati invece provvidero per conto loro a inumare tutti assieme i propri morti, e lo stesso fecero gli Ateniesi, nonché i Megaresi e i Fliasi per quelli sterminati dalla cavalleria. Le fosse di tutti costoro furono piene. Quanto alle tombe degli altri Greci ugualmente visibili a Platea, ho saputo che essi, vergognandosi per l'assenza dalla battaglia, eressero tumuli vuoti per i posteri; in effetti c'è laggiù un sepolcro che apparterrebbe agli Egineti, costruito, mi dicono, dieci anni dopo gli avvenimenti dal cittadino di Platea Cleade figlio di Autodico, prosseno degli Egineti, su loro richiesta.

86) Appena seppelliti i morti a Platea, i Greci tennero consiglio e decisero di muovere contro Tebe e di reclamare la consegna dei Tebani schieratisi coi Medi, a cominciare da Timagenida e da Attagino, che erano tra i capi più in vista. Se non lo facevano, essi non si sarebbero ritirati prima di aver distrutto la città. Deciso questo, allora, dieci giorni esatti dopo la battaglia arrivarono a Tebe e posero l'assedio, intimando la consegna degli uomini. Poiché i Tebani si rifiutavano di cederli, devastavano la loro campagna e attaccavano le mura.

87) Non smettevano un istante di provocare danni; al ventesimo giorno Timagenida disse ai Tebani: "Tebani, visto che i Greci hanno deciso così, di non togliere l'assedio prima o di aver conquistato Tebe o che voi ci rimettiate nelle loro mani, ebbene, che la terra beotica non abbia più a soffrire a causa nostra. Se richiedono noi per pretesto, ma in realtà vogliono soldi, versiamogli denaro dalle casse comuni, giacché non ci siamo schierati solo noi coi Medi, ma tutti assieme; se invece ci assediano perché intendono avere noi veramente, allora ci consegneremo per un pubblico confronto". Il suo discorso sembrò buono e opportuno, e subito i Tebani per mezzo di un araldo inviato a Pausania fecero sapere di essere disposti a consegnare gli uomini.

88) Appena fu raggiunto l'accordo a queste condizioni, Attagino scappò dalla città; i suoi figli furono trascinati davanti a Pausania che li prosciolse da ogni accusa, dichiarando che dei bambini non erano corresponsabili della connivenza col Persiano. Quanto agli altri uomini consegnati dai Tebani, loro credevano di affrontare un pubblico dibattimento ed erano convinti di cavarsela a suon di denaro; Pausania invece, quando li ebbe in mano sua, sospettando proprio queste loro speranze, congedò l'intero esercito degli alleati, trasferì gli imputati a Corinto e li fece giustiziare. Tanto accadde a Platea e ai Tebani.

89) Artabazo figlio di Farnace, in fuga da Platea, era ormai lontano. Quando arrivò in Tessaglia, lo invitarono a un pranzo d'ospitalità e gli chiedevano notizie del resto dell'armata, nulla sapendo dei fatti di Platea. Artabazo capì che, se accettava di raccontare tutta la verità sulle battaglie, lui e il suo esercito rischiavano di fare una brutta fine; pensava che chiunque, venendo a conoscere i fatti, li avrebbe aggrediti; così ragionando, ai Focesi non rivelò nulla e ai Tessali disse: "Tessali, lo vedete: mi precipito verso la Tracia per la strada più breve, con urgenza, distaccato dall'esercito assieme a questi uomini per un affare importante. Sulle mie tracce si sta muovendo Mardonio in persona con la sua armata e dovete aspettarvelo qui. Ospitatelo e mostratevi bene intenzionati. Se lo farete, un giorno non ve ne pentirete". Detto ciò, rapidamente condusse il suo esercito attraverso la Tessaglia e la Macedonia, dritto verso la Tracia, con autentica fretta e tagliando verso l'interno. E giunse a Bisanzio, dopo aver perso parecchi dei suoi, fatti a pezzi dai Traci lungo il percorso e stremati dalla fame e dalla fatica. Da Bisanzio passò lo stretto con delle navi. Egli, dunque, tornò così in Asia.

