Biblioteca:Apuleio, Le Metamorfosi, Libro IV

Versione del 29 apr 2017 alle 20:54 di Ilcrepuscolo (discussione | contributi) (Sostituzione testo - 'Zefiro' con 'Zefiro')

I
Doveva essere all'incirca mezzogiorno e il sole ormai cominciava a picchiare, quando facemmo sosta a un casolare, da certi vecchi che i briganti conoscevano e di cui erano amici, come riuscii a capire, per quanto asino, dall'accoglienza che ci fecero, dai lunghi discorsi, dai baci e abbracci che si scambiarono.
Anzi i briganti cominciarono a togliermi di dosso alcuni degli oggetti che regalarono a quei vecchi, facendo loro capire, a mezze parole, che era tutta roba rubata. Poi, liberatici completamente del carico, ci menarono a pascolare in un prato lì vicino.
Ma a me pascolare con un asino e con un cavallo non mi andava proprio, tanto più che non ero ancora abituato a mangiar fieno. Vidi per fortuna dietro la stalla, un orticello e, morto di fame com'ero, non ci pensai due volte a buttarmici dentro e a riempirmi la pancia di cavoli sebbene fossero crudi; intanto, guardando a destra e a manca, pregavo tutti gli dei che mi facessero trovare nei giardini lì intorno qualche bel rosaio fiorito.
D'altronde il luogo solitario mi dava una certa fiducia in quanto, una volta presa la medicina, nascosto tra il verde, io avrei potuto abbandonare l'andatura curva del quadrupede e, non visto da alcuno, tornare nella posizione eretta di un uomo.

II
Mentre, dunque, mi lasciavo andare a un mare di pensieri, allungando lo sguardo vidi poco lontano, una valletta ombreggiata da un fitto bosco dove fra molte erbe e la densa vegetazione brillavano ciuffi di rose di un color rosso fiammante.
Fra me, non ancora diventato tutto bestia, pensai si trattasse del bosco di Venere e delle Grazie se, appunto, nei suoi angoli più nascosti, splendeva, il regale fulgore di quel fiore divino.
E così, invocato il dio Evento perché mi fosse propizio, mi precipitai giù di volata tanto che per la velocità mi pareva di essere un cavallo da corsa, perdio, altro che un asino.
Ma quello scatto in grande stile non poté superare l'avversità della mia sorte. Infatti giunto sul posto non vidi rose belle e delicate, stillanti nettare e divina rugiada, quelle che nascono dai rovi felici e dalle spine feconde, e nemmeno più la valletta ma solo il greto di un fiume chiuso da fitti alberi.
Erano di quegli alberi che per le lunghe foglie somigliano all'alloro e che producono piccoli calici di un color rosso pallido che hanno tutto l'aspetto di fiori profumati e che invece profumo non hanno.
La gente ignorante, con un termine campagnolo, li chiama rose d'alloro e qualunque animale che le mangia ci resta secco.

III
Vedendomi perseguitato in tal modo dalla malasorte mi passò anche la voglia di vivere e così decisi di farla finita col veleno di quelle rose.
Ma mentre, esitante, mi accingevo ad addentarle, un giovanotto, l'ortolano credo, al quale poco prima avevo saccheggiato il campo di cavoli, accortosi della rovina che gli avevo procurato, tutto infuriato, agitando un grosso bastone, mi piombò addosso e afferratomi, me ne diede tante e poi tante che mi avrebbe ammazzato se alla fine non fossi riuscito a cavarmela da me e con un po' di giudizio: con grandi sgroppate, infatti, cominciai a tempestarlo di calci da sbatterlo contro la scarpata del monte lasciandolo malconcio. Poi me la diedi a gambe.
Ma ecco che una donna, evidentemente sua moglie, appena lo vide dall'alto mezzo morto a terra si mise a correre verso di lui urlando e strepitando a bella posta per suscitare compassione di sé e farmela pagare. Infatti tutti i contadini dei dintorni alle urla di quella donna diedero la voce ai cani e me li aizzarono contro inferociti perché mi facessero a brani.
Quando vidi venirmi addosso tanti cani e tutti enormi, che avrebbero potuto affrontare benissimo orsi e leoni, allora pensai che la mia ultima ora era suonata e presi l'unica risoluzione che le circostanze mi suggerivano: smisi di fuggire e arretrando a tutta velocità rientrai nella stalla dove avevamo fatto sosta.
I cani, sebbene a fatica tornarono buoni alla catena ma i contadini legarono anche me con una solida correggia a un'anello fissato nel muro e giù di nuovo a darmene così forte che certamente mi avrebbero finito se il mio ventre, gonfio com'era per quella mangiata di cavoli crudi e disturbato dalla diarrea, non avesse sprizzato come uno zampillo un po' di quella sciolta così da insozzarne alcuni mentre il fetore faceva fuggire gli altri dalla mia povera schiena mezza fracassata.

IV
Senza un attimo di respiro, sotto il sole del primo pomeriggio, quei briganti ci tirarono fuori dalla stalla e ci caricarono ben bene più di prima, me soprattutto.
S'era già fatto un bel pezzo di strada ed io, sfinito da quel po' po' di miglia, schiacciato sotto il mio carico, dolorante per tutte le legnate che avevo preso, con gli zoccoli ormai tutti consumati, zoppo e traballante, mi fermai presso un ruscello che scorreva dolcemente fra l'erba pensando che quello era proprio il momento buono per piegare le ginocchia, stendermi a terra e non muovermi più a costo d'essere finito a furia di legnate o addirittura con una coltellata.
Credevo che, ridotto com'ero, mezzo morto ormai, mi sarebbe proprio spettato il congedo d'invalidità e che quei briganti, vuoi per non star lì a perdere tempo, vuoi per la preoccupazione di fuggire più presto che potevano, avrebbero diviso il mio carico fra gli altri due giumenti e per maggior vendetta mi avrebbero lasciato lì in pasto ai lupi e agli avvoltoi.

V
Ma un destino infame mandò a monte un'idea così brillante: infatti l'altro asino, leggendomi nel pensiero, mi precedette e, là per là, fingendo una gran stanchezza, si buttò per terra con tutto il carico, lungo disteso come fosse morto e non ci fu verso, né con le frustate, né con le spunzonate, nemmeno tirandolo per la coda, per le orecchie, per le gambe, di farlo rialzare, fino a che i briganti, persa la pazienza e la speranza, dopo aver confabulato un po' fra loro, per non ritardare più oltre la fuga con lo star dietro a un asino ormai morto e immobile come un sasso, divisero il suo carico fra me e il cavallo, poi presa la spada gli troncarono i garretti e tiratolo in parte sul ciglio della strada lo precipitarono giù a capofitto, ancora vivo, nella scarpata sottostante.
Allora io, riflettendo sulla sorte di quel mio infelice compagno, decisi di piantarla con tutti i sotterfugi e le furbizie e di essere piuttosto un asino come si deve, obbediente e servizievole verso i miei padroni, tanto più che, almeno così avevo capito dai loro discorsi, presto ci saremmo fermati, giacché eravamo finalmente giunti alla meta, là dove era la loro casa e il loro rifugio sicuro.
Infatti, dopo aver superato un lieve pendio giungemmo a destinazione.
Qui i briganti ci tolsero di dosso i bagagli che nascosero all'interno ed io liberato dal peso cominciai a rivoltolarmi nella polvere come in un bagno per smaltire la stanchezza.

VI
Ora, però, mi sembra il caso di descrivere quei luoghi e la spelonca abitata da quei ladroni. Così metterò alla prova il mio talento e darò a voi l'occasione di giudicare se anche in fatto di cervello e di sentimenti io fossi proprio un asino.
Noi eravamo proprio sotto una montagna, altissima, paurosa, tutta coperta da boschi fittissimi, lungo i suoi fianchi dirupati, tutti rocciosi, puntuti e, perciò inaccessibili, si aprivano anfratti profondi coperti di rovi e disposti in ogni senso, tali da formare intorno intorno come una difesa naturale. Dalla vetta sgorgava a grandi getti una sorgente le cui acque argentate precipitando a valle si rompevano in tante cascatelle che poi, raccogliendosi nel fondo di quegli anfratti vi ristagnavano formando come una sorta di recinto, quasi uno stretto di mare o un fiume che s'impaluda. Sopra la caverna, proprio sul ciglio di un dirupo, si ergeva un'alta torre. Solide staccionate di robusti graticci per rinchiudervi le pecore si stendevano da una parte e dall'altra e davanti all'ingresso formavano uno stretto passaggio come fra due alte pareti.
Parola mia che a vederla tu l'avresti detta proprio una casa di briganti.
Eppure tutt'intorno non c'era altro che una capannuccia tirata su alla meglio con delle frasche dove la notte, come venni a sapere in seguito, montavano la guardia taluni briganti estratti a sorte.

VII
Dopo averci legati con una robusta correggia davanti all'ingresso i briganti, uno per volta, carponi, si calarono giù nella caverna e qui cominciarono a prendersela con una vecchia curva e rinsecchita dagli anni che evidentemente doveva essere la persona addetta alle cure e al servizio di tutti quei giovinastri: "Brutta carogna putrida, sgorbio della natura, schifato anche dall'inferno, ti sei sistemata in questa casa a far niente? Mica ti sogni di farci trovare, dopo tante fatiche e tanti pericoli, qualcosa da mettere sotto i denti. Tu, però, giorno e notte, te la riempi a garganella quel la tua pancia, di vino."
E quella, tutta tremante e con un filo di voce stridula: "È tutto pronto, miei bravi giovanotti, miei coraggiosi protettori: pietanze abbondanti e saporite, cotte a puntino, pane in quantità, vino già bell'e versato nei calici scintillanti