Biblioteca:Apuleio, Le Metamorfosi, Libro X

I
Che cosa sia accaduto il giorno dopo al mio ortolano, io non so; quanto a me, invece, senza che nessuno dicesse niente, fui prelevato dalla stalla proprio da quel soldato che per la sua prepotenza era stato lisciato a dovere. Passando dal suo alloggiamento, almeno così mi parve, mi caricò dei suoi bagagli, mi bardò con un equipaggiamento militare e mi avviò sulla strada.
Portavo, infatti, un elmo luccicante e uno scudo ancora più lucente e anche una lancia, di quelle a punta lunga, non regolamentare, che ti fanno un certo effetto e che, messa lì, in cima al mucchio dei bagagli, come s'usa nell'esercito, serviva più che altro a spaventare i passanti.
Percorsa una strada in mezzo ai campi abbastanza agevole giungemmo a una cittadina e ci recammo non alla locanda ma alla casa del decurione.
Il soldato mi affidò a un servo e lui si recò subito dal comandante che aveva sotto di sé mille uomini.

II
Alcuni giorni dopo, ricordo che si scoprì proprio lì un delitto orribile, un crimine efferato, di cui voglio accennarvi in questo mio libro perché possiate conoscerlo anche voi.
Il padrone di casa aveva un figlio, molto istruito e per questo modesto e virtuoso, tanto che anche tu, lettore, avresti gradito averne uno come lui.
La madre era morta da molto tempo e il padre s'era risposato e da questo secondo matrimonio aveva avuto un figliolo che allora poteva contare dodici anni.
Ma la matrigna che nella casa del marito si faceva notare più per la sua bellezza che per i buoni costumi, o perché lei era corrotta per natura o perché il destino la spingeva all'infamia più degradante, certo è che mise gli occhi sul figliastro.
Bada bene, lettore, io sto raccontandoti di una tragedia non di una commediola e che quindi dal socco ora si passa al coturno.
La donna, finché l'amore era sul nascere e quindi poco esigente, seppe resistere ai suoi deboli stimoli e soffocare facilmente in silenzio la tenue passione; ma quando il crudele iddio cominciò a divamparle in cuore e a diffondere come una smania per le sue intime fibre, ella cedette, e, fingendo un mortale languore nascose la ferita dell'animo dando ad intendere d'esser malata.
Tutti sanno che il deperimento del volto è comune agli ammalati come agli innamorati: viso pallido, occhi languidi, gambe fiacche, sonni inquieti, respiro sempre più affannoso, via via che cresce la pena.
A vederla pareva che lei si agitasse soltanto per un attacco di febbre e, invece, piangeva anche. E quanta ignoranza nei medici: cosa volevano dire il polso frequente, le vampe al viso, il respiro ansimante, il continuo voltarsi e rivoltarsi ora su un fianco ora sull'altro?
Santo cielo! Com'è facile capire, anche senza essere un medico, cosa vuol dire quando uno brucia e non ha febbre, solo se si ha un po' d'esperienza nelle cose d'amore.

III
La donna, dunque, nella sua eccitazione, non riuscendo più oltre a contenersi, decise di rompere il lungo silenzio e mandò a chiamare il figlio, nome questo che, se avesse potuto, per non arrossire, se lo sarebbe volentieri cancellato dalla mente.
Il giovane non indugiò a obbedire all'ordine della matrigna ammalata e con la fronte segnata dalla tristezza e dal cruccio, come quella di un vecchio, con tutto il dovuto rispetto entrò nella camera della moglie di suo padre e della madre di suo fratello.
La donna, però, depressa dal lungo tormentoso silenzio, fu ripresa dai dubbi e le parole che un momento prima aveva ritenute adatte per la circostanza, ora le sembravano sconvenienti e, trattenuta da un senso di vergogna, non sapeva da dove cominciare.
E quando il giovane, non sospettando di nulla, le chiese con deferenza che male avesse, lei, approfittando che, malauguratamente, erano soli, divenne audace e scoppiando in un pianto dirotto, coprendosi il volto con un lembo della veste, con voce trepidante, così gli parlò brevemente: "Tu sei la causa, l'origine del mio male, ma tu sei anche il rimedio, la mia sola salvezza. I tuoi occhi, fissando i miei, mi son penetrati dentro fin nel profondo dell'animo e vi hanno acceso un fuoco che mi brucia tutta e che non riesco più a estinguere. Muoviti a pietà d'una donna che muore di te e non farti scrupolo per tuo padre a cui, in fondo, salvi la moglie che altrimenti morrebbe. Del resto io ti amo anche perché nel tuo volto ritrovo il suo. Non aver timore, siamo soli e c'è tutto il tempo per far quello che ormai è inevitabile; e poi, le cose che non si vengono a sapere è come se non fossero mai accadute."

IV
Il giovane rimase sconvolto da quella inattesa rivelazione e sebbene fosse inorridito dinanzi a un crimine così mostruoso, pensò di non esasperare la donna con un netto rifiuto ma di calmarla con vaghe promesse e, intanto, di prender tempo.
Così le dette tutte le assicurazioni possibili e immaginabili, le disse di tirarsi su, di rimettersi in salute e di attendere che suo padre si assentasse per qualche viaggio perché allora essi si sarebbero goduti a loro agio.
Così le disse e subito si sottrasse alla insidiosa presenza della matrigna e andò difilato a trovare il suo maestro, un vecchio di molta esperienza e di gran senno, pensando che in una così grave sciagura familiare fosse urgente un qualche saggio consiglio.
I due ragionarono a lungo e insieme convennero che l'unico rimedio era quello di sottrarsi con la fuga alla tempesta che il destino avverso addensava su quella casa.
Ma la donna che non ce la faceva più ad aspettare, con un pretesto qualsiasi e con straordinaria abilità riuscì a convincere il marito a recarsi subito in certe sue proprietà molto distanti di lì. Fatto questo, ancor più eccitata perché vedeva appagata in anticipo la sua speranza, pretese che il ragazzo, come le aveva promesso, si concedesse alla sua libidine.
Ma il giovane, ora con una scusa ora con un'altra, cercò di eludere l'infame convegno, tanto che la donna comprendendo chiaramente da tutti quei pretesti che egli non aveva alcuna intenzione di mantenere la sua promessa, con estrema volubilità, mutò il suo nefando amore in un odio ben più terribile. E chiamato un suo schiavo che s'era portato in dote, uno scellerato capace di tutti i delitti, lo mise a parte delle sue criminali intenzioni, e a entrambi non parve cosa migliore che uccidere lo sventurato ragazzo.
Così la matrigna mandò subito quel delinquente a procurarsi un veleno a effetto istantaneo che, accuratamcnte sciolto nel vino, doveva togliere di mezzo il figliastro innocente.