90) Nello stesso giorno della disfatta di Platea, venne a cadere anche la battaglia di Micale, in Ionia. Infatti, mentre i Greci, venuti con la flotta agli ordini dello Spartano Leotichida, stazionavano a Delo, giunsero presso di loro dei messaggeri provenienti da Samo, Lampone figlio di Trasicle, Atenagora figlio di Archestratide ed Egesistrato figlio di Aristagora, inviati dai Sami all'insaputa dei Persiani e del tiranno Teomestore figlio di Androdamante, a suo tempo insediato tiranno di Samo dai Persiani. Quando furono davanti agli strateghi, Egesistrato disse molte cose e di vario genere: che gli Ioni, al solo vederli, si sarebbero ribellati ai Persiani, che i barbari non avrebbero retto; che se poi avessero voluto resistere, non c'era preda da trovarsi altrettanto sostanziosa. In nome degli dèi comuni li esortava a salvare dei Greci dalla schiavitù, a respingere il barbaro. Sosteneva che questo per loro era un'inezia, perché le navi dei barbari tenevano male il mare e in battaglia non reggevano il confronto con quelle greche. Se poi gli strateghi sospettavano che li si volesse attirare in una trappola, essi erano disposti a farsi condurre come ostaggi sulle loro navi.

91) Poiché l'ospite di Samo molto insisteva con le sue implorazioni, Leotichida, vuoi che volesse saperlo per trarne un presagio, vuoi per ispirazione divina, gli chiese: "Ospite di Samo, come ti chiami?". E quello rispose: "Egesistrato". Allora Leotichida, troncando qualunque ulteriore discorso Egesistrato si accingesse a fare, dichiarò: "Accetto il presagio del tuo nome, ospite di Samo. E tu vedi di partire assieme a questi che sono qui con te dopo averci data garanzia che i Sami si impegneranno a fondo in questa alleanza".

92) Così disse e aggiunse alle parole i fatti: i Sami giurarono subito fedeltà e alleanza coi Greci. Quindi gli altri ambasciatori se ne andarono; ma Leotichida, considerando un presagio il suo nome, invitò Egesistrato a seguirlo nella flotta. I Greci, dopo essersene astenuti per quel giorno, fecero sacrifici augurali il successivo, servendosi come indovino di Deifono, figlio di Evenio, di Apollonia - Apollonia sul Golfo Ionico –

93) Al cui padre Evenio era accaduto il fatto seguente. In questa città di Apollonia ci sono greggi sacre al Sole; di giorno pascolano lungo un fiume, che scorre giù dal monte Lacmone attraverso la regione di Apollonia e sfocia in mare presso il porto di Orico, di notte, invece, sono custodite, un anno per ciascuno, da cittadini scelti fra i più insigni per ricchezza e nascita. In effetti gli Apolloniati tengono in gran conto queste greggi in seguito a un vaticinio; esse trovano ricovero, di notte, in una grotta fuori città. Là appunto, una volta, le sorvegliava, prescelto per tale compito, il nostro Evenio. Ma a un certo punto, mentre era di guardia si addormentò, dei lupi entrarono nella grotta e uccisero una sessantina di animali. Lui, quando se ne accorse, se ne stette zitto e non lo disse a nessuno, intenzionato a comprarne degli altri e a sostituirli. Ma non sfuggì agli Apolloniati quanto era accaduto; come lo seppero, trascinarono Evenio in tribunale e lo condannarono a essere privato della vista per essersi addormentato mentre era di guardia. Dopo l'accecamento di Evenio, subito dopo, gli animali non partorivano più e la terra, parimenti, non produceva più frutti. A Dodona e a Delfi, quando interrogarono i profeti sulla causa del malanno in atto, il responso fu che avevano ingiustamente privato della vista Evenio, il guardiano delle sacre greggi: erano stati proprio gli dèi a mandare i lupi e ora non avrebbero smesso di vendicare Evenio, finché essi non avessero scontata la pena scelta e ritenuta equa da Evenio stesso. Compiuta questa riparazione, gli dèi avrebbero fatto a Evenio un dono tale che molte persone lo avrebbero considerato felice per esso.

94) Tali furono i responsi. Gli Apolloniati li tennero segreti e affidarono ad alcuni cittadini il compito di mandarli a buon fine. E agirono così: una volta che Evenio stava seduto su una seggiola, vennero ad accomodarsi accanto a lui e parlarono di varie cose, finché arrivarono a condolersi della sua disgrazia. Guidando il discorso in questa direzione gli chiesero quale riparazione avrebbe chiesto se gli Apolloniati si inducevano a rimediare al male fatto. E lui, che nulla aveva udito dell'oracolo, fece la sua scelta, indicò le condizioni: dovevano regalargli terreni - e nominò i due cittadini che sapeva possedere i due lotti migliori di Apollonia - e inoltre una casa, la più bella che conosceva in città; insomma, una volta entrato in possesso di questi beni, da quel momento la sua collera sarebbe cessata e questa soddisfazione sarebbe stata sufficiente. Così parlò; e gli Apolloniati che gli erano seduti accanto replicarono: "Evenio, questa riparazione, gli Apolloniati te la concedono, per l'accecamento, come vogliono gli oracoli". Lui per questo, quando gli ebbero spiegata tutta la faccenda, si rammaricò, sentendosi ingannato. Ma quelli comprarono i beni dai rispettivi proprietari e glieli donarono. Dopodiché, subito, Evenio ottenne una naturale capacità profetica, tale da diventarne persino famoso.

95) Figlio di questo Evenio, Deifono, portato dai Corinzi, era l'indovino dell'esercito. Però ho pure sentito dire che Deifono assumeva incarichi qua e là per la Grecia, usurpando il nome di Evenio, senza esserne il figlio.

96) I Greci, quando i sacrifici diedero esito favorevole, salparono da Delo in direzione di Samo. Una volta giunti di fronte a Calami, in Samo, ormeggiarono all'altezza del santuario di Era che vi sorge, e fecero i preparativi per la battaglia navale. Ma i Persiani, informati del loro approssimarsi, presero a loro volta il largo verso il continente con le navi rimaste; quelle fenicie le avevano già congedate. In effetti, pensando di non essere altrettanto forti, avevano deciso in consiglio di non combattere sul mare. Si ritiravano dunque verso il continente per trovarsi sotto la protezione della loro fanteria, di stanza a Micale, la quale, lasciata lì dal resto dell'esercito per ordine di Serse, controllava la Ionia; erano sessantamila uomini agli ordini di Tigrane, che si segnalava fra i Persiani per prestanza e statura. I comandanti della flotta decisero dunque di mettersi sotto la protezione di questo contingente, di tirare in secco le navi e di costruirsi tutt'intorno un baluardo, a protezione delle navi e come riparo per gli uomini stessi. Presa questa decisione, salparono.

97) Quando, passando di fronte al santuario delle Potnie a Micale, furono giunti a Gesone e a Scolopenta, dove sorge un tempio di Demetra Eleusinia, edificato da Filisto figlio di Pasicle che aveva seguito Neleo figlio di Codro verso la fondazione di Mileto, allora trassero in secca le navi e le circondarono con uno sbarramento di pietre e tronchi - tagliarono alberi da frutta -, poi piantarono pali intorno al muro. Ed erano pronti sia a sostenere l'assedio sia a vincere in battaglia. Si preparavano in effetti in vista di entrambe le soluzioni.

98) I Greci, quando seppero che i barbari si erano involati verso il continente, si indispettirono, con la sensazione che gli fossero sfuggiti di mano, ed erano incerti sul da farsi, se tornare a casa o far vela verso l'Ellesponto. Infine decisero di non fare né l'una cosa né l'altra, e di puntare invece sul continente. Preparate dunque le scalette e quanto altro era necessario in vista di una battaglia navale, si diressero verso il Micale. Giunti vicini al campo nemico, poiché nessuno li affrontava apertamente e anzi vedevano navi tratte a riva al riparo di un muro e fanti in gran numero allineati lungo la spiaggia, allora per cominciare Leotichida, bordeggiando il più possibile vicino alla spiaggia, per mezzo di un araldo lanciò agli Ioni un messaggio, che diceva: "Uomini della Ionia, quanti di voi sono a portata di voce, sentite quello che vi dico, tanto i Persiani non capiranno nulla dei moniti che vi rivolgo. Quando avrà luogo la battaglia, ci si ricordi prima di tutto della libertà, e poi della parola d'ordine: Era. E questo chi ha ascoltato lo riferisca a chi non l'ha udito". L'intenzione di tale iniziativa era la stessa di Temistocle all'Artemisio: il messaggio, sfuggito ai Persiani, doveva persuadere gli Ioni, oppure, riferito ai barbari, doveva indurli a non fidarsi dei Greci.

99) Dopo l'istigazione di Leotichida, ecco la seconda mossa dei Greci: accostarono le navi e sbarcarono sulla spiaggia. E mentre essi ordinavano le file, i Persiani, a vedere che i Greci si preparavano per la battaglia e avevano lanciato esortazioni agli Ioni, sospettarono che i Sami fossero in connivenza coi Greci e li disarmarono. In effetti, quando a bordo delle navi barbare erano arrivati dei prigionieri ateniesi, cioè quelli rimasti in Attica e catturati dai soldati di Serse, i Sami li avevano riscattati tutti, riforniti per il viaggio e rimandati ad Atene; e per questo soprattutto erano visti con sospetto: avevano liberato cinquecento uomini nemici di Serse. I Persiani ordinarono poi ai Milesi, in quanto, dicevano, migliori conoscitori della regione, di presidiare le strade che portano alle vette del Micale; ma lo fecero perché fossero lontani dal campo. In tal modo i Persiani si premunivano nei confronti degli Ioni dai quali subodoravano di doversi aspettare qualche atto ostile alla prima occasione. Dal canto loro ammassarono gli scudi per formare un baluardo.

100) Quando tutto fu pronto, i Greci avanzarono contro i barbari. Mentre muovevano una voce si sparse attraverso tutte le truppe, e apparve, sulla battigia, un bastone da araldo. Corse voce che i Greci impegnati in Beozia avevano sconfitto l'esercito di Mardonio. La presenza di elementi soprannaturali negli avvenimenti è dimostrata da molte prove, se anche allora, mentre la disfatta di Platea cadeva nello stesso giorno in cui stava per aver luogo quella di Micale, fra i Greci a Micale giunse una voce tale da sollevare molto più in alto il morale alle truppe e da far loro rischiare la vita con maggiore entusiasmo.

101) E ci fu anche un'altra coincidenza, che un santuario di Demetra Eleusinia sorgesse non lontano da entrambi i teatri delle battaglie. Infatti a Platea lo scontro avvenne proprio accanto al tempio di Demetra, come ho già detto, e a Micale stava per accadere altrettanto. La notizia sopraggiunta della vittoria ottenuta dai Greci di Pausania era esatta, perché la battaglia di Platea ebbe inizio al mattino, quella di Micale nel pomeriggio. Che fossero avvenute nello stesso giorno e stesso mese risultò chiaro poco tempo dopo dalle ricostruzioni. Prima che arrivasse la notizia i soldati erano tesi, non tanto per se stessi quanto per gli altri Greci: temevano che l'Ellade inciampasse malamente in Mardonio. Quando dunque la voce li raggiunse, attaccarono con più ardore e più svelti. I Greci e i barbari erano ansiosi di battersi: sapevano che le isole e l'Ellesponto erano il premio in palio.

102) Gli Ateniesi e le truppe ad essi affiancate fino a metà dello schieramento procedevano lungo la spiaggia e su terreno pianeggiante, gli Spartani e le milizie che stavano loro accanto lungo un canalone e su terreno accidentato. Mentre questi ultimi ancora completavano l'aggiramento, sull'altro lato già si combatteva, eccome. I Persiani, finché gli scudi ressero, si difesero senza avere assolutamente la peggio sul campo; ma quando il blocco degli Ateniesi e dei loro compagni, perché l'impresa risultasse loro e non degli Spartani, si incitarono a vicenda e si impegnarono con maggior vigore, allora le cose cominciarono a cambiare. Travolti gli scudi, si gettarono di slancio e tutti assieme contro i Persiani; questi sostennero l'urto e per un bel pezzo ribatterono colpo su colpo, infine ripiegarono verso il muro. Ateniesi, Corinzi, Sicioni e Trezeni (così, nell'ordine, erano schierati) li inseguirono compatti e piombarono sul fortilizio. Quando anche il muro fu preso, i barbari non si difesero più, ma volsero tutti le spalle, tranne i Persiani. Questi a piccoli gruppi si battevano contro i Greci che di volta in volta irrompevano entro la cinta. Dei generali persiani due fuggirono e due caddero: Artaunte e Itamitre, comandanti della flotta, fuggirono, Mardonte e il capo della fanteria Tigrane caddero con le armi in pugno.

103) E ancora combattevano i Persiani, quando sopraggiunsero gli Spartani con i loro compagni e aiutarono a compiere il resto. Sul posto caddero anche molti Greci, fra gli altri Sicioni, per esempio, anche lo stratego Perilao. Quanto ai Sami presenti sul campo, che militavano tra le file dei Medi ed erano stati disarmati, appena si accorsero che subito, fin dall'inizio, si profilava una vittoria del campo avverso, fecero quanto potevano per aiutare i Greci. Gli altri Ioni, al vedere i Sami dare l'esempio, si ribellarono anch'essi ai Persiani e si rovesciarono contro i barbari.

104) Ai Milesi i Persiani avevano ordinato di sorvegliare i passi, per loro salvezza, cioè per potersi mettere in salvo, disponendo di guide, sulle vette del Micale, nel caso fosse accaduto quanto poi appunto accadde. I Milesi erano stati dislocati così per tale ragione e perché, presenti fra le truppe, non vi causassero qualche scompiglio. Ma essi fecero l'esatto contrario di ciò che gli era stato ordinato: guidarono i fuggitivi persiani per sentieri sbagliati che portavano in braccio al nemico e in definitiva furono proprio loro i più spietati nel massacro. Fu così che per la seconda volta la Ionia si ribellò ai Persiani.

105) In questa battaglia si segnalarono fra i Greci, per valore, gli Ateniesi e, fra gli Ateniesi, Ermolico figlio di Euteno, cultore del pancrazio. A questo Ermolico, anni più tardi, durante una guerra fra Atene e Caristo, toccò di morire a Cirno, nel territorio di Caristo, e di essere sepolto al Capo Geresto. Dopo gli Ateniesi si distinsero Corinzi, Trezeni e Sicioni.

106) Sterminata la maggior parte dei barbari, tanto dei combattenti come anche dei fuggitivi, i Greci diedero alle fiamme le navi e l'intera fortificazione, dopo aver provveduto a trasferire il bottino sulla spiaggia; e trovarono alcuni depositi di preziosi. Incendiati muro e navi, ripresero il largo. Arrivati a Samo, i Greci discussero su una evacuazione della Ionia, quale parte della Grecia sotto il loro controllo dovessero fissare come sede di stanziamento prima di abbandonare ai barbari la Ionia. Appariva loro impossibile, infatti, proteggere per sempre gli Ioni, in perenne stato di allerta; e d'altra parte, se non li proteggevano loro, non speravano affatto che gli Ioni potessero staccarsi impunemente dai Persiani. Per questo i capi peloponnesiaci pensavano di far sgomberare gli empori dei popoli greci che si erano schierati coi Medi e di destinare i territori all'insediamento degli Ioni; ma gli Ateniesi rifiutarono l'idea che si avacuasse la Ionia e che i Peloponnesiaci decidessero su colonie ateniesi; e visto che gli Ateniesi si opponevano vivamente, i Peloponnesiaci lasciarono cadere la proposta. E così ammisero nell'alleanza Samo, Chio, Lesbo e le altre isole che avevano combattuto al fianco dei Greci dopo averle impegnate sotto giuramento a rimanere leali e a non tradire. Dopo averli fatti giurare, salparono per andare a distruggere i ponti; credevano infatti di trovarli ancora in piedi. Essi dunque navigavano verso l'Ellesponto.

107) Intanto i barbari fuggiti e riparati sulle vette del Micale, che non erano molti, si portavano a Sardi. Lungo la strada Masiste figlio di Dario, che era stato presente alla disfatta avvenuta, insultò pesantemente il generale Artaunte, dicendogli fra l'altro che per come aveva condotto le operazioni era peggiore di una donna, e che per i danni arrecati alla casa del re era degno di ogni punizione. Fra i Persiani sentirsi definire "peggiore di una donna" è l'insulto più grave. Artaunte, dopo averne ascoltate tante, in preda all'ira sguainò la spada contro Masiste, deciso a ucciderlo. Ma Xenagora figlio di Prassilao, di Alicarnasso, che stava proprio dietro Artaunte, si accorse del suo scatto: lo afferrò per la vita, lo sollevò e lo scaraventò a terra; e nel frattempo i dorifori di Masiste fecero scudo. Xenagora agendo così fece un favore a Masiste stesso e a Serse, al quale salvava il fratello. E per questo gesto Xenagora ebbe dal re il governo dell'intera Cilicia. Durante la marcia non accadde più nulla, e giunsero a Sardi. A Sardi si trovava il re, dal giorno in cui vi era arrivato in fuga da Atene, dopo la disfatta navale.

108) Allora, mentre se ne stava a Sardi, Serse si invaghì della moglie di Masiste, che si trovava lì anch'essa. Giacché, con le sue missive, non riusciva a concludere, e neppure cercava di forzarla, per riguardo al fratello Masiste (la stessa ragione tratteneva anche la donna, più che certa di non subire violenza), ecco che Serse, impossibilitato a imboccare altre strade, combina per il proprio figlio Dario il matrimonio con la figlia di quella donna e di Masiste, convinto, così facendo, di farla sua più facilmente. Concluso l'accordo nuziale e compiuti i preparativi d'uso, se ne partì per Susa. Ma, quando vi fu arrivato ed ebbe introdotto in casa sua la sposa di Dario, ormai gli si era sopita la passione per la moglie di Masiste: Serse, mutati i sentimenti, amava la moglie di Dario, la figlia di Masiste e riuscì a conquistarla. Questa donna si chiamava Artaunte.

109) Passò del tempo e la cosa si riseppe, come segue. La moglie di Serse, Amestri, tessuto un grande e meraviglioso mantello ricamato, lo donò a Serse. Lui, tutto contento, se lo mise addosso e si recò da Artaunte. Rimasto contento anche di lei, la invitò in cambio dei suoi favori a chiedergli ciò che volesse; qualunque cosa indicasse l'avrebbe ottenuta. Era destino che la donna finisse male con tutta la sua famiglia: di fronte a questa proposta essa domandò a Serse: "Mi darai davvero quel che ti chiedo?". E lui, che si aspettava qualunque altra richiesta, promise e giurò. E quando ebbe giurato, lei, tranquillamente, pretese il mantello. Serse mise in atto ogni espediente: non voleva cederlo, se non altro per timore che Amestri, già sospettosa della tresca, in quel modo lo cogliesse in fallo; le offrì città, oro a profusione, un esercito di cui nessun altro avrebbe avuto il comando; l'esercito è un dono tutto persiano. Ma non la persuase e dovette consegnarle il mantello. Artaunte, felice del dono, lo portava e se ne pavoneggiava.

110) Amestri venne a sapere che lo aveva lei. Una volta al corrente di ciò che accadeva, non se la prese con la donna, ma, immaginando che la colpevole, la responsabile di tutto fosse la madre di lei, macchinava una brutta fine per la moglie di Masiste. Attese che il proprio marito Serse imbandisse un pranzo reale (questo banchetto si prepara una volta all'anno, nell'anniversario della nascita del re, e si chiama, in persiano, tyctà, in greco téleion; è l'unica circostanza in cui il re si unge la testa e fa regali ai Persiani), attese, dicevo, questo giorno e chiese a Serse, come presente, la moglie di Masiste. Serse considerò grave, orribile già l'idea di consegnare la moglie di suo fratello e per giunta una donna che non c'entrava nulla in quell'affare; aveva capito in effetti per quale ragione Amestri la voleva sua.

111) Infine, visto che lei non recedeva, e poi vincolato dall'usanza che impedisce di lasciare insoddisfatta una richiesta formulata durante un banchetto reale, sia pure del tutto controvoglia, acconsentì. E nel consegnare la donna ecco cosa fece: invitò Amestri a regolarsi come voleva, lui dal canto suo convocò il fratello e gli disse: "Masiste, tu sei figlio di Dario e fratello mio, e oltretutto sei una persona di prim'ordine. Con la donna con cui ora vivi non viverci più; in cambio io ti do una mia figlia; sposati questa; la moglie che hai ora non mi va, lasciala perdere". Masiste, sbalordito da quelle parole, rispose: "Signore che razza di malefico discorso mi stai facendo? Mia moglie, da cui ho figli giovani e figlie, e una di loro tu l'hai fatta sposare a tuo figlio, una moglie che è fatta per me, tu mi inviti a lasciarla? E a sposare tua figlia? Mio re, mi sento molto onorato se mi consideri degno di tua figlia, ma non farò nulla di tutto questo. E non forzarmi chiedendomi una cosa del genere. Vedrai che per tua figlia si troverà un altro marito, per nulla inferiore a me, e quanto a me, lasciami vivere con mia moglie". Masiste dunque gli rispose così, e Serse, adirato, ribatté: "L'hai voluto tu, Masiste: ora non ti posso più dare mia figlia da sposare, né tu vivrai più oltre con tua moglie. Così imparerai ad accettare ciò che ti si offre". Masiste, udito questo, uscì fuori, ma prima disse: "Signore, non mi hai ancora finito!".

112) Nel frattempo, proprio mentre Serse era a colloquio col fratello, Amestri, chiamati i dorifori di Serse, stava torturando la moglie di Masiste: le fece tagliare i seni e gettarli ai cani, le fece mozzare naso, orecchie, labbra, lingua e la rimandò a casa sfigurata senza rimedio.

113) Masiste, ancora ignaro del fatto, ma fiutando nell'aria la tempesta, si precipitò a casa di corsa. Visto lo scempio inflitto alla moglie e consigliatosi immediatamente con i figli, si mise in viaggio verso Battra con i propri figli e probabilmente con altri, deciso a sollevare una rivolta nella provincia battriana e ad arrecare i maggiori danni al re. E sarebbe anche andata così, io credo, se avesse fatto in tempo ad arrivare fra i Battri e i Saci. Godeva molte simpatie tra loro ed era governatore della Battriana. Ma Serse, informato delle sue intenzioni, mandò sulle sue tracce delle truppe e lo fece uccidere lungo il percorso, lui, i suoi figli e tutta la carovana. E questo è tutto sull'innamoramento di Serse e sulla morte di Masiste.

114) I Greci partiti da Micale in direzione dell'Ellesponto dapprima fecero tappa a Lecto, perché sorpresi dai venti, poi giunsero ad Abido e trovarono spezzati i ponti che credevano di trovare ancora in piedi; ed era per questi soprattutto che si erano spinti fino all'Ellesponto. Leotichida e i suoi Peloponnesiaci decisero allora di tornare in Grecia, Santippo e gli Ateniesi, invece, di rimanere lì e di tentare l'attacco al Chersoneso. I primi dunque partirono, gli Ateniesi invece passarono da Abido al Chersoneso e posero l'assedio a Sesto.

115) A Sesto, considerata la fortezza più solida della regione, alla notizia dell'arrivo dei Greci all'Ellesponto, erano convenuti dalle altre città vicine; fra gli altri c'era, giunto dalla città di Cardia, il Persiano Eobazo, che lì aveva portato le funi dei ponti. Abitavano la città gli Eoli indigeni, ma vi erano anche Persiani e un folto gruppo di altri alleati.

116) Signore della provincia era un governatore di Serse, il Persiano Artaucte, uomo terribile, un criminale, che aveva ingannato persino il re quando marciava verso Atene, rapinando da Eleunte le ricchezze del tempio di Protesilao, figlio di Ificlo. Nel Chersoneso, a Eleunte, c'è una tomba di Protesilao, e intorno un'area sacra dove c'erano molto denaro, coppe d'oro e d'argento, bronzo, vesti e altre offerte votive, che Artaucte depredò strappandone il consenso al re. Ingannò Serse perché gli disse: "Signore, c'è qui la casa di un Greco che combatté contro la tua terra, trovò la sua punizione e morì. Fammi dono della sua casa, perché la gente impari a non muovere più guerra al tuo paese". Con queste parole doveva facilmente persuadere Serse a donargli la casa dell'uomo; Serse non sospettava nulla di quanto Artaucte aveva in mente. Affermava che Protesilao era in guerra contro il paese del re, in questo senso: i Persiani partono dal presupposto che tutta l'Asia sia proprietà loro e di chi volta per volta sia loro re. Ricevuto il dono, aveva trasferito le ricchezze da Eleunte a Sesto; e faceva seminare e usare come pascolo il terreno sacro e lui stesso, ogni volta che scendeva a Eleunte, si univa a donne nel penetrale del tempio. L'attacco degli Ateniesi lo aveva colto di sorpresa e impreparato; si può dire che gli furono addosso mentre non era in guardia.

117) L'assedio si prolungava e sopraggiunse l'autunno. Gli Ateniesi erano avviliti perché si trovavano lontano dal proprio paese e perché non riuscivano a conquistare la fortezza; e chiedevano agli strateghi di ricondurli indietro. Ma questi si rifiutavano di farlo, prima di averla conquistata o di essere richiamati dallo stato ateniese. Così si adeguavano alle circostanze.

118) All'interno della cinta erano ormai giunti all'estremo, al punto di bollire e di mangiarsi le cinghie dei letti. Quando non ebbero più nemmeno questo, allora i Persiani, Artaucte ed Eobazo scapparono di notte e si dileguarono, calandosi dal lato posteriore della cinta, dove più scarsa era la presenza dei nemici. Una volta giorno, i Chersonesiti dalle mura segnalarono l'accaduto agli Ateniesi e spalancarono le porte. La maggior parte degli Ateniesi si lanciò all'inseguimento, gli altri occuparono la città.

119) Eobazo, riparato in Tracia, lo catturarono i Traci Absinti e lo sacrificarono al dio indigeno Plistoro, secondo il loro costume; i suoi compagni li uccisero in altro modo. Artaucte e i suoi uomini, ultimi a darsi alla fuga, intercettati poco sopra Egospotami, resistettero a lungo, poi in parte caddero in parte furono fatti prigionieri. I Greci li incatenarono e li condussero a Sesto, e con loro Artaucte, legato, lui e suo figlio.

120) I Chersonesiti raccontano che a uno dei suoi custodi accadde un fatto prodigioso mentre stava cuocendo dei pesci disseccati: questi, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano come pesci appena pescati. Tutti i presenti erano allibiti, invece Artaucte, come vide il portento, chiamò l'uomo che cucinava i pesci e gli disse: "Straniero di Atene, non avere paura di questo prodigio; non si è verificato per te, ma Protesilao di Eleunte vuole farmi sapere che anche da morto e imbalsamato ha dagli dèi la forza di vendicarsi di chi lo ha oltraggiato. Ora io desidero pagare la mia pena e offrire al dio cento talenti in cambio delle ricchezze che ho asportato dal tempio; se sopravvivo, poi, per me e per mio figlio verserò duecento talenti agli Ateniesi". Ma pur con queste promesse non persuase lo stratego Santippo. I cittadini di Eleunte, in effetti, per vendicare Protesilao, gli chiedevano di mettere a morte Artaucte, e anche lo stratego inclinava alla stessa idea. Lo trascinarono proprio sulla costa dove Serse aveva aggiogato lo stretto, altri dicono sulla collina che sovrasta la città di Madito, lo inchiodarono e appesero a una tavola; e sotto i suoi occhi gli lapidarono il figlio.

121) Fatto ciò, ritornarono in Grecia portandosi via con tutto il resto anche le funi dei ponti, per offrirle in voto ai santuari. E per quell'anno non accadde più altro.

122) Antenato dell'Artaucte che fu crocifisso, era Artembare, l'autore del ragionamento che i Persiani fecero proprio e presentarono a Ciro, e che suonava così: "Poiché Zeus concede l'egemonia ai Persiani e il potere sugli uomini a te, Ciro, che hai abbattuto Astiage, ebbene, giacché abbiamo poca terra, e accidentata, andiamo via di qua e prendiamocene una migliore. Ce ne sono molte di vicine a noi, e molte anche di più lontane; occupiamone una e saremo maggiormente ammirati per più ragioni. È logico che i dominatori agiscano così. E quando avremo un'occasione migliore di ora che comandiamo su molti uomini e sull'Asia intera?". Ciro udito ciò, per nulla sorpreso dal discorso, li autorizzò ad agire così, ma anche li ammonì, invitandoli a prepararsi a non dominare più, ma a essere dominati; perché da paesi molli nascono di solito uomini molli. Non è dato vedere nella stessa terra crescere frutti strepitosi e uomini forti in guerra. Sicché i Persiani compresero e si ritirarono, cedendo al parere di Ciro, e preferirono essere padroni abitando una terra sterile, piuttosto che servire altri seminando una fertile pianura.