Biblioteca:Apuleio, Le Metamorfosi, Libro IX

I
Così quell'infame carnefice armava contro di me l'empia sua mano. Ma di fronte a un pericolo simile che non ammetteva esitazioni, senza star lì a pensarci due volte, decisi di sfuggire al macello dandomi alla fuga e, spezzata con uno strattone la fune cui ero legato, sparando calci e sgroppando per aprirmi un varco verso la salvezza, schizzai via con tutta la velocità delle mie gambe.
Attraversato come un fulmine il portico, piombai nella sala dove il padrone stava celebrando il banchetto rituale insieme con i sacerdoti della dea e nel mio slancio fracassai tutto, buttai all'aria stoviglie, lampade, la stessa mensa già bell'e imbandita.
A tutto quel disastro il padrone agitatissimo, gridò a un servo di mettermi al sicuro in modo che non potessi più turbare la serenità del banchetto, dal momento che mi ero rivelato una bestia così bizzarra e insolente.
Ma intanto io con la mia furba pensata l'avevo fatta franca, ero sfuggito alle mani di quel macellaio e anzi ero tutto contento di finire al chiuso sotto custodia perché questo significava la mia salvezza.
Ma è inutile, non c'è niente che vada per il verso giusto a chi è nato sotto cattiva stella, e non c'è saggia decisione, non c'è accorgimento per quanto geniale che possa mutare o spostare d'un filino i disegni della provvidenza divina.
Tant'è vero che quella stessa trovata che al momento sembrava avermi ridato la vita, proprio quella, mi cacciò in un nuovo pericolo, anzi addirittura in un guaio ancora più grave, a tu per tu con la morte.

II
Infatti, all'improvviso, mentre i commensali se ne stavano pacifici a chiacchierare, si precipitò in sala un ragazzetto con la faccia terrea dallo spavento e annunciò al suo padrone che, pochi momenti prima, da un vicolo vicino, una cagna rabbiosa, tutt'a un tratto, era entrata in casa, come una furia, per la porta di servizio, e s'era prima avventata contro i cani da caccia, poi aveva preso la via della stalla e qui, con la stessa ferocia, aveva assalito parecchi giumenti e, per ultimo, non aveva risparmiato nemmeno gli uomini Mirtilo il mulattiere, il cuoco Efestione, il cameriere Ipatafio, il medico Apollonio e molti altri schiavi, che avevano tentato di scacciarla, s'eran beccati infatti anche loro diverse zannate e molte bestie, si vede contagiate da quei morsi avvelenati, davan segni d'aver presa anch'essi la rabbia.
Il fatto spaventò moltissimo tutti, i quali subito arguirono dalle mie bizze di prima che anch'io fossi stato colto dal contagio e così afferrarono ogni sorta di armi ed incoraggiandosi l'un con l'altro ad allontanare il comune pericolo, si misero a corrermi dietro, quando erano proprio loro che sembravano sconvolti dal contagio della pazzia. Con tutte quelle lance, quegli spiedi e quelle scuri finanche, di cui i servi premurosamente li avevano riforniti, mi avrebbero senza dubbio ucciso se, resomi conto della tempesta che mi s'era scaricata addosso, io non mi fossi rifugiato nella camera dove erano stati ospitati i miei padroni.
Quelli allora chiusero e sprangarono la porta alle mie spalle e si posero di guardia, tranquillamente aspettando, senza alcun pericolo di contagio per loro, che quel mortale, inesorabile male che mi s'era attaccato addosso; lentamente mi consumasse e m'uccidesse.
Così fu ch'io riacquistai la libertà e cogliendo l'occasione propizia d'esser rimasto finalmente solo, mi buttai lungo sul letto già sprimacciato e dopo tanto tempo potetti dormire come un uomo.

III
Mi svegliai ch'era giorno fatto ben riposato della stanchezza grazie a quel morbido letto e rimesso completamente in forze.
Tesi le orecchie e sentii che quelli che avevan vegliato a turno tutta la notte per farmi la guardia stavano parlando di me:
"Chissà se quel povero asino è ancora in preda ai suoi furori?"
"Io credo invece che il veleno giunto al massimo della violenza l'ha già ammazzato."
Finalmente per troncarla con tutte quelle ipotesi decisero di dare una sbirciatina all'interno e così, da una fessura, videro che io ero sano e salvo e che me ne stavo lì pacifico.
Allora spalancarono la porta per meglio assicurarsi ch'io mi fossi veramente ammansito e uno di loro, inviato certamente dal cielo in mio soccorso, suggerì agli altri: "Facciamo questa prova, se vogliamo sapere sicuramente come sta: mettiamogli davanti un recipiente colmo d'acqua fresca; se beve tranquillamente come al solito vuol dire che è guarito e non ha più niente, se invece la rifiuta, se se ne allontana e ne ha ripugnanza, allora sicuramente ha ancora la rabbia e di quelle maligne. Questa," aggiunse; "è la prova che si è soliti fare, riportata anche nei libri degli antichi."

IV
L'idea piacque e, così, corsero subito a riempire a una fontana lì vicino una gran tinozza d'acqua fresca e non senza una certa diffidenza me la misero davanti. Io, con tutta quella sete che avevo, senza esitare, mi feci sotto e immergendovi tutto il capo bevvi quell'acqua veramente ristoratrice. Poi cominciarono a darmi delle pacche, a piegarmi le orecchie, a tirarmi per la cavezza, insomma a sottopormi a non so che altre prove che io sopportai docilmente finché convinsi tutti, a dispetto delle loro sciocche supposizioni, che effettivamente ero mansueto.
Così fu che io scampai a un doppio pericolo.
Il giorno dopo, di nuovo col mio sacro carico sulla schiena, fui risospinto per le strade a far l'accattone ambulante al suono dei crotali e dei cembali.
Dopo aver toccati parecchi cascinali e villaggi ci fermammo a un paese venuto su fra le rovine di una città un tempo ricca, come ci dissero i suoi abitanti, e nella locanda dove prendemmo alloggio, ci fu riferita la storiella spassosa di un povero gramo fatto cornuto che ora voglio raccontare anche a voi.

V
Dunque, quest'uomo che lavorava da fabbro faceva la miseria nera e, con quel che guadagnava, appena appena riusciva a vivere. Anche sua moglie, come lui, non aveva il becco d'un quattrino ma, in compenso, era libidinosa al massimo, e tutti lo sapevano.
Un giorno, di buon'ora, appena il marito se ne uscì per andare al lavoro, subito un amante, con estrema sfacciataggine, s'infilò in casa. Ma ecco che mentre i due s'azzuffavano alla bell'e meglio sul letto, l'ignaro marito, senza sospettare di nulla, tornò sui suoi passi e, trovando la porta chiusa e sprangata, fra sé compiacendosi dell'onestà della moglie, picchiò all'uscio e le dette anche un fischio per farsi riconoscere.
La moglie, furba e pratica in imbrogli di questo genere, si staccò dall'uomo che teneva stretto fra le braccia e, come se niente fosse, lo nascose in una botte vuota, seminterrata in un angolo; poi, aperta la porta, aggredì il marito che ancora nemmeno era entrato: "Ah, è così? Ora mi vai anche a spasso, con le mani in tasca, come uno sfaccendato, buono a nulla. Perché non sei andato a lavorare? Alla famiglia non ci pensi, no? Cos'è che mangeremo oggi? E io, disgraziata, che me ne sto notte e giorno a rompermi le braccia filando lana perché in questa stanzetta almeno ci sia accesa la lampada. Guarda Dafne, quella qui vicino invece, com'è più fortunata di me: mangia e beve da prima mattina e si rivoltola ora con uno ora con un altro."