V
Mentre quei due criminali s'accordavano sul momento più opportuno per dargli da bere il veleno, il ragazzo più giovane, proprio il figlio di quella perfida donna, rientrò a casa dalle lezioni del mattino e, fatta colazione e sentendo sete, vide quel bicchiere di vino in cui era stato messo il veleno e, non sospettando quale insidia nascondesse, bevve tutto d'un fiato.
Così il ragazzo bevve la morte destinata al fratello e, di schianto, crollò esanime a terra.
Accorse sgomenta tutta la servitù e la stessa madre alle grida del maestro sconvolto da quella repentina tragedia, e subito apparve chiaro che si trattava di veleno e ognuno cominciò a fare le più svariate supposizioni sugli autori di quell'orribile delitto.
Ma quella femmina perversa, esempio più che unico della malvagità delle matrigne, non fu punto turbata dalla morte improvvisa del figlio, non sentì alcun rimorso per quel delitto, per la sventura della sua famiglia, per il dolore del marito, per il lutto che avrebbe avvolto la casa, ma trasse spunto da questa disgrazia per portare a compimento la sua vendetta.
Inviò subito un corriere per informare della sciagura il marito che era in viaggio e, quando questi rientrò a precipizio, con un'audacia senza pari, disse che era stato il figliastro ad assassinare con il veleno suo figlio. E in questo, se vogliamo, mentiva fino a un certo punto, perché, in effetti, il ragazzo aveva rivolto su di sé la morte destinata all'altro; epperò aggiunse che il fratello minore era stato ammazzato dal figliastro perché lei non s'era concessa alle sporche voglie di quest'ultimo che aveva tentato di farle violenza.
Inoltre, ancora non contenta di queste turpi menzogne, aggiunse che quando s'era visto smascherato, l'aveva minacciata con la spada.
Sgomento per la perdita dei suoi due figli il povero padre si sentì come travolto da un'immane catastrofe.
Il figlio più piccolo se lo vedeva infatti seppellire sotto i suoi occhi e l'altro sapeva che glielo avrebbero condannato a morte per incesto e omicidio. Eppure verso quest'ultimo, per le false lacrime di una moglie troppo amata, sentiva ormai un odio profondo.

VI
S'erano appena concluse con la sepoltura le cerimonie funebri che il povero vecchio con il viso ancora scavato dal pianto e i capelli bianchi sporchi di cenere, lasciò il sepolcro del figlio e raggiunse il tribunale. Qui, fra le lacrime e le implorazioni, gettandosi ai piedi dei decurioni, ignaro delle frodi della perfida moglie, scongiurò con tutta l'anima che l'altro suo figlio fosse condannato a morte, dichiarandolo colpevole di incesto per aver violato il talamo paterno, un fratricida per l'uccisione del fratello, un assassino per aver minacciato di morte la matrigna.
E tanta fu la pietà, tanto lo sdegno che egli suscitò nei senatori e fra il popolo che di fronte ad accuse così schiaccianti e palesi e a prove così deboli e incerte portate a sua difesa, tutti gridarono che bisognasse tagliar corto con le lungaggini procedurali e che quel pericolo pubblico fosse condannato pubblicamente alla lapidazione.
Ma i magistrati temendo di esporsi a un rischio troppo grande se da un banale motivo di sdegno il tumulto popolare avesse preso dimensioni tali da minacciare lo stesso ordine cittadino, da un verso si raccomandarono ai decurioni, dall'altro convinsero il popolo perché si istruisse un processo secondo tutte le regole della procedura nel rispettò della tradizione, si esaminassero le prove portate dall'una e dall'altra parte e si pronunziasse una sentenza regolare, non all'uso dei barbari o dei selvaggi o come fanno i tiranni e i prepotenti che condannano un cittadino senza nemmeno ascoltarlo; questo anche per non dare, in un'età di prosperità e di pace, un esempio di crudeltà.

VII
Questo saggio consiglio venne accolto e subito il banditore ebbe l'incarico di radunare i senatori nella curia.
Quando ciascuno si fu seduto al posto che gli assegnava il suo rango, nuovamente il banditore si fece sentire e chiamò il primo accusatore, poi, a gran voce, anche l'imputato, mentre avvertiva gli avvocati, secondo la legge Attica e la procedura dell'Areopago a non dilungarsi in esordi e a non appellarsi alla pietà popolare.
Che le cose fossero andate così io lo seppi dopo da alcune persone che continuarono a parlarne; quale poi sia stata la requisitoria del pubblico accusatore e con quali argomenti l'imputato si sia difeso e poi le arringhe e le discussioni, io non so proprio, confinato com'ero nella stalla, e quindi non sono in grado di riferirvelo; perciò su queste carte riporterò soltanto quello che ho potuto accertare.
Dunque, terminati i dibattiti, fu deciso che la verità e l'attendibilità delle accuse fossero accertate da prove sicure per non giungere a una condanna così grave su semplici sospetti e che, quindi, era necessario far venire in tribunale quel famoso servo, il solo che a detta di tutti, sapeva com'erano andate effettivamente le cose.
Ma quel delinquente, per nulla turbato dall'esito incerto di un processo così importante, né dalla maestà della curia riunita al completo e tanto meno dalla sua coscienza sporca, cominciò a raccontare un sacco di fandonie facendole passare per pura verità, che cioè quel giovane, infuriato per la repulsa della matrigna, lo aveva chiamato e per vendicarsi gli aveva chiesto di uccidere il figlio della donna promettendogli un grosso premio in cambio del suo silenzio; e che siccome lui s'era rifiutato, lo aveva minacciato di morte; che gli aveva consegnato il veleno da far bere al fratello, preparato con le sue mani, ma che poi, sospettando che egli non compisse il delitto e si tenesse la tazza come prova, alla fine l'aveva porta al ragazzo lui stesso.
Con queste dichiarazioni che quel miserabile fece con un'aria tutta spaventata e come se dicesse le cose più vere di questo mondo, il processo ebbe termine.

VIII
Fra i decurioni non vi fu più nessuno disposto alla benevolenza. Di fronte all'evidenza tutti ritennero di dover proclamare il giovane colpevole e degno di essere cucito nel sacco.
La sentenza fu unanime ed era già stata trascritta sulle schede che ciascuno si apprestava a metter nell'urna di bronzo secondo la consuetudine di sempre, dove, una volta deposte, avrebbero irrevocabilmente segnato la sorte del reo e rimesso la sua testa al carnefice, quando un senatore, uno dei più anziani, stimato da tutti per la sua rettitudine e medico di grande prestigio, coprendo con la mano la bocca dell'urna per evitare una votazione affrettata, così parlò alla corte:
"Mi consola il fatto di aver vissuto così a lungo sempre nella vostra stima e perciò non posso consentire che, condannando costui sotto falsa accusa si commetta un vero e proprio assassinio, né che voi, chiamati a esercitare la giustizia sotto il vincolo del giuramento, fuorviati dalle menzogne di uno schiavo, diventiate voi stessi spergiuri. Almeno per quel che mi riguarda, io non posso calpestare il timore degli dei e venir meno alla mia coscienza pronunciando una condanna ingiusta.
"Perciò ascoltatemi e saprete come sono andate veramente le cose.

IX
"Questo furfante, non molto tempo fa, mi si presentò con cento monete d'oro sonanti dicendomi che aveva urgente bisogno di un veleno a pronto effetto per un malato che, colpito da un male inguaribile, voleva farla finita con una vita di sofferenze.
"Io, però, mi accorsi che questo sciagurato s'impappinava, adduceva confusi pretesti e così mi convinsi che stava macchinando qualche delitto.
"Allora gli detti il veleno, certo che glielo detti, ma prevedendo quanto prima un'inchiesta, non ritirai il compenso che mi aveva offerto: 'Sta a sentire,' gli dissi, 'nel caso che qualcuna di queste monete fosse falsa o fuori corso, domani le controlleremo davanti a un banchiere.'
"Lui ci cascò e sigillò il denaro, così quando l'ho visto comparire in tribunale, ho detto a un mio schiavo di correre in bottega a prendere il sacchetto e di portarlo qui. Eccolo, io ve lo esibisco. E se lo guardi anche lui e dica che non e il suo sigillo. E allora, com'è che si può accusare il fratello se il veleno l'ha comprato costui?"

X
Allora questo mascalzone fu preso da un tremito convulso, perse il suo colorito naturale e divenne cadaverico, cominciò a sudar freddo per tutto il corpo e a non star fermo un momento con i piedi, a grattarsi continuamente la testa, a borbottare nella bocca semichiusa parole incomprensibili, così che ognuno capì che qualcosa sulla coscienza doveva avercela.
C'è da dire, però, che egli riprese quasi subito il controllo di sé e furbo com'era, cominciò a negare, anzi ad accusare il medico di mendacio.
Allora questi, vedendo che oltre l'autorità della corte si offendeva l'onorabilità della sua persona, raddoppiò la sua foga oratoria per confondere quel farabutto tanto che, su ordine dei magistrati, i pubblici ufficiali afferrarono le mani di quell'infame schiavo, gli strapparono l'anello di ferro e lo confrontarono con il sigillo del sacchetto: il raffronto confermò il sospetto iniziale. Si passò allora alla tortura e, all'uso greco, non gli furono risparmiati la ruota e il cavalletto. Ma egli oppose una resistenza eccezionale e non si piegò né alle frustate né al fuoco.

XI
Allora il medico: "No, non permetterò, perdio, non posso permettere che voi contro ogni giustizia condanniate a morte questo giovane innocente e che costui, prendendosi beffa di questo tribunale, sfugga alla pena che si merita per l'orrendo delitto commesso.
"Eccovi, allora, la prova decisiva del fatto in questione.
"Dunque, quando vidi che questo sciagurato insisteva per avere un veleno a effetto fulminante, subito riflettei che come medico io non potevo dare a un tizio qualunque sostanze che facessero morire ben sapendo che la medicina serve a guarire gli uomini non a ucciderli; però, temendo che se io gli avessi negato il veleno, non è che col mio rifiuto gli avrei tolta l'occasione di porre in atto il suo crimine in quanto egli se lo sarebbe procurato da un altro o avrebbe usato, alla fin fine, la spada o un'altra arma, io glielo diedi, ma era un sonnifero, quello famoso che si estrae dalla mandragora e che fa piombare in un letargo simile alla morte.
"Non c'è da stupirsi, quindi, se questo furfante sopporta la tortura; egli la ritiene ancora il male minore perché sa che per lui non c'è più speranza e che, secondo le leggi degli antenati, lo aspetta la pena di morte.
"Ma se è vero che quel ragazzo ha bevuto la pozione preparata da me, è vero anche che egli è vivo e che ora riposa e dorme e che fra poco, quando si ridesterà dal suo sonno profondo, tornerà alla luce del giorno.
"Se, invece, egli è morto bisognerà che voi cerchiate altrove le cause del suo decesso."

XII
Con questo discorso il vecchio ebbe partita vinta e subito tutti si recarono di corsa al sepolcro dove giaceva composto il corpo del ragazzo. Non ci fu un senatore, un nobile, o anche uno solo del popolo che, spinto dalla curiosità, non vi accorresse. Ed ecco il padre, alzato con le proprie mani il coperchio della bara, vide che il figlio, proprio allora, stava destandosi dal profondo letargo e tornava dalla morte alla vita; e strettoselo forte fra le braccia, senza riuscire a dir parola per la troppa gioia, lo mostrò al popolo; poi, così com'era ancora avvolto nelle vesti funebri, lo portò in tribunale e la verità venne fuori e piena luce fu fatta sugli intrighi dell'infame servo e dell'ancor più infame moglie.
La matrigna fu condannata all'esilio perpetuo, il servo al patibolo e il bravo medico, su proposta unanime, in premio di quel sonno provvidenziale, s'ebbe le monete d'oro.
E fu proprio la mano della divina provvidenza a far concludere così l'avventura straordinaria e clamorosa di quel vecchio che dopo aver corso il pericolo di vedersi privato dei suoi due giovani figli, in poco tempo, anzi nel giro di qualche istante, si ritrovò padre di entrambi.

XIII
Quanto a me la sorte continuava a sballottarmi di qua e di là.
Quel soldato che mi aveva comprato senza che nessuno mi avesse venduto e s'era appropriato di me senza aver sborsato nemmeno un soldo, fu comandato dal suo tribuno di portare a Roma un messaggio all'imperatore e così mi vendette per undici denari a due fratelli del luogo.
Costoro erano gli schiavi di un uomo molto ricco: uno era pasticciere e faceva ciambelle e dolcetti al miele, l'altro era cuoco e preparava succulenti bocconcini di carne cotti in salse piccanti. Abitavano insieme e facevano vita in comune. Mi avevano comprato per farmi trasportare i molti utensili, di tutti i generi, che occorrevano al padrone sempre in viaggio da un posto all'altro.
Così fui accolto dai due fratelli come terzo coinquilino e mai per me vi fu pacchia maggiore. La sera, in fatti, dopo certi pranzetti stupendi, ch'erano uno spettacolo, i miei padroni portavano in camera ogni sorta di avanzi: uno se ne veniva con interi pezzi di maiale, polli, pesce e pietanze di tutte le specie, l'altro con pani vari, pasticcini, ciambelle, biscotti a forma di amo, di lucertola, e squisiti dolci al miele.
E così, quando i due, chiusa la camera, se ne andavano alle terme per ristorarsi un po', io mi rimpinzavo alla bell'e meglio con quelle delizie piovutemi dal cielo.
Mica ero davvero così stupido e così asino da mangiarmi il mio fieno indigesto e lasciar lì tutte quelle squisitezze.

XIV
Per un po' quel mio rubacchiare andò a meraviglia, dal momento che io cercavo di controllarmi e in tutta quell'abbondanza pizzicavo di sottecchi soltanto qualcosa qua e là, né, d'altra parte, i due potevano minimamente sospettare di un asino.
Ma quando io presi coraggio e, vedendo che mi andava sempre liscia, cominciai a darci sotto coi bocconi più appetitosi e a farmi il palato ai dolci più prelibati, un sospetto non infondato mise sul chi va là i due fratelli che, assolutamente non dubitando ancora di me, cominciarono a chiedersi chi potesse essere mai l'autore di quelle giornaliere sparizioni.
Alla fine, di quella vigliaccata, s'incolparono addirittura a vicenda e si misero a far la guardia ai pezzi e perfino a contarseli con una pignoleria odiosa.
Un bel giorno se le dissero fuori dei denti: "Non è giusto," cominciò uno apostrofando il compagno, "e neanche corretto che tu ogni giorno ti sgraffigni i pezzi più buoni e te li vai a vendere per farci su il gruzzoletto e che poi, di quello che resta, vuoi ancora fare a metà. Se la nostra società non ti sta più bene possiamo sempre scioglierla pur restando buoni fratelli, perché continuando così con tutta questa roba che sparisce, andrà a finire che noi litigheremo brutto."
"Ostia, ne hai della sfacciataggine," rimbeccò l'altro. "Sei tu che ogni giorno, sotto sotto, ti freghi i pezzi e ora pure ti lagni, quando io mi tenevo in corpo la rabbia proprio per non incolpare mio fratello d'una vigliaccata simile. Ma è bene, ora, che tutti e due ne abbiamo parlato, proprio per trovare una soluzione a questa brutta faccenda, altrimenti continuando a starcene zitti avremmo finito per azzuffarci come Eteocle e Polinice."

XV
E seguitarono a querelarsi finché non giurarono entrambi di non aver commesso alcuna frode, di non aver mai sottratto nulla e, quindi, che bisognasse a tutti i costi cercare il ladro che li derubava.
L'unico che restava in casa, dicevano era l'asino ma a questo non piacevano certi cibi; eppure, ogni giorno, scompariva la roba migliore e le mosche che bazzicavano in quella stanza mica eran grosse come le Arpie che razziavano i cibi a Fineo.
Intanto io, preso per la gola da tutte quelle ghiottonerie e continuando a rimpinzarmi con quei cibi destinati agli uomini, avevo messo su un bel po' di ciccia; la pelle era diventata grassa e morbida e anche il pelo s'era fatto tutto lucente. Ma fu proprio il bell'aspetto fisico a procurarmi una grossa mortificazione. Infatti, quando i due si accorsero che io continuavo ad ingrassare e che d'altra parte il fieno restava sempre lì intatto, cominciarono ad appuntar su di me i loro sospetti e un giorno, facendo finta di andare ai bagni come al solito, mi chiusero dentro ma si misero a spiare da una fessura della porta e videro che io m'ero già buttato a piene ganasce su quelle vivande lì a disposizione.
Lo stupore nel vedere un asino che si dava a quegli strani piaceri fece loro passar di mente tutto il danno subito e, scoppiando in una gran risata, chiamarono ad uno ad uno tutti i compagni perché anch'essi vedessero una cosa incredibile: a che punto arrivava la golosità di uno sciocco animale.
E allora tali e tante furono le risate, che giunsero fino alle orecchie del padrone che si trovava a passare da quelle parti.

XVI
Costui chiese cosa ci fosse di tanto bello da far ridere tutta la servitù e quando gli dissero di che si trattava, volle anch'egli guardare dal buco e si divertì moltissimo.
Rideva a crepapelle fino ad aver male alla pancia e per osservar meglio la cosa aprì la porta della stanza e mi venne vicino.
Da parte mia vedendo che finalmente la fortuna mi mostrava il suo volto propizio e incoraggiato dal buon umore di tutta quella gente, senza minimamente scompormi, continuai a mangiare, fin quando il padrone, divertito dalla stranezza di quello spettacolo, ordinò che mi si conducesse al palazzo, anzi fu lui stesso a portarmici, fino in sala da pranzo, e fatta imbandire la tavola volle che mi fossero portati cibi in quantità e pietanze d'ogni specie non ancora toccate.
Io, benché fossi sazio, per rendermi simpatico, mi misi a trangugiare tutti i cibi che mi offrivano e così, quelli, tutti a pensare quali potevano essere le pietanze più ostiche per un asino e a mettermele davanti, per provare fino a che punto io fossi addomesticato: mi dettero carni alla senape, volatili cosparsi di pepe, pesci in salse piccanti, mentre tutta la sala rintronava di risate.
"Dateci del vino a questo amico," se ne uscì uno dei presenti, in vena di far dello spirito. E il padrone, cogliendo a volo: "Mica è malvagia la tua idea, brigante che sei; forse forse il nostro amico se lo fa volentieri un bicchierino di quello dolce!" e rivolto a un servo: "Ehi, tu ragazzo, pulisci bene quel calice d'oro, riempilo e offrilo al mio ospite, assicurandolo che io ho già bevuto alla sua salute."
Allora fra i convitati ci fu un momento di grande attesa.
Ma io, per nulla preoccupato, tranquillamente e con grazia, sporsi il labbro inferiore come se fosse la lingua e vuotai tutto d'un fiato quel calice enorme.
Si levò, allora, un'ovazione e i presenti, a una voce, mi gridarono "evviva".

XVII
Allora il padrone che per la gioia non stava più nella pelle, chiamati i servi che mi avevano comprato, fece restituir loro il quadruplo della somma pagata e, con mille raccomandazioni, mi affidò alle cure di un suo fedelissimo liberto, per giunta assai danaroso.
Costui mi trattava proprio con umanità e aveva per me un sacco di attenzioni e per ingraziarsi il suo protettore faceva di tutto perché le mie trovate lo divertissero.
E così mi insegnò per prima cosa a stare a tavola appoggiato sul gomito, poi a far la lotta, e a ballare tenendo alte le zampe anteriori, infine, cosa davvero straordinaria, a esprimermi per cenni.
Così quando volevo dir di no io alzavo il capo, quando invece volevo dire di sì lo abbassavo; se avevo sete, per chiedere da bere mi volgevo verso il coppiere e battevo le palpebre.
Queste cose io le eseguivo molto facilmente e le avrei sapute fare anche se nessuno me le avesse insegnate, ma temevo che se avessi fatto tutto come un uomo, senza l'aiuto di un maestro, molti l'avrebbero preso come un cattivo presagio e credendomi un mostro o un prodigio mi avrebbero ucciso e lasciato in pasto agli avvoltoi.
Intanto, però, la fama s'era sparsa e grazie alle mie straordinarie abilità, anche il mio padrone era diventato un uomo in vista: "Eccolo," dicevano, "quello è l'uomo che ha un asino per amico, un asino che pranza con lui, che fa la lotta, che balla, che capisce i discorsi degli uomini e che si esprime a cenni."

XVIII
Prima però devo dirvi chi era e da dove veniva questo mio padrone, anche se, veramente, avrei dovuto parlarvene fin dall'inizio. Ebbene, si chiamava Tiaso, era originario di Corinto, la capitale della provincia di Acaia e, dopo aver percorso tutti i gradi della carriera politica, come del resto esigevano la sua nobile stirpe e il suo rango, era stato designato alla magistratura quinquennale.
Orbene per festeggiare degnamente l'assunzione della carica aveva promesso ben tre giorni di spettacoli gladiatori e aveva tutta l'intenzione di andar ben oltre con la sua munificenza. E, infatti, per il desiderio di farsi una notorietà, era andato perfino in Tessaglia a comperare le belve migliori e i gladiatori più rinomati.
Quando giunse il momento di tornare in patria, dopo aver sistemato ogni cosa secondo la sua volontà e aver fatto tutti gli acquisti, non è che egli utilizzasse per sé i suoi magnifici cocchi, i suoi carri tirati da bestie feroci, che coperti o scoperti che fossero rimasero vuoti in coda al convoglio, ma volle amabilmente sedere sulla mia groppa, sdegnando perfino i puledri tessali o i cavalli di Gallia, purosangue ricercati a peso d'oro.
Mi aveva messo finimenti dorati, una sella ricamata, una gualdrappa di porpora, un morso d'argento, briglie colorate e squillanti campanellini e ogni tanto ci rivolgeva paroline dolci, e fra le altre cose mi confessava che l'aver trovato in me un commensale e, nello stesso tempo, una cavalcatura, era la cosa che gli faceva più piacere.

XIX
Viaggiammo per terra e per mare e quando giungemmo a Corinto una gran folla ci venne incontro, non tanto per far bella accoglienza a Tiaso, almeno così mi parve, quanto per la curiosità di vedere me. Fin là era giunta, infatti, la mia fama e a tal punto che il mio padrone ci fece un gruzzolo mica da poco.
Egli aveva capito che la gente moriva dalla voglia di vedere le mie prodezze e allora pensò bene di farmi lavorare a porte chiuse, facendo entrare dietro pagamento uno per volta e rimediando, così, alla fine della giornata, una bella sommetta.
Un giorno capitò fra gli altri una signora d'alto rango e molto ricca la quale per vedermi pagò come tutti gli altri, ma tanto fu lo spasso che provò per i miei svariati scherzi che a furia di star lì ad ammirarmi, a poco a poco fu presa da un'inconcepibile attrazione per me e non trovando rimedio alcuno a quella folle passione, novella Pasife ma di un asino, altro non cercava che i miei amplessi, tanto che, alla fine, sborsò una forte somma al mio custode per poter passare una notte con me.
Costui senza minimamente preoccuparsi se la cosa garbava anche a me, ma pensando solo al suo torna conto, acconsentì.

XX
E così, dopo cena, rientrando in camera mia dalla sala da pranzo del padrone trovammo la signora che già da un pezzo mi aspettava.
Ma santo cielo che atmosfera e che lusso! Quattro eunuchi, lì per lì, con molti cuscini di morbide piume ci prepararono un giaciglio a terra, vi stesero una coperta di porpora di Tiro, tutta trapunta d'oro, e sopra misero molti altri piccoli cuscini, che le signore raffinate usano per appoggiarvi il collo e le guance.
Ciò fatto per non ritardare oltre con la loro presenza i sollazzi della padrona, chiusero la porta della camera e se ne andarono.
Dentro splendevano le candele che illuminavano a giorno le tenebre della notte.

XXI
Allora ella si mise tutta nuda, slacciandosi anche la fascia che le stringeva le dolci mammelle, poi si avvicinò alla luce, prese da un vasetto di stagno una pomata profumata e se la spalmò per tutto il corpo, strofinando abbondantemente anche me, soprattutto intorno alle narici. Poi cominciò a coprirmi di baci, non di quelli che ci si scambia nei bordelli, dove le troie te li dispensano a tanto l'uno e i clienti stan lì a tirar sul prezzo, ma baci veri, dati con tutta l'anima e tra parole dolcissime: "Ti amo", "Ti desidero", "Voglio te solo", "Senza di te non posso più vivere" e tutte le altre frasi che le donne sanno dire quando vogliono incantare gli uomini e esprimere il loro amore.
Poi mi prese per la cavezza e senza alcuna difficoltà mi fece stendere a terra al modo che mi avevano insegnato.
A me non parve di dover far nulla di eccezionale o di difficile: dopo tanto tempo di astinenza c'era solo da soddisfare una bella signora che mi moriva dalla voglia.
Per di più il vino che mi ero scolato, di quello buono, e quell'unguento da capogiro, avevano messo un certo qual prurito anche a me.

XXII
Tuttavia ero preoccupato e non poco se pensavo in che modo avrei fatto con quelle mie zampe grandi e grosse a montare una donna così delicata, ad abbracciare con i miei duri zoccoli quelle membra bianche, morbidette, fatte di latte e di miele, baciare quelle sue labbruzze rosse e umide d'ambrosia, io che avevo una bocca spropositata, enorme; armata di denti che sembravano macigni e, infine, come avrebbe fatto quella donna, benché tutta in calore fino alle punta delle unghie, ad accogliere in se un affare così grosso come il mio.
"Povero me," dicevo, "se ti sventro questa nobildonna sarò gettato alle belve e fornirò una scena in più allo spettacolo del mio padrone."
Intanto lei continuava a sussurrarmi dolci paroline, a coprirmi di baci, a mangiarmi con gli occhi fra gagnolii di piacere:
"Finalmente ti tengo, ti godo piccioncino, passerottino mio," e così dicendo mi dimostrava che erano del tutto infondate le mie preoccupazioni e fuor di luogo ogni timore.
Infatti, tenendomi stretto stretto a sé, lo prese tutto, ma proprio tutto; anzi ogni volta che io mi tiravo un po' indietro con le natiche, temendo di farle male, lei, di forza, tutta stizzita, mi si riattaccava e aggrappandosi alla mia schiena, mi teneva in una stretta ancor più intima, tanto che addirittura mi venne il dubbio se, perbacco, non me ne mancasse un po' per soddisfare del tutto la sua libidine, e capii quale piacere doveva aver provato la madre del Minotauro col suo muggente amante.
Dopo una notte insonne e laboriosa, tutta spesa così, la signora fuggì via evitando la compromettente luce dell'alba, non prima però di essersi accordata per la notte successiva allo stesso prezzo.

XXIII
Del resto il mio istruttore non aveva nulla in contrario ad elargirle a volontà di questi piaceri non solo perché ne ricavava lauti guadagni ma anche perché intendeva procurare al suo padrone uno spettacolo di nuovo genere.
Infatti egli corse subito a descrivergli tutta la scena dei nostri amori e quello, ricompensato generosamente il suo liberto, dispose che io mi producessi in pubblico; ma poiché quella nobildonna non poteva prestarsi alla bisogna in quanto ne sarebbe andata di mezzo la sua dignità, e non se ne trovava nessun'altra disposta a una simile prestazione, nemmeno a pagarla a peso d'oro, si ricorse a una povera disgraziata condannata alle belve su sentenza del governatore, che avrebbe dovuto prodursi con me nell'anfiteatro davanti a tutto il popolo.
Ma ecco quello che seppi di costei e della sua condanna:
Essa era maritata a un giovane il cui padre, partendo per lontani paesi, aveva raccomandato alla moglie, madre appunto del suddetto ragazzo, e che egli ora lasciava un'altra volta incinta, che se avesse dato alla luce una femmina avrebbe dovuto subito ucciderla.
E proprio una femmina, infatti, nacque durante l'assenza del marito; ma la moglie seguendo l'istinto proprio di ogni madre, disobbedì a quell'ordine e affidò la piccola ad alcuni vicini perché l'allevassero.
Quando il marito tornò ella gli raccontò della femmina che era nata ma anche che l'aveva uccisa.
Ma allorché la ragazza giunse nel fiore degli anni, nel tempo in cui la giovinezza reclama uno sposo, la madre, naturalmente, non fu in grado, all'insaputa del marito, di darle una dote adeguata alla sua nascita e così, non potendo far altro, confidò al figlio il suo grande segreto; anche perché temeva che questi, all'oscuro di tutto, giovane e ardente com'era, non mettesse puta caso gli occhi addosso alla sorella anch'ella ignara di ogni cosa.
Il giovane, che era di buonissimi sentimenti, assolse scrupolosamente il suo dovere verso la madre e i suoi obblighi verso la sorella: custodì sotto il più sacro silenzio il segreto della sua famiglia e, mostrando all'apparenza d'essere spinto soltanto da un normalissimo sentimento di umanità, fece ciò che il vincolo del sangue gli imponeva, cioè prese in casa, sotto la sua tutela, la povera fanciulla rimasta sola e senza l'appoggio dei genitori, le fece una ricca dote pigliando del suo e poi la diede in sposa a un carissimo e intimo amico.

XXIV
Ma tutte queste belle e buone e sacrosante azioni fatte a puntino, non sfuggirono alla malignità della Fortuna che istigò la gelosia a entrare nella casa del giovane e a funestarla.
E così la moglie, la stessa che ora, appunto, per questi fatti, era condannata alle belve, in un primo momento cominciò a sospettare nella fanciulla una rivale, addirittura che andasse a letto con suo marito, poi prese a odiarla e, infine, a tenderle perfino spietate insidie per farla morire. Ecco la trappola fatale che le tese: sottrasse al marito l'anello che egli usava come sigillo e partì per la campagna. Di qui spedì un servo a lei fedele, ma che non poteva assolutamente dirsi uomo di buona fede, perché riferisse alla fanciulla che il giovane essendosi recato in campagna la invitava presso di sé, raccomandandole, però, che andasse da sola, senza compagnia alcuna, il più presto possibile. Inoltre, per allontanare nella ragazza ogni titubanza, consegnò al servo perché glielo mostrasse, l'anello sottratto al marito a conferma dell'autenticità di quel messaggio.
Ella obbediente all'ordine del fratello (era la sola, infatti, a conoscerlo per tale) e riconoscendo il sigillo che le veniva mostrato, senza indugio e tutta sola s'avviò, come le era stato ordinato e così cadde nella trappola infame, nei lacci insidiosi e che le erano stati tesi.
Quella moglie esemplare, infatti, fuori di sé ormai dalla rabbia e dalla gelosia, prima la spogliò, poi la frustò a sangue nonostante che la poverina gridasse la verità, cioè che quello sdegno era fondato sul nulla, su un adulterio che non esisteva e che quel giovane era suo fratello.
Ma fu come se dicesse soltanto menzogne, come se si inventasse tutto di sana pianta, perché l'altra la uccise in modo atroce cacciandole un tizzone ardente fra le cosce.

XXV
Sconvolti alla notizia di una morte così atroce accorsero il fratello e il marito e piansero a lungo l'infelice ragazza prima di darle sepoltura. Anzi il fratello rimase tanto turbato per la morte così terribile e ingiusta toccata alla sorella che non riuscì a darsi pace fino a restare come stravolto dal dolore profondo e avvelenato da un furioso travaso di bile che gli procurò una febbre violentissima per cui si rese necessario ricorrere a una medicina.
Ma la moglie che già da tempo aveva perduto ogni onore e lo stesso diritto di chiamarsi con questo nome, si rivolse a un medico senza scrupoli, famoso per le sue prodezze, per i molti risultati brillanti ottenuti con l'opera delle sue mani, e gli promise cinquanta sesterzi se le avesse procurato un veleno istantaneo per darle il modo di far fuori il marito.
Concluso l'affare fu fatto credere al malato che per calmare i visceri ed eliminare la bile egli dovesse prendere quella bevanda che i medici chiamano "sacra", ma al suo posto, invece, gliene venne somministrata un'altra sacra, a Proserpina Salutare.
E così il medico in presenza dei servi, di alcuni parenti e amici, porse al malato la bevanda preparata a puntino con le sue mani.

XXVI
Ma quella sfrontata, per sbarazzarsi del complice e nello stesso tempo per risparmiare la somma pattuita, di fronte a tutti fermò la mano che porgeva il veleno e: "Aspetta, dottore illustrissimo," esclamò, "darai questa bevanda al mio diletto sposo soltanto dopo che tu stesso ne avrai bevuto una buona dose, altrimenti come faccio a sapere se dentro non vi sia del veleno? Tu sei un uomo saggio e istruito e perciò non devi prendertela se io, da moglie scrupolosa e affettuosa, ci sto attenta alla salute di mio marito e ce la metta tutta in fatto di precauzioni."
Il medico, colto alla sprovvista dall'audacia e dal cinismo della donna, rimase come basito e non ebbe nemmeno il tempo di prendere una risoluzione qualsiasi, dal momento che un segno di paura o un attimo di esitazione avrebbero tradito la sua coscienza sporca, e così bevve una buona dose di quella roba; al che il giovane rassicurato, prese il bicchiere che gli veniva offerto e bevve anche lui.
La cosa era fatta e il medico ora voleva tornarsene a casa più in fretta possibile per bloccare con un antidoto l'azione micidiale e repentina del veleno, ma quella terribile donna perseverò nel suo piano con ostinata ferocia e non gli permise di fare un passo prima che la medicina, diceva, non avesse prodotto il suo effetto.
Soltanto dopo che quel poveretto la scongiurò e la supplicò con mille preghiere fino a stancarla, si decise a lasciarlo andare.
Ma ormai l'inesorabile veleno s'era già diffuso nelle sue viscere devastandole in profondità con la sua forza micidiale, tanto che, a stento, più morto che vivo e già immerso in un torpore mortale, egli poté giungere a casa. Fece appena in tempo a raccontar l'accaduto alla moglie e a raccomandarle di esigere il compenso pattuito per quella duplice morte che, quel medico egregio, fulminato dal veleno, tirò le cuoia.

XXVII
Neanche il giovane la tirò per le lunghe e tra le false e bugiarde lacrime della moglie, fece la stessa fine.
Dopo la sua sepoltura, trascorsi appena quei pochi giorni riservati alle funzioni funebri, la moglie del medico venne a reclamare il compenso per quella duplice morte. Ma l'altra non si smentì e simulando la più perfetta buona fede l'accolse amabilmente, le fece una quantità di promesse e l'assicurò che avrebbe subito pagato il compenso pattuito purché lei le avesse procurato un altro po' di quel veleno, dal momento che voleva finire un lavoretto appena iniziato.
Per farla breve la moglie del medico acconsentì senza tante difficoltà e così anch'ella cadde nella trappola mortale; anzi, per ingraziarsi quella donna così generosa, corse a casa e tornò di volata recandole addirittura un vasetto pieno di veleno.
Quella criminale s'ebbe così in abbondanza ciò che le serviva per i suoi delitti e ne dispensò a profusione con le sue mani scellerate.

XXVIII
Dal marito, appena fatto fuori, aveva avuto una bimba, alla quale, per legge, sarebbe spettata l'eredità paterna; ebbene questo non riusciva a sopportarlo, volendo per sé tutto il patrimonio e così decise di eliminare anche la figlia.
Sapeva che le madri anche se colpevoli di qualche crimine entravano in possesso dei beni appartenuti ai figli defunti e così quel che aveva fatto come moglie fu pronta a ripeterlo come madre: alla prima occasione organizzò un pranzetto e ti fece secche, in un sol colpo la moglie del medico e la figlioletta.
Sulla piccola, di fragile costituzione e dalle viscere tenere e delicate, il veleno agì all'istante, sulla moglie del medico, invece, quell'orribile bevanda più lentamente compì la sua opera devastatrice, tanto che ella ebbe il tempo di sospettare quel che le stava accadendo e di rendersene perfettamente conto quando sentì che le veniva meno il respiro: allora si precipitò al palazzo del governatore gridando che voleva giustizia, mettendo a rumore il popolo, dichiarando che doveva rivelare mostruosi delitti, finché il magistrato non decise di riceverla e di ascoltarla.
Aveva appena finito di riferire, dal principio alla fine e ad una ad una, tutte le atrocità di quella orribile donna, che la poverina fu colta da vertigine: le sue labbra, che volevano ancora parlare, si suggellarono, digrignò per un po' i denti, poi cadde esanime ai piedi del magistrato.
Uomo di molta esperienza costui, di fronte a così lunga serie di delitti, non volle differire con lungaggini procedurali la punizione di quella serpe velenosa: mandò a prelevare i servi della donna e, con la tortura, li costrinse a rivelare tutta la verità
Per quanto ella meritasse di peggio, non riuscendo a trovare una pena adeguata ai suoi crimini, egli sentenziò che fosse almeno esposta alle belve.

XXIX
Con una donna simile, dunque, io avrei dovuto accoppiarmi pubblicamente. Immaginate con che angoscia, con quale turbamento aspettavo il giorno della mia prestazione. Avrei voluto mille volte morire piuttosto che insozzarmi al contatto con quella scellerata e subire la vergogna di una pubblica rappresentazione.
Ma non avevo mani, non avevo dita, non potevo con il mio zoccolo rotondo e monco stringere una spada.
Mi consolava però nella mia disperazione un filo di speranza: la primavera, che timidamente tornava a rivestire ogni cosa di turgide gemme, a ricoprire i prati di smaglianti colori, anche le rose sarebbero rifiorite dal loro guscio spinoso e avrebbero sparso intorno il loro soave profumo, le rose che mi avrebbero fatto tornare il Lucio di un tempo.
Venne prima però il giorno della festa ed io fui condotto in gran pompa magna, fra un codazzo di popolo acclamante, fino alla cinta delle gradinate e dato che la prima parte dello spettacolo era dedicata alle danze e ai giuochi, mentre aspettavo davanti alla porta, mi misi a mordicchiare l'erbetta tenera che spuntava qua e là, proprio lì sull'ingresso e, di quando in quando, attraverso la porta aperta, ammiravo il bellissimo colpo d'occhio di tutto quello spettacolo.
Giovinetti e fanciulle nel fiore degli anni, tutti assai belli e splendidamente vestiti, avanzando con grazia, s'accingevano a danzare la pirrica alla maniera greca e, in file serrate, compivano eleganti evoluzioni, ora formando cerchi, ora disponendosi per linee oblique o ad angolo a formare un quadrato, ora dividendosi in due schiere. Ma quando uno squillo di tromba pose fine a tutte quelle giravolte e a quei complicati esercizi, le tende furono arrotolate, il sipario venne piegato e apparve la scena.

XXX
Si vedeva una montagna di legno, altissima, simile al famoso monte Ida cantato da Omero, ricoperta di piante vere, tutte belle verdeggianti; dalla cima, grazie all'abilità del macchinista, scaturiva una sorgente che versava le sue acque giù per le pendici, come un fiume; alcune capre brucavano l'erbetta e un giovane, che rappresentava Paride, il pastore frigio, le guardava, stupendamente vestito con un mantello di foggia orientale, che gli scendeva dalle spalle e una tiara d'oro sul capo.
Accanto a lui un fanciullo bellissimo e tutto nudo salvo che per la piccola clamide che gli copriva la spalla sinistra; erano uno stupore i suoi capelli biondi e da essi spuntavano due piccole ali d'oro, simmetriche, perfette: era Mercurio e portava la verga e il caduceo.
A piccoli passi di danza egli avanzò reggendo nella destra una mela d'oro che porse al giovane raffigurante Paride, indicando con un cenno l'incarico che gli aveva affidato Giove, poi con la stessa grazia si ritrasse e scomparve.
Apparve allora una fanciulla dai nobili lineamenti, che faceva la parte di Giunone; aveva, infatti, il capo coronato da un diadema scintillante e recava lo scettro. Poi entrò nella scena un'altra che non avresti potuto confondere: era Minerva e aveva un elmo scintillante in capo e sull'elmo una corona d'ulivo; imbracciava lo scudo e scuoteva la lancia simile in tutto alla dea quando scende in battaglia.

XXXI
Dietro di lei venne una terza: per lo splendore della sua bellezza, pel suo divino incarnato, rappresentava Venere, una Venere ancora fanciulla, che mostrava il bel corpo ignudo e la perfetta armonia delle sue forme: un leggero velo di seta appena adombrava il dolcissimo pube. Un vento birichino, scherzando amabilmente con quel velo, or vi soffiava dentro sollevandolo, sì da mostrare il fiore di quella adolescenza, ora, lascivo, lo faceva aderire a quel corpo perché meglio segnasse le voluttuose forme.
Due colori esaltavano la bellezza della dea: il candore del suo corpo, a dire che veniva dal cielo, l'azzurro di quel velo, come colei ch'era uscita dal mare.
Le tre fanciulle che raffiguravano le tre dee, avevano ciascuna il loro seguito: accompagnavano Giunone Castore e Polluce che portavano in capo elmi a forma di uovo, dai cimieri scintillanti di stelle, naturalmente, anch'essi giovani attori.
La fanciulla che impersonava questa dea si avanzò al suono modulato del flauto ionico e con gesti misurati, senza affettazione, con una mimica semplice, promise al pastore che se le avesse assegnato quel premio di bellezza ella gli avrebbe dato il dominio di tutta l'Asia.
L'altra, di tutto punto armata, e che quindi faceva la parte di Minerva, era scortata da due giovinetti, il Terrore e il Timore, i due scudieri della dea guerriera, che brandivano spade sguainate. Li seguiva un flautista che alla maniera dorica suonava un motivo di guerra e alternava suoni gravi a squilli acuti come di tromba per dare slancio maggiore all'agile danza.
Ella scuotendo il capo con gesti strani e concitati fece intendere a Paride che se avesse dato a lei la vittoria in quella gara di bellezza sarebbe diventato, col suo aiuto, un guerriero famoso per i molti trofei.

XXXII
Ma ecco finalmente Venere: s'avanzò circondata da uno sciame festoso di bimbi, tra gli applausi scroscianti del pubblico, e con un dolce sorriso venne a fermarsi proprio in mezzo alla scena.
Quei bimbetti paffuti, dalla pelle bianca come il latte, sembravano proprio amorini volati allora allora dal cielo o dal mare: con quelle loro alucce, infatti, con quelle piccole frecce e per tutto il resto corrispondevano perfettamente all'immagine vera e alla loro signora aprivano il cammino con fiaccole lucenti, come se ella dovesse recarsi a un banchetto di nozze.
Ed ecco sulla scena, spargendo fiori a ghirlande, fiori sciolti in onore di Venere, sciamare due leggiadre schiere di fanciulle, di quale Grazie amabili, di là le bellissime Ore, serrare in una danza vaghissima la regina del piacere e rallegrarla con i doni della primavera.
Allora i flauti dai molti fori cominciarono a suonare le dolci melodie della Lidia e a quel suono, che rapì l'animo degli spettatori, Venere cominciò ad accennare un passo di danza, prima esitante, lentissimo, poi, lievemente oscillando sul busto e appena accennando col capo, ad accompagnare con gesti voluttuosi quella musica dolce; le sue pupille ora si socchiudevano languide, ora brillavano fiere ed era talvolta una danza di sguardi.
Quando ella giunse dinanzi al suo giudice non altro che con la danza delle sue braccia parve promettere a Paride una sposa bellissima, del tutto simile a lei, se egli l'avesse preferita alle altre dee.
E così il giovane frigio, consegnò volentieri, a lei, in segno di vittoria, la mela d'oro che teneva nella mano.

XXXIII
E allora perché meravigliarvi, gente spregevole, anzi pecoroni del Foro o meglio avvoltoi in toga se oggi giorno tutti i giudici contrattano le loro sentenze a denaro sonante, quando fin dal principio del mondo la corruzione è riuscita a falsare un giudizio cui erano interessati uomini e dei e un rozzo pastore scelto come giudice dalla saggezza del sommo Giove, in cambio di un piacere amoroso, vendette la prima sentenza della storia, causando anche la rovina di tutta la sua stirpe?
Ma perdio la cosa si ripeté; in quel giudizio per esempio pronunciato da famosi guerrieri greci, quando Palamede sotto false accuse fu condannato per tradimento, il più dotto fra tutti, il più saggio, o quell'altro ancora, quando al grandissimo Aiace, incomparabile in guerra, fu preferito il mediocre Ulisse?
E che sentenza fu quella pronunciata dagli Ateniesi, i legislatori per eccellenza, i maestri d'ogni scienza? Con la frode e l'invidia una sporca cricca accusò un vecchio di straordinaria saggezza, che il dio di Delfi aveva anteposto per senno a tutti i mortali, di corrompere la gioventù, lui che cercava, invece, di tenerla a freno e lo fece morire col succo di un'erba velenosa, a incancellabile infamia per tutti i suoi concittadini. E oggi i più illustri filosofi ti seguono la sua dottrina come la più vera, e nella continua ricerca del bene giurano sul suo nome.
Ma lasciamo andare. Non vorrei che qualcuno trovando da ridire per questo mio sfogo, pensasse: "Ma guarda un po' che cosa ci tocca sopportare adesso: un asino che filosofeggia." Perciò è meglio ch'io torni al mio racconto, là dove l'ho lasciato.

XXXIV
Dunque, terminato il giudizio di Paride, Giunone e Minerva, deluse entrambe e indispettite, uscirono dalla scena, manifestando a gesti il loro disappunto per l'umiliazione subita; Venere, invece, giuliva e sorridente espresse nella danza la sua gioia, ch'ella eseguì con tutto il suo corteggio.
A un tratto, dalla cima del monte, attraverso un tubo nascosto sprizzò in alto un getto di vino misto a zafferano che ricadendo qua e là come una pioggia profumata, bagnò le capre che pascolavano lì intorno facendole più belle, tutte d'oro, da bianche che erano. E mentre il profumo soave si spandeva per tutto il teatro, s'aprì una voragine e il monte di legno sprofondò sotto terra.
Allora il popolo cominciò a reclamare che fosse portata dal pubblico carcere la donna che, come dissi, per i suoi molti crimini, era stata condannata alle belve, ma che prima avrebbe dovuto accoppiarsi con me in un amplesso fuori del comune; e mentre un soldato, traversando di corsa il teatro, andava a prelevarla, già veniva allestito il letto con molta cura, il nostro letto nuziale, a intarsi lucenti di tartaruga orientale, tutto cuscini di piume e coperto di un ricco drappo di seta.
Quanto a me, però, oltre alla vergogna di dovermi produrre in pubblico, alla ripugnanza che mi suscitava quella scellerata e ignobile femmina, ero angosciato dal timore che avrei fatto anch'io una brutta fine: "E se, putacaso," andavo almanaccando, "proprio mentre noi siamo attaccati, a qualcuno venisse il ghiribizzo di mandar dentro una belva per far fuori la donna, mica quella sarà tanto intelligente e così bene ammaestrata o con tanto poco appetito da sbranare la donna distesa al mio fianco e risparmiare me, solo per il fatto che non ho subito condanne e sono innocente."

XXXV
Così, a dire il vero, ero preoccupato non più tanto per il pudore quanto per la mia pelle.
E mentre il mio istruttore era tutto intento a prepararmi il letto e gli altri servi o indaffarati nei preparativi della caccia, o già mezzo imbambolati a godersi quella stuzzicante messinscena, io ebbi tutto il tempo di fare le mie riflessioni e poiché a nessuno passava per il capo di dover fare la guardia a un asino così buonino, pian pianino, un passetto alla volta, mi avvicinai alla porta più vicina e, quando ci fui, via di corsa, fuori, a rompicollo.
Sei miglia buone feci, tutte di volata, e giunsi a Cencrea, una delle più nobili colonie dei Corinzi, bagnata dal mar Egeo e dal Saronico, con un porto che è un ottimo rifugio per le navi, sempre pieno di gente. Io però evitai la folla, trovai un posticino appartato sulla spiaggia, una cunetta di morbida sabbia, proprio vicino alla riva, dove l'onda si frange e, stanco com'ero, mi distesi per riposare. Il carro del sole piegava ormai verso l'ultimo confine del giorno ed io mi abbandonai alla placida quiete della sera e un dolce sonno mi vinse.