VI
E il marito, dopo una simile strapazzata: "Ma che ti prende?" le fece. "Il padrone aveva una causa in tribunale e ci ha fatto far festa. Però io ci ho pensato lo stesso alla nostra cenetta. La vedi quella botte?: sempre vuota, occupa tanto spazio per nulla, anzi sempre lì tra i piedi è più un impiccio che altro in casa. Ebbene, l'ho venduta a un tale per sei denari; tra poco sarà qui con i quattrini e se la porterà via. Perciò dammi una mano a tirarla fuori, così gliela consegneremo subito."
La moglie, pronta anche in una situazione come questa, scoppiò in una risata insolente e: "Ma che gran d'uomo che è mio marito; ha proprio il bernoccolo degli affari: mi va a vendere a un prezzo inferiore della roba che io, povera donna, sempre chiusa in casa, ho già venduto per sette denari."
"E chi te l'ha comprata a così tanto?" fece lui tutto contento di quell'aumento di prezzo.
E lei: "Ah scemo! È già da un po' ch'è lì dentro, per vedere se è sana!"

VII
Dal canto suo l'amante non fu da meno della donna e, spuntando fuori: "Vuoi sapere la verità, buona donna?" le fece. "Questa tua botte è troppo vecchia e sgangherata. Ha certe crepe che paion fessure," e rivolgendosi come se nulla fosse al marito: "E tu buon uomo, chiunque sia, fammi il favore di darmi una lanterna; voglio toglierci tutto lo sporco per vedere se può ancora servire. Non crederai mica che io li vada a rubare i miei soldi!"
E quell'intelligentone, quella perla rara di marito, tutto premuroso senza sospettare di nulla, acceso il lume: "Tirati su di lì, amico mio, e stattene quieto e comodo. Ci penserò io a farlo e te la mostrerò quand'è pulita." E così dicendo, toltisi gli abiti, si calò dentro con il lume e cominciò a raschiare tutta la gromma che con il tempo s'era formata in quella vecchia giara.
Dal canto suo l'amante, un pezzo di ragazzo, si lavorava di gusto, dal di dietro, la moglie del fabbro che se ne stava appoggiata e curva sulla giara e che anzi, da vera puttana, sporgendo il capo all'interno, si prendeva gioco del marito dicendogli: "Pulisci qui, c'è ancora sporco lì, e qua e là," finché portato a termine ciascuno il suo lavoro, e avuti i suoi sette denari, quel disgraziato fabbro fu costretto a caricarsi in spalla la giara e a portarla fino a casa del suo rivale.

VIII
Quei santissimi sacerdoti si trattennero lì un po' di giorni e benché fossero ingrassati generosamente dalla pubblica munificenza e ricavassero lauti proventi con le loro profezie, ti escogitarono un nuovo sistema per far quattrini. Inventarono un unico responso che andava bene per un gran numero di casi e così riuscirono a gabbare un sacco di gente che li consultava sulle questioni più svariate. Il responso diceva così:
Perché liete domani germoglino le messi arano i buoi la terra al giogo sottomessi.
Così, se uno, per caso, voleva combinare un matrimonio e veniva a chiedere il loro responso, quelli dicevano che l'oracolo era chiarissimo: occorreva mettersi sotto il giogo del matrimonio per avere una messe di figlioli; se veniva un tizio che voleva comprare un terreno, i buoi, i1 giogo; i campi seminati e le messi verdeggianti cadevano proprio a proposito; se poi un altro, preoccupato per un viaggio, veniva a chiedere il parere della dea, ecco che gli si indicavano i buoi, già belli e pronti e aggiogati, i più mansueti fra tutti gli animali, mentre le messi stavano a significare che avrebbe fatto ottimi affari; se infine un tale doveva partire per la guerra o inseguire una banda di briganti e veniva a chiedere se l'impresa si sarebbe favorevolmente conclusa, affermavano che il responso garantiva la vittoria in quanto i nemici avrebbero chinata la testa sotto il giogo e dal saccheggio si sarebbe ricavato un bottino ricco e abbondante.
Così, con questo sistema truffaldino della profezia, quelli riuscirono a intascare non pochi quattrini.

IX
Ma con tutte quelle continue richieste, a un certo punto, non seppero più trovare argomenti validi e allora, di nuovo, dovettero rimettersi in viaggio, per una strada, però, la peggiore di quante ne avevamo per corse di notte. Certo! tutta buche e crepacci, in certi punti sommersa dall'acqua stagnante, in altri sdrucciolevole per la fanghiglia.
Finalmente con le zampe tutte contuse per le continue inciampate e i numerosi scivoloni, stanco morto, riuscii a raggiungere un sentiero di campagna.
Ma ecco che, improvvisamente, ci piombò alle spalle una schiera di cavalieri armati che, trattenendo a stento la foga dei loro cavalli, si gettarono su Filebo e soci e afferratili per la collottola, cominciarono a chiamarli spudorati e sacrileghi, prendendoli di quando in quando a pugni e a calci. Alla fine li ammanettarono tutti pretendendo che tirassero fuori una coppa d'oro, il frutto del loro misfatto, dicevano, che avevano rubata proprio dall'altare della madre degli dei, quando avevano finto di celebrare in segreto un rito solenne, per poi svignarsela dalla città alla chetichella che ancora non era giorno, sperando così di farla franca, come se fosse possibile dopo un simile sacrilegio.

X
Uno mi mise le mani addosso e frugando ben bene nella veste della stessa dea, tirò fuori, davanti a tutti, la coppa d'oro.
Ma nemmeno dinanzi all'evidenza della loro empietà quegli svergognati si intimorirono o provaron vergogna, anzi con un risolino di circostanza se ne uscirono con una battuta: "Ma guardate che infamia! Succede sempre così: a rimetterci sono le persone per bene. Per un piccolo calicino che la madre degli dei ha offerto a sua sorella Siria come dono d'ospitalità, ecco che si trattano i ministri del culto come dei malfattori e li si accusa di delitto capitale!"
Ma inutilmente essi continuarono a ripetere panzane di questo genere: gli abitanti del paese se li trascinarono dietro, e, ben legati, li gettarono in carcere. Poi riconsacrarono la coppa e anche la statua che trasportavo e le restituirono al tesoro del tempio; il giorno dopo mi presero e mi portarono al mercato dove mi vendettero all'asta.
Mi comperò il mugnaio del vicino villaggio, pagando sette sesterzi in più di quelli che aveva sborsati Filebo e poiché aveva acquistato anche del grano, quello subito mi caricò a dovere e per una strada tutta sassi e sterpi mi spinse fino al suo mulino.

XI
Lì c'erano molti animali da tiro che, girando sempre torno torno, muovevano delle macine di varia grandezza. E non soltanto di giorno ma anche di notte, ininterrottamente, facevano girare quegli ordigni e la loro veglia produceva farina.
A me, però, il nuovo padrone, per non farmi spaventare, cosi, subito, all'inizio, di quel genere di lavoro, generosamente mi dette un comodo giaciglio e, anzi, per quel primo giorno, mi fece far vacanza lasciandomi davanti a una mangiatoia stracolma.
Ma l'ozio beato e le belle mangiate non durarono a lungo perché il giorno dopo, di prima mattina, m'attaccò a una macina che mi parve enorme e, bendatimi gli occhi, mi spinse lungo un solco circolare in modo che io, camminando sempre dentro quel cerchio, fossi obbligato a passare e a ripassare sui miei stessi passi e a rifare continuamente lo stesso giro.
Ma io che non avevo ancora perduto la mia furbizia la mia perspicacia, non mi assoggettai tanto facilmente a un servizio di quel genere e, benché avessi già veduto altre volte girare simili arnesi quand'ero uomo, me ne rimasi lì fermo immobile fingendo di essere confuso e di non saperne nulla di quel lavoro.
Credevo, infatti, che mostrandomi incapace o non adatto a quel mestiere, sarei stato impiegato per qualche lavoro più leggero o meglio ancora sarei rimasto lì senza far niente, a mangiare a sbafo.
Idea sprecata, anzi a mio discapito quando la misi in pratica perché subito mi piombarono addosso in parecchi, armati di bastoni, e mentre me ne stavo lì fiducioso, con gli occhi bendati, a un segnale convenuto e cacciando un urlo tutti insieme, mi dettero tale un fracco di legnate da spaventarmi al punto che io, lasciati perdere tutti i miei calcoli, mi misi a tirare la corda di sparto e a fare molto opportunamente e alla svelta i miei bravi giri.
Questo mio repentino ravvedimento fece ridere tutta la compagnia.

XII
Era trascorsa quasi l'intera giornata ed io ero stanco morto quando quelli mi staccarono dalla macchina e mi legarono alla mangiatoia.
Ma benché fossi sfinito e affamato, benché avessi proprio estremo bisogno di mangiare per ritemprare le forze, preso dalla mia solita curiosità che mi rendeva addirittura ansioso, lasciai perdere il cibo, a dir la verità abbondante, e mi misi a osservare con interesse come funzionava quell'odiosa baracca.
Santi numi! Com'eran ridotti lì dentro quegli uomini: avevano la pelle tutta a chiazze livide, le spalle piagate e, sopra, soltanto l'ombra di un cencio che non le copriva neppure; anzi taluni avevano un pezzo di straccio soltanto all'inguine; insomma tutti, per quei poveri panni che portavano, era come se fossero nudi. Avevano un marchio inciso sulla fronte, i capelli rasati e anelli ai piedi, erano sfigurati dal pallore e con le palpebre bruciate dal nerofumo e dal denso vapore che li aveva resi quasi ciechi; come i pugili che quando combattono si spargono il corpo di sabbia fine, così quelli erano tutti bianchi e sporchi di polvere di farina.

XIII
E che dire poi degli animali, dei miei compagni? Che muli decrepiti e che ronzini cadenti! Eran tutti là con il muso affondato nella mangiatoia a masticare montagne di paglia, il collo pieno di piaghe infette, le narici cascanti e fiaccate da incessanti colpi di tosse, il petto ulcerato per il continuo sfregare della corda di sparto, le costole messe a nudo dalle molte bastonature, gli zoccoli larghi e piatti per l'ininterrotto girare, la pelle, infine, rinsecchita e coperta di croste.
Allo spettacolo miserando di quei miei compagni temetti proprio per me e ripensando alla fortuna di quand'ero Lucio, ora che mi vedevo precipitato nel fondo della sventura, chinai il capo e piansi.
Nessun conforto in questa vita di tormenti se non quello di poter soddisfare la mia innata curiosità dal momento che, non dando alcun peso alla mia presenza, ognuno parlava e agiva liberamente.
Aveva, infatti, ragione il divino creatore dell'antica poesia greca quando volendo descrivere un uomo di somma saggezza cantò che costui aveva acquistato tutte le virtù visitando città e conoscendo i costumi di molte genti.

XIV
Anch'io, del resto, conservo un ricordo riconoscente dell'asino che fui perché, nascosto sotto quelle spoglie, affrontai le situazioni più diverse e, se non più saggio, divenni almeno esperto delle cose del mondo.
Ma via, ora ho deciso di raccontarvi una storiella proprio graziosa, la più simpatica e divertente di tutte.
Il mugnaio che mi aveva comprato e che era, in fondo, un brav'uomo, una persona veramente a modo, guarda caso aveva sposato una pessima donna, la peggiore di tutte e, quindi, a casa sua, c'erano sempre guai a non finire, al punto che perfino io, tra me stesso, lo compiangevo. Non c'era un vizio che non avesse quella detestabile donna, era come una sporca latrina che raccoglieva tutte le peggiori sozzure: perfida e stupida, sporcacciona e ubriacona, tarda e testarda, desiderosa di possedere la roba d'altri, pronta a spendere per cose turpi, nemica di ogni fede e di ogni pudore. Disprezzava e offendeva le sante divinità e invece della vera religione fingeva di seguire il culto sacrilego di un dio che ella proclamava unico e con riti senza costrutto, che si inventava, ingannava tutti e si faceva beffe del povero marito, ubriaca com'era fin dal mattino, disposta a cedere a tutti il suo corpo.

XV
Ebbene costei mi odiava ed era la mia persecuzione.
Infatti cominciava a gridare che mettessero alla macina l'asino novizio, fin dal letto, che non era ancora spuntato il sole e appena usciva dalla stanza mi si piantava davanti e ordinava che mi si desse una buona dose di legnate; quando poi per l'ora del pasto gli altri animali venivano staccati, disponeva che io fossi portato alla greppia molto più tardi.
Questa sua malvagità aveva accresciuto la mia naturale curiosità di indagare un po' nelle sue abitudini.
Io già m'ero accorto che un giovanotto, spesso e volentieri, s'infilava nella sua camera, ma ora ero proprio curioso di vedere che aspetto avesse: bastava che la benda stretta attorno al capo mi avesse lasciati almeno per un attimo liberi gli occhi, dal momento che non mi mancava davvero l'accortezza di scoprire le infamie di quella detestabile femmina.
Intanto c'era una vecchia che le stava tutto il giorno appresso, una che le procurava i clienti e le portava le ambasciate.
Era con questa che quella femmina, fin dal mattino, a colazione, cominciava a bere, di quello schietto e, giù il primo, giù il secondo, finivano col macchinare con un'astuzia feroce, i loro perfidi imbrogli ai danni del povero marito.
C'è da premettere che io, quantunque ce l'avessi con Fotide perché invece di farmi diventare uccello mi aveva fatto asino, pur tuttavia in questa mia disgraziata metamorfosi una consolazione almeno ce l'avevo: quella cioè d'avere delle orecchie grandissime, grazie alle quali potevo facilmente udire tutto anche a una certa distanza.

XVI
E così un bel giorno, finalmente, arrivò alle mie orecchie questo discorsetto:
"Padrona mia," diceva quella brava vecchina, "vedi un po' tu come metterla con questo che ti sei voluto prendere senza sentire il mio parere. È un cascamorto, tutto timido timido, che se quell'odioso antipatico di tuo marito aggrotta appena le sopracciglia, lui si mette tutto a tremare; e poi, moscio moscio com'è, quando fa all'amore, per te è un vero supplizio, che invece sei tutta un fuoco. Filesitero è molto meglio, giovane, bello, sempre disponibile, un fusto, che mica si tira in dietro di fronte alle ingenue precauzioni dei mariti, l'unico, perdio, a meritarsi i favori di tutte le donne, il solo degno di portare una corona d'oro, non foss'altro per il tiro che ha giocato a un marito geloso, un tiro da maestro, più unico che raro. Sta' a sentire e poi fa il paragone e di' se anche tra gli amanti non è tutta questione di stile.

XVII
"Conosci, no? Barbaro, il decurione della nostra città che tutti chiamano Scorpione per il suo carattere scontroso; ebbene, costui teneva sua moglie sotto chiave, addirittura guardata a vista, una donna bellissima e anche di buona famiglia."
"Sì che la conosco, e anche bene," fece la moglie del mugnaio. "Parli di Arete, no? È stata mia compagna di scuola."
"Allora," riprese la vecchia, "conoscerai anche tutta la sua storia con Filesitero?"
"Assolutamente no. Ma racconta, ti prego. Dai, vecchia mia, che voglio sapere tutto per filo e per segno."
E allora quella vecchia chiacchierona e incorreggibile, senza aspettare oltre cominciò:
"Dunque, Barbaro dovendo assolutamente partire e volendo garantirsi, al cento per cento, che la cara moglie si mantenesse onesta, chiamò a quattr'occhi un suo giovane schiavo di nome Mirmece, fidatissimo, e gli dette l'incarico di sorvegliare col massimo scrupolo la moglie, minacciandolo di chiuderlo in carcere e di lasciarvelo per tutta la vita, di farlo lentamente morire di fame, soltanto che un uomo, anche solo passandole accanto, l'avesse sfiorata con un dito e confermò queste minacce giurando su tutti gli dei.
"E così lasciando Mirmece spaventatissimo e perciò zelantissimo guardiano della moglie, Barbaro partì tranquillo.
"Da allora il povero Mirmece visse sempre sul chi va là, non lasciava mai uscir la sua padrona, le stava sempre seduto accanto, anche quando ella filava e quando, la sera, doveva uscire per forza per recarsi al bagno, lui le si attaccava al fianco, addirittura le si incollava addosso prendendole con una mano il lembo della veste ed espletando, così, con uno zelo più unico che raro l'incarico che gli era stato affidato.

XVIII
"Ma la venustà della signora non poteva passare inosservata all'occhio sempre vigile di Filesitero; anzi fu proprio la castità per la quale lei era tanto celebrata e la stretta sorveglianza cui era sottoposta, che infiammarono ed eccitarono il giovanotto il quale, risoluto a tutto osare e ad affrontare qualsiasi rischio, si accinse con tutte le sue forze ad allentare la rigorosa consegna che vigeva in quella casa.
"Ben sapendo come fragile sia la fede umana e come con il denaro si superano tutte le difficoltà, che perfino le porte d'acciaio crollano davanti alla potenza dell'oro, Filesitero scelse il momento in cui Mirmece era solo per confidargli la sua passione amorosa e implorarlo che si sarebbe data la morte, di sicuro, se quella donna non fosse stata sua, e anche subito. Aggiunse che non c'era nulla da temere per una cosetta così facile, perché egli sarebbe venuto solo, di sera, e ben protetto e nascosto dalle tenebre, sarebbe scivolato dentro in camera per uscirne dopo un po', garantito.
"A questi e ad altri argomenti, già validi di per sé, ne aggiunse un altro, il più persuasivo, che avrebbe fatto a pezzi l'ostinata intransigenza del servo: fece balenare nella sua mano tesa alcune monete d'oro zecchino, nuove fiammanti, venti delle quali, disse, per la signora e dieci, di tutto cuore, per lui.

XIX
"Mirmece inorridì di fronte a una simile inaudita scelleratezza e fuggì tappandosi le orecchie.
"Ma egli non poteva cancellare dai suoi occhi lo splendore di quelle monete fiammanti e per quanto fosse ormai lontano da Filesitero e, a passo svelto, fosse già rientrato in casa, vedeva sempre il luccichio di quelle belle monete, già gli sembrava di stringere nella mano quel ricco tesoro.
"L'animo di quel poveretto ondeggiava fra contrastanti pensieri ed era combattuto e diviso da differenti considerazioni: da una parte la parola data, dall'altra il guadagno; di qui la minaccia del supplizio, di lì tutto quell'oro. E l'oro alla fine vinse la paura della morte. Il desiderio di avere quelle belle monete non gli dava tregua, la bramosia, come una febbre, tormentava perfino le sue notti e se le minacce del padrone lo trattenevano in casa, la tentazione dell'oro lo invitava ad uscire.
"Alla fine, scacciato ogni senso di pudore e rotti gli indugi, portò l'ambasciata alla padrona. La donna, da parte sua, non smentì la naturale frivolezza del suo sesso e di fronte all'esecrando metallo non esitò a vendere il suo onore.
"Così Mirmece, che per la gioia non stava più nella pelle, si precipitò a mandare del tutto in malora la sua onestà, bramoso non dico di avere quel denaro che per sua disgrazia aveva intravisto, ma almeno di toccarlo, e tutto raggiante, annunziò a Filesitero che grazie alle proprie pressanti insistenze il suo desiderio era stato accolto e, quindi, chiese il compenso pattuito.
"E così la mano di Mirmece, che non aveva mai toccato nemmeno un soldino di rame, ora strinse le belle monete d'oro.

XX
"Venuta la notte il servo guidò fino alla casa l'audace spasimante, tutto solo e col volto ben nascosto, e lo introdusse nella camera della padrona.
"Stavano appunto godendosi la novità dei primi amplessi, bruciando le prime offerte a quell'amore appena sbocciato e, nudi, come bravi soldati di Venere, erano alle prime schermaglie, quando, all'improvviso, senza che nessuno se l'aspettasse, il marito, approfittando della notte per ritornare, si presentò alla porta di casa. Cominciò a bussare, a chiamare, a gettar sassi e, sempre più insospettito di quel ritardo, a minacciare Mirmece delle più atroci torture.
"Costui, tutto sconvolto da quel disastro improvviso e non sapendo più che fare nella sua angoscia, tirò in ballo il buio - ed era la sola scusa che potesse inventare - e che perciò - diceva - non riusciva a trovare la chiave che aveva così bene nascosta.
"Frattanto Filesitero a sentire tutto quel baccano, in un baleno, si buttò addosso la tunica ma per la furia si precipitò fuori della camera scalzo.
"Allora, finalmente, Mirmece infilò la chiave nella serratura, aprì la porta e fece entrare il padrone che urlando e sacramentando, corse difilato nella camera della moglie, poi, di soppiatto, lasciò uscire Filesitero e appena questi varcò la soglia e fu salvo, richiuse la porta e se ne tornò a dormire.

XXI
"Ma al mattino Barbaro, ciabattando per la camera, vide sotto il letto un paio di sandali che non aveva mai visti, quelli, appunto, che aveva Filesitero quando s'era intrufolato dentro.
"La cosa gli fece subito sospettare quel ch'era successo, ma senza mostrare ad alcuno il suo cruccio, né alla moglie, né ai servi, prese quei sandali e se li nascose in seno, limitandosi a ordinare agli altri servi di prendere Mirmece e trascinarlo in catene sulla pubblica piazza.
"Lui stesso vi si diresse a rapidi passi, ruggendo in cuor suo, sicuro che con l'indizio dei sandali gli sarebbe stato facile pescare l'adultero.
"E così Barbaro avanti, rosso in viso per la rabbia, la fronte aggrottata, Mirmece dietro, carico di catene, giunsero in piazza;
"Quest'ultimo, benché non fosse stato colto sul fatto, per la coscienza sporca, era lì che piangeva come una fontana, suscitando coi suoi lamenti disperati l'inutile pietà della gente.
"Ma eccoti lì Filesitero, proprio nel momento giusto, che pur dovendo sbrigare tutt'altra faccenda, colpito da quella scena ma non certo intimorito, ricordando quale imperdonabile distrazione la fretta gli avesse fatto commettere e immaginando tutte le conseguenze che ne erano derivate, con quella presenza di spirito e quella risolutezza che gli erano proprie, fattosi largo tra i servi, si gettò urlando su Mirmece, riempiendogli la faccia di pugni, non troppo forti però:
"'Ehi, tu, furfante e spergiuro,' gli gridava, 'che ti possano far crepare come meriti, il tuo padrone e tutti gli dei del cielo che tiri sempre in ballo nei tuoi falsi giuramenti. Sei tu che ieri al bagno mi hai rubato i sandali. Te le meriti proprio queste catene, perdio, che ti si possano consumare addosso e tu finire sprofondato in un carcere.'
"Una trovata migliore di questa l'intraprendente giovanotto non poteva inventarla. Infatti Barbaro si sentì subito sollevato e ci credette ciecamente.
"Tornò subito a casa, chiamò Mirmece, gli diede i sandali, lo perdonò con tutto il cuore e lo esortò a restituirli a chi li aveva rubati."

XXII
La vecchia stava continuando a parlare, che la moglie del mugnaio intervenne: "Beata lei che si gode liberamente un amico che sa il fatto suo. A me, invece, poveretta, è capitato uno che ha paura anche del rumore della macina e perfino del muso di quell'asino rognoso."
"Non ci pensare," la consolò la vecchia, "a quell'amante focoso ci parlerò io e lo convincerò e vedrai che te lo porto qui." E promessole che sarebbe tornata la sera, se ne andò.
Intanto quella sposa vereconda si mise a preparare un pranzetto degno dei Salii, spillò vini pregiati, fece un intingoletto di carni fresche e insaccate, imbandì sontuosamente la tavola e aspettò l'amante come se dovesse venire un dio.
Manco a farlo apposta, poi, il marito, quella sera era a cena fuori da un vicino che faceva il tintore.
Quando alla sera io fui staccato dalla macina e posto alla greppia per riprendere le forze, non tanto mi rallegrai di aver chiuso per quel giorno con il lavoro, quanto di poter comodamente osservare, a occhi aperti, tutti i traffici di quella donnaccia.
E quando il sole sprofondò nell'oceano a illuminare le opposte regioni della terra, ecco venire la vecchia megera e al suo fianco il temerario amante, un ragazzo dalle guance ancora lisce, che poteva egli stesso ancora piacere agli uomini.
La donna lo accolse e se lo baciò a lungo, poi lo invitò a sedersi alla mensa imbandita.

XXIII
Ma il ragazzo aveva appena assaggiato in punta di labbra il vino che rientrò il marito molto prima del previsto. La buona moglie sacramentando e mandandogli le peggiori maledizioni, nonché l'augurio di fracassarsi le gambe, corse a nascondere il giovane, tutto tremante e morto di paura, sotto un recipiente di legno nel quale venivano conservate le granaglie prima della cernita e che per caso si trovava a portata di mano poi, dissimulando quell'infamia con l'astuzia che le era propria e assumendo un atteggiamento disinvolto, chiese al marito come mai avesse rinunziato alla cena di quel suo caro amico e perché fosse ritornato a casa così presto.
"Son venuto via di corsa," le fece lui sospirando e con un'espressione desolata, "perché non ne potevo più della condotta sfacciata di quella scellerata di sua moglie. Santi numi, come è possibile! Una madre di famiglia come lei, così onesta e virtuosa, andarsi a cacciare tanto in basso! Ti giuro su questa sacrosanta Cerere che io non riesco ancora a credere ai miei occhi."
Incuriosita dalle parole del marito, quella sfacciata, desiderosa di sapere il fatto, cominciò a tormentarlo perché le rivelasse tutta la storia, dal principio, e non la smise fino a quando quel poveretto non cedette alla sua volontà e, ignaro dei propri guai, non prese a raccontarle quelli degli altri.

XXIV
"La moglie del mio amico tintore pareva una brava donna, virtuosa, e che, almeno da quel che si diceva, aveva sempre mandato avanti la casa. Eppure a un certo punto vennero anche a lei i suoi calori e si mise con un tizio col quale andava regolarmente a letto tutti i giorni.
"Pensa che anche nel momento in cui noi, dopo il bagno, stavamo mettendoci a tavola, lei era lì che si godeva il giovinotto.
"Sorpresa dalla nostra improvvisa apparizione, su due piedi pensò di nascondere l'amante sotto una cesta di vimini, di quelle circolari che finiscono a punta e dove si distendono i panni per farli diventare bianchi ai vapori di zolfo; poi venne a sedersi tranquilla a tavola con noi, pensando che quello era proprio un nascondiglio sicuro.
"Ma il giovanotto avvolto e preso alla gola dall'odore acre e penetrante dello zolfo, dopo un po' si sentì soffocare e, come succede quando si manipola questa sostanza, cominciò a sternutire.

XXV
"Quando il marito sentì il primo sternuto, siccome veniva dalla parte della moglie, dalle sue spalle, credette che fosse stata lei e così le rivolse il solito 'salve'; ma quando ce ne fu un secondo, un terzo e poi altri ancora, sorpreso che la cosa si ripetesse con tanta frequenza, finì per sospettare quel che c'era sotto e dato uno spintone alla tavola, sollevò la cesta e ti scoprì un uomo boccheggiante e semiasfissiato.
"Furente per l'ingiuria patita cominciò a gridare che gli dessero una spada, a scalmanarsi che voleva scannarlo, quando quel poveretto stava per conto suo tirando le cuoia.
"Allora io, vedendo che le cose si mettevano male per tutti, cercai un po' di calmargli quella furia omicida facendogli osservare che il suo rivale, di lì a poco, sarebbe morto lo stesso, avvelenato dallo zolfo, e che perciò non valeva la pena andarci di mezzo anche noi.
"Infatti si calmò ma più che per il mio consiglio per l'evidenza della situazione: quel poveretto, effettivamente, era più morto che vivo e così lo andò a buttare nel vicolo accanto.
"Nel frattempo io suggerii a sua moglie in un orecchio di sparire per un po' e la persuasi di andare ad alloggiare da qualche sua amica, almeno fino a quando suo marito non si fosse calmato: infuriato e stravolto com'era, non escludevo affatto che potesse commettere qualche grosso sproposito contro se stesso e sua moglie.
"Però che nausea quella cena e così me la sono svignata e sono tornato a casa."

XXVI
Mentre il mugnaio raccontava questa storia quella svergognata e impudente di sua moglie rifilava all'altra gli epiteti più ingiuriosi: quella perfida, commentava, quella scostumata, veramente la vergogna del sesso femminile, che se n'era infischiata del suo onore e s'era messa sotto i piedi la santità del matrimonio, che aveva trasformato la casa del marito in un bordello indegna ormai del nome di sposa ma piuttosto di quello di prostituta e aggiunse: "certe donne bruciarle vive bisognerebbe!"
Però anche lei era agitata dall'interno rodio della sua coscienza sporca e, per liberare al più presto l'amante da sotto lo scomodo nascondiglio, cercava di indurre il marito ad andare presto a dormire. Ma quello, con una cena interrotta a metà e quindi digiuno come se ne era venuto via, le chiedeva invece candidamente di dargli da mangiare e così lei, di malavoglia, dovette servirgli il pranzo che aveva destinato all'altro.
Quanto a me mi sentivo rodere il cuore riflettendo all'azionaccia che quella donna spregevole aveva compiuto poc'anzi e alla indifferenza che ora mostrava e fra me almanaccavo come poter smascherare tutto quell'inganno, venire in aiuto al mio padrone, insomma ribaltare il cassone e scoprire a tutti quello là che se ne stava lì sotto accucciato come una tartaruga.

XXVII
Mentre mi dolevo per il mio padrone così umiliato la celeste provvidenza mi venne in aiuto. A quell'ora il vecchio zoppo che aveva la sorveglianza di tutti i giumenti, ci portava in gruppo all'abbeverata a uno stagno lì vicino.
Fu un'occasione magnifica per la mia vendetta perché io, passando lì davanti, vidi che le punte delle dita di quell'adultero sporgevano dal di sotto della cassa troppo angusta e così, posto un piede un po' di traverso, gli detti proprio una bella schiacciata, tanto che quello, non potendo sopportare il dolore, lanciò un urlo soffocato e buttando all'aria il cassone si mostrò a chi nulla ancora sospettava rivelando così tutto l'imbroglio di quella moglie svergognata.
Ma il mugnaio non sembrò troppo scomporsi per l'offesa fatta al suo onore, anzi, con un'espressione pacata e un fare rassicurante, fece animo a quel giovine che tremava tutto ed era livida come un morto: "Non temere, figliolo, non ti farò nulla di male; non sono mica un barbaro io e neanche uso i modi rozzi della campagna; non ti ucciderò come ha fatto quella furia di tintore con i vapori di zolfo e non mi varrò della legge contro l'adulterio, che è molto severa, per far condannare a morte un ragazzino così carino e avvenente, ma invece mi metterò d'accordo con mia moglie per spartirti a metà con lei: non voglio mica dividere il patrimonio familiare, anzi reclamo solo la comunanza dei beni perché senza controversie e dissensi tutti e tre si goda il letto in comune.
"Vedi, tra me e mia moglie c'è stata sempre un'armonia così perfetta per cui, come dicono i saggi, ciò che piace a lei piace anche a me. D'altronde neanche la giustizia permette che la moglie abbia più diritti del marito."

XXVIII
E intanto, motteggiandolo bonariamente con frasi simili, se lo tirò verso il letto e il ragazzo, sebbene riluttante, dovette rassegnarsi. Conclusione: lasciata fuori la sua castissima moglie egli se la spassò per tutta la notte con quel figliuolo prendendosi proprio una bella vendetta del tradimento subito.
Ma non appena il disco risplendente del sole ebbe riportato la luce egli chiamò due servi molto robusti, fece sollevare in alto il ragazzo e cominciò a frustargli le natiche:
"Ma perché," intanto gli diceva, "tu che sei ancora un fanciullo così morbidetto e delicato, perché vuoi privare gli uomini del fiore della tua giovinezza e metterti con le donne e per di più con quelle di condizione libera o già sposate e aspirare prima del tempo al nome di adultero?"
Dopo avergliene dette queste ed altre e in aggiunta averlo frustato a dovere, lo fece buttar fuori, e quello lì, il più in gamba di tutti i seduttori, ritrovatosi sano e salvo senza saper nemmeno lui come, se la diede a gambe piagnucolando per quelle sue bianche chiappe così strapazzate di notte e di giorno.
Dopo di che il mugnaio mandò a dire alla moglie che sloggiasse anche lei dalla sua casa.

XXIX
Quella donna, però, oltre che per l'innata malvagità, sentendosi terribilmente provocata ed esasperata da quella punizione per quanto giusta, ricorse alle sue frodi e ai soliti artifici delle donne.
Si mise con molta pazienza alla ricerca di una vecchia strega di cui si diceva che con i suoi scongiuri e i suoi incantesimi era capace di far tutto quello che voleva e, pregandola in tutti i modi, colmandola di doni, le chiese o di rabbonire il marito e farlo riconciliare con lei o, se non le fosse stato possibile, di suscitargli contro uno spettro o qualche altro demone maligno per farlo morire.
La maga, che aveva poteri soprannaturali, tentò subito con i mezzi più semplici della sua arte scellerata e cercò di piegare l'animo offeso del marito e ridurlo nuovamente all'amore, ma quando s'accorse che la cosa non le riusciva come aveva previsto, indispettita contro i suoi dei e sollecitata oltre che dalla perdita del premio promessole, dal discredito che gliene sarebbe derivato, si mise ad attentare alla vita del povero marito suscitandogli contro lo spirito di una donna assassinata.

XXX
A questo punto un lettore pignuolo potrebbe interrompermi e chiedermi: "Ma com'è, furbacchione d'un asino che sei, com'è che tu, chiuso nel recinto del mulino, hai potuto sapere quello che le donne macchinavano in segreto fra loro."
Stammi ancora a sentire in che modo io, pur sempre un uomo e curioso per giunta, anche se sotto le spoglie di un asino, ho saputo tutte le macchinazioni che si tramavano ai danni del mugnaio: era circa mezzogiorno quando a un tratto comparve nel mulino una donna con un'espressione sfigurata dall'angoscia, da condannata a morte, un mantelluccio liso che sì e no la copriva: era scalza, il viso pallido come uno stecco, i capelli grigi, scarmigliati e sporchi di cenere le coprivano parte del volto.
Questa donna prendendo confidenzialmente per mano il mugnaio, come se volesse dirgli qualcosa in segreto, lo condusse in camera da letto, chiuse la porta e vi rimase a lungo.
Nel frattempo essendo stato macinato tutto il grano che i lavoranti avevano in consegna e dovendosene, quindi, richiedere dell'altro, alcuni servi si accostarono alla porta della camera da letto e, a gran voce, cominciarono a chiamare il padrone chiedendogli altro lavoro. Ma benché chiamassero più volte e tutti insieme, non ebbero risposta alcuna e così, dopo aver bussato con forza alla porta, quando si accorsero che questa era accuratamente sprangata, sospettando che qualcosa di grave doveva essere accaduto, con una forte spallata, tutti insieme, scardinarono la porta e la aprirono.
Ebbene di quella donna nemmeno l'ombra, quanto al padrone se lo trovarono davanti appiccato con una corda a una trave, già morto.
Fra lamenti e pianti a non finire gli liberarono il collo dal cappio e lo tirarono giù, lo lavarono per l'ultima volta, gli resero le estreme onoranze e, fra un gran concorso di popolo, lo seppellirono.

XXXI
Il giorno dopo dalla borgata vicina, dove da tempo aveva preso marito, accorse la figlia del mugnaio, sconvolta, coi capelli scarmigliati e percuotendosi il petto. Senza che nessuno l'avesse avvertita della disgrazia era venuta a sapere ogni cosa perché in sogno le era apparsa l'ombra miserevole del padre ancora con il laccio stretto al collo e le aveva rivelato tutti i misfatti della matrigna, l'adulterio, l'incantesimo, il modo com'egli era stato ucciso dopo essere stato stregato.
Per molti giorni ella non fece che piangere e disperarsi e soltanto quando i familiari, tutti insieme, intervennero, la poverina pose tregua al dolore.
Al nono giorno, conclusi i riti funebri sulla tomba dell'estinto, ella fece vendere all'asta tutti i beni dell'eredità, gli schiavi, le suppellettili e tutte le bestie.
La capricciosa fortuna così disperse qua e là con una vendita in blocco il patrimonio di una famiglia.
Io fui comprato da un povero ortolano per cinquanta sesterzi, una gran somma a sentir lui, ma almeno, così, mettendo insieme la nostra fatica, egli avrebbe avuto di che campare.

XXXII
Ma penso che valga la pena raccontarvi in che cosa consisteva il mio servizio.
Al mattino il mio padrone mi menava in città carico di verdura e, consegnata la merce ai rivenditori, mi montava in groppa e se ne tornava al suo orto.
Mentre lui zappava, innaffiava, se ne stava curvo sul suo lavoro, io me ne rimanevo parecchio tempo a spasso e mi godevo il dolce far niente.
Con il passare dei giorni e dei mesi, però, secondo il prescritto giro degli astri, l'anno si lasciò dietro le dolci vendemmie dell'autunno e si volse alle brine invernali del Capricorno ed io, in una stalla aperta a tutte le inclemenze del tempo, che aveva il cielo per tetto esposta alle continue piogge e all'umidità della notte, patii un freddo terribile, dal momento che il mio padrone, nella sua estrema indigenza, non poteva procurarsi nemmeno per sé, e figuriamoci poi per me, un po' di strame e un benché minimo riparo, e doveva, quindi, accontentarsi di una capannetta di frasche.
E con tutto questo al mattino mi toccava camminare nel fango gelato e fra i ghiaccioli appuntiti che mi perforavano i piedi; inoltre non potevo nemmeno riempirmi il ventre con i soliti cibi, infatti, se io ed il mio padrone mangiavamo la medesima cena, questa era un ben misero pasto: foglie di lattuga vecchia e amara, già spigata, che sembrava scopa, con un sapore amaro e terroso.

XXXIII
In una notte senza luna, un signore del vicino villaggio, non potendo proseguire il cammino per la fitta oscurità e inzuppato fradicio dalla pioggia che cadeva giù a torrenti e che lo aveva allontanato dalla strada maestra fiaccandogli completamente il cavallo, capitò nel nostro orto.
Fu ricevuto premurosamente, date le particolari circostanze, e poté riposare, se non comodamente, almeno quel tanto che gli era necessario, si che per ricompensare la benevola ospitalità, egli promise alcuni prodotti delle sue terre: frumento, olio, due anfore di vino. Il mio padrone non se lo fece ripetere due volte, prese la bisaccia, due otri vuoti, si sistemò sulla mia schiena e s'avviò per quel viaggio di sessanta stadi.
Quando, dopo aver fatto tutta quella strada, finalmente giungemmo ai poderi del suddetto signore, l'ospite cortese ci imbandì un lauto pranzetto. Ma ecco che proprio quando i due s'eran messi con tutto l'impegno a darci sotto col vino, accadde un fatto straordinario: una gallina del pollaio cominciò a correre qua e là per l'aia, schiamazzando col suo caratteristico verso come se dovesse far l'uovo.
"Ma che brava la mia servetta feconda," le fece il suo padrone seguendola con lo sguardo. "È da tempo che tu ci nutri con il tuo ovetto giornaliero e ora, come vedo, vuoi offrircene uno come antipasto." Poi aggiunse: "Ehi, tu, ragazzo, mettile nel solito angolo il cestello per le uova."
Il servo eseguì l'ordine ricevuto ma la gallina, rifiutando quel cestello che le era abituale, andò a deporre proprio ai piedi del suo padrone un frutto portentoso che sarebbe stato motivo di non poche preoccupazioni. Non si trattava, infatti, di un comune uovo ma di un pulcino vero e proprio già con le sue penne, le sue zampine, gli occhi, la voce, che si mise subito a correre dietro la madre.

XXXIV
Ed ecco un altro portento ancora più sorprendente che giustamente spaventò un po' tutti.
Proprio sotto la tavola sulla quale v'erano ancora gli avanzi del banchetto, la terra si spalancò e dalla fenditura zampillò un getto violento di sangue tanto che la mensa ne fu tutta spruzzata e lordata.
In quello stesso momento, mentre tutti eran lì sbigottiti dallo stupore e annichiliti per quei divini presagi, uno dei servi corse su dalla cantina per avvertire che il vino, già da un pezzo sigillato nelle anfore, stava tutto bollendo come se gli avessero messo il fuoco sotto. E poi si vide una donnola tirar fuori dalla tana un serpente morto e serrarlo tra i denti, e ancora, dalla bocca di un cane pastore saltar fuori un ranocchio vivo e un montone che era nei paraggi assalire quel cane e strangolarlo con una sola zannata.
Tutti questi prodigi misero nell'animo di quel signore e in tutta la sua casa una gran paura e una profonda costernazione.
Nessuno sapeva come regolarsi, che cosa fare o non fare per placare quelle celesti minacce e quante e quali vittime sacrificare.

XXXV
Come se non bastasse, mentre tutti se ne stavan lì come inebetiti in attesa di qualche spaventosa sventura, sopraggiunse un servo ad annunziare al padrone di quelle terre l'ultima e più terribile disgrazia.
Costui aveva tre figli, già grandi, istruiti e virtuosi, che erano il suo orgoglio, legati da una vecchia amicizia con un modesto proprietario di una piccola cascina. Quel povero podere confinava con i ricchi e fertili campi di un potente signore, giovane e facoltoso, che, abusando del nome glorioso del suo casato e spalleggiato da alcuni gruppetti di faziosi, spadroneggiava in tutta la zona.
Costui faceva vere e proprie spedizioni sulle povere terre del vicino, trucidandogli il gregge, rubandogli i buoi, calpestandogli il grano ancora verde; per di più dopo avergli tolto quel poco che aveva, ora minacciava addirittura di scacciarlo da quelle poche zolle e intentandogli causa su un'assurda questione di confini, rivendicava per sé tutta la terra.
Quel povero paesano, un timido per giunta, ridotto ormai in miseria dall'avidità del ricco vicino, per conservare almeno un pezzetto della sua terra avita, quel tanto per esservi seppellito, col cuore in gola pregò parecchi amici perché intervenissero in merito a quei confini. Tra gli altri vi erano anche quei tre fratelli, lieti di dare, come potevano, una mano all'amico disgraziato.

XXXVI
Ma quel pazzo, per nulla intimidito dalla presenza di tutti quei cittadini e tanto meno turbato, non solo non intese recedere dalle sue piratesche pretese, ma non volle nemmeno moderare le parole e, a quanti lo pregavano cortesemente e, con atteggiamento conciliante, cercavano di calmare la sua irruenza, egli per tutta risposta, giurò sulla sua vita e su quella dei suoi cari che se ne infischiava della presenza di tanti intermediari e che avrebbe ordinato ai suoi servi di prendere il suo vicino per le orecchie e di buttarlo fuori, il più lontano possibile, dalla sua catapecchia.
Queste parole suscitarono lo sdegno violento di quanti fra i presenti le udirono e uno dei tre fratelli gli rispose subito per le rime dicendogli che invano egli, facendosi forte delle sue ricchezze, minacciava e tiranneggiava, perché c'erano le buone leggi a garantire e proteggere i poveri dall'insolenza dei ricchi.
Ci voleva questo discorso per far esplodere la furia di quell'uomo: infatti fu come se su una fiamma fosse caduto dell'olio, o in un incendio dello zolfo, o nella mano di una Furia fosse stata messa una frusta. Completamente fuori di sé, cominciò a inveire che avrebbe messo sulla forca tutti i presenti e le leggi comprese.
E subito fece sguinzagliare e aizzare i suoi enormi e feroci cani da pastore, quelli che divorano i cadaveri abbandonati nelle campagne, allevati apposta per avventarsi, senza distinzione, su tutti i viandanti che transitavano da quelle parti.
Quelle bestiacce, eccitate e provocate dai noti richiami dei pastori, fra latrati assordanti, si lanciarono contro quegli uomini con tutta la loro furia e la loro ferocia, li assalirono, li straziarono a furia di morsi, li fecero a pezzi, non risparmiando nemmeno quelli che cercavan di fuggire e sui quali, anzi, si avventarono con maggior rabbia.

XXXVII
Durante quella carneficina di gente terrorizzata il più giovane dei tre fratelli inciampò in un sasso e cadde ferito a un piede; subito i cani inferociti gli furono addosso e orrendamente dilaniarono le sue membra. Alle sue grida strazianti gli altri due accorsero in suo aiuto e, raccolto il mantello sul braccio sinistro, cercarono di allontanare i cani e di difendere il fratello con una fitta sassaiola.
Ma non riuscirono né a domare né a respingere la ferocia di quelle belve e così quel povero giovane, le cui ultime parole implorarono vendetta contro quell'infame riccone, fatto a brani, spirò.
I fratelli superstiti, allora, non tanto perché disperavano ormai di salvarsi ma perché non tenevano più in alcun conto la vita, si gettarono sul ricco e con un impeto furibondo lo assalirono a sassate.
Ma quel sanguinario, già da tempo addestrato a imprese del genere, trafisse con un colpo di lancia proprio in pieno petto uno dei due. Il giovane, colpito a morte, benché morisse subito, non cadde a terra in quanto la lancia trapassandolo da parte a parte, per la violenza del colpo, era rispuntata alle sue spalle quasi in tutta la sua lunghezza e s'era conficcata nel terreno sostenendo così quel corpo che vi rimase come appoggiato.
Nel medesimo tempo un servo, alto e corpulento, correndo a prestar man forte a quell'assassino, da lontano, scagliò un sasso contro il terzo fratello, mirando al suo braccio destro, ma fallì il colpo e la pietra, sfiorando la punta delle dita, andò a cadere per terra, lasciandolo illeso anche se parve il contrario.

XXXVIII
Questa fortunata circostanza offrì al giovane, che era assai perspicace, l'occasione della vendetta. Infatti, fingendo che la mano gli fosse stata stroncata, così apostrofò lo spietato signore:
"Godi ora che hai distrutto la nostra famiglia, pasci la tua insaziabile crudeltà con il sangue di tre fratelli e sii orgoglioso di tanti concittadini massacrati; però sappi che per quanto tu abbia potuto estendere i tuoi confini, privando un poveretto delle sue terre, avrai pur sempre un vicino. Purtroppo anche questa mia destra che avrebbe dovuto troncarti il capo, per un destino avverso ora è spezzata."
Queste parole resero ancor più furioso quel brigante che si avventò sul povero giovane con la spada sguainata, smanioso di ucciderlo con le sue mani. Ma si trovò di fronte a un avversario non meno forte di lui che, con sua grande sorpresa, gli resisté validamente, anzi gli afferrò in una stretta tenacissima la destra e con uno sforzo sovrumano, rivoltandogli la spada contro, lo subissò di colpi, finché quel riccone non esalò la sua sporca animaccia.
Ma poi per non cadere nelle mani dei servi che accorrevano, con il pugnale ancora sporco del sangue del suo nemico, con un gesto fulmineo, si tagliò la gola.
Quegli straordinari prodigi avevano preannunciato questi fatti, gli stessi che ora venivano riferiti allo sventurato signore.
Il vecchio, in tanta tragedia, non riuscì ad articolare una parola, a emettere un lamento, né a versare una lacrima: afferrò un coltello, quello con cui, qualche momento prima, aveva tagliato il formaggio e le altre vivande per i suoi commensali e anch'egli, come il suo infelicissimo figlio, si trafisse più volte la gola, finché non cadde riverso sulla mensa cancellando col suo sangue le macchie di quell'altro sangue prodigiosamente zampillato.

XXXIX
Fu così che in pochi istanti andò distrutta un'intera famiglia.
Il mio ortolano rimase molto impressionato e lamentandosi amaramente anche della propria sfortuna, che aveva richiesto per quel pranzo un suo tributo di lacrime, battendosi le mani purtroppo rimaste vuote, mi salì in groppa e rifece la strada per cui eravamo venuti.
Ma nemmeno il ritorno doveva andar liscio.
Infatti, un tipo, alto di statura, che dall'uniforme e dalle sue maniere doveva essere un legionario di guarnigione, ci si piazzò davanti e con un fare tronfio e arrogante chiese all'ortolano dove portasse quell'asino senza carico.
Il mio padrone era ancora tutto sconvolto dal dolore e per di più, non capendo una parola di latino, non gli badò e tirò avanti.
Il soldato, indispettito da quel silenzio preso come un insulto, non seppe frenare l'insolenza che gli era abituale e così lo colpì col suo bastone di vite rovesciandolo dalla mia schiena.
L'ortolano, allora, gli fece umilmente capire che non conosceva la sua lingua e che perciò non sapeva ciò che egli gli avesse chiesto.
"Dov'è che porti quest'asino?" gli ripeté allora in greco il soldato e, quando l'ortolano gli disse ch'era diretto alla vicina città: "Ora serve a me," lo interruppe. "Deve portare con gli altri quadrupedi i bagagli del comandante della vicina fortezza" e allungata la mano alla cavezza cominciò a trascinarmi via.
Ma l'ortolano, asciugandosi il sangue che gli colava dal capo per il colpo di prima, tornò a pregare e a scongiurare il soldato di usare modi più urbani e gentili, augurandogli le migliori fortune. "E poi" aggiunse, "questo qui è un asinello pigro che però ha il vizio di mordere ed è lì lì che mi crolla per un brutto male che ha, tanto che a mala pena, tirando il fiato, riesce a portarmi qualche mazzetto di verdura dall'orto qui vicino e non può assolutamente farcela a trasportare carichi più pesanti."

XL
Ma quando s'accorse che le sue preghiere anziché convincere il soldato lo irritavano di più, al punto che questi, girato il bastone dalla parte più grossa stava lì lì per spaccargli la testa, ricorse a un estremo rimedio: fingendo di allacciargli le ginocchia per implorare pietà, si chinò in avanti, lo afferrò per le gambe e sollevatolo di peso, lo sbatté pesantemente a terra; poi con pugni, gomitate, morsi, perfino con una pietra che riuscì ad afferrare dalla strada, gli pestò ben bene la faccia, i fianchi, le mani.
L'altro, riverso per terra, non riusciva a difendersi né a reagire, eppure continuava a minacciare che lo avrebbe fatto a pezzi con la spada appena si fosse rialzato. L'ortolano, allora, a scanso di un simile rischio, via la spada il più lontano possibile e giù a infittire i colpi!
Completamente distrutto, coperto di ferite, non trovando altro scampo, il soldato ricorse all'unico mezzo che gli restava: fece finta di essere morto.
Allora l'ortolano, prendendo con sé la spada, mi saltò in groppa e mi fece trottare lesto lesto verso la città e, senza nemmeno fermarsi un momento nel suo orticello, corse difilato da un suo amico, e dopo avergli raccontato tutto l'accaduto, lo pregò di aiutarlo in un simile frangente, di tenerlo nascosto, insieme con l'asino, per qualche tempo, per due o tre giorni almeno, il tanto che bastasse per evitargli un processo e una condanna capitale.
E l'amico, memore dell'antica amicizia, senza esitare, gli dette asilo: con le zampe strette nelle pastoie, io fui issato su per una scala in una stanza al piano superiore, l'ortolano scomparve dentro una cesta giù in bottega e si tirò sul capo il coperchio.

XLI
Ma quel soldato, lo venni a sapere più tardi, riscuotendosi come da una solenne sbornia, barcollando e tutto dolorante per le ferite, a stento reggendosi sul suo bastone, raggiunse la città.
Ai cittadini non disse nulla di quel che gli era capitato, vergognandosi di passare per un pusillanime e un inetto, ma rodendosi dentro per lo smacco patito, si sfogò con i suoi commilitoni e ad essi raccontò tutta la sua disavventura.
Fu deciso che rimanesse nascosto per un po' sotto la tenda per non incappare nei rigori del regolamento militare che puniva chi avesse perduto la spada; gli altri, invece, conosciuti i nostri connotati, si sarebbero messi alla nostra ricerca e lo avrebbero vendicato.
Immancabilmente, ci fu un disgraziato di vicino che fece la spia indicando il luogo dove eravamo nascosti. I soldati allora ricorsero ai magistrati e raccontarono, quei gran bugiardi, che durante il viaggio avevano perduto un vaso d'argento del loro comandante, di gran valore, che un ortolano l'aveva trovato ma si rifiutava di restituirlo e anzi si era andato a nascondere in casa di un amico.
I magistrati, valutato il danno e l'importanza del comandante che l'aveva subito, si presentarono alla porta del nostro rifugio e ad alta voce intimarono al nostro ospite di consegnarci nelle loro mani, se non voleva mettere a repentaglio la sua testa, dal momento che sicuramente egli ci teneva nascosti presso di sé.
Ma quello, per nulla intimorito e volendo a tutti i costi salvare colui che aveva confidato nella sua lealtà, non rivelò nulla sul nostro conto, anzi dichiarò che non aveva visto l'ortolano ormai da parecchi giorni, anche se i soldati continuavano a insistere, giurando sull'imperatore che egli era nascosto là e in nessun altro luogo.
Così i magistrati per smascherare quell'uomo che si accaniva a negare, decisero un sopralluogo e, chiamati i littori e gli altri pubblici ufficiali, ordinarono che procedessero a un'accurata e minuziosa perquisizione della casa.
Ma quelli, alla fine, riferirono che non v'era traccia d'anima viva lì dentro e tanto meno di un asino.

XLII
La contesa fra le due parti si riaccese allora più violenta: i soldati confermavano che noi eravamo lì e lo giuravano sull'imperatore, l'altro continuava a negare e a chiamare a testimoni gli dei.
A sentir quella lite e quel baccano, io, curioso per natura, e asino irrequieto, per sapere il perché di tutto quel tumulto, sporsi la testa a sghembo da una finestrina, ed ecco che un soldato, volgendo per caso lo sguardo nella mia direzione, vide la mia sagoma e si mise a chiamare tutti a testimoni.
Si levò un grido improvviso, si precipitarono su per le scale, mi abbrancarono e mi trascinarono giù come un prigioniero Ormai nessuno aveva più dubbi e così tutti si misero a frugare in ogni angolo, finché non trovarono la cesta e, dentro, il povero ortolano che, consegnato ai magistrati, fu portato in carcere in attesa della condanna a morte.
Quanto a me e alla mia apparizione si continuò a ridere proprio di gusto e a scherzarci sopra e anche di qui nacque il noto proverbio dell'asino che s'affaccia alla finestra e della sua ombra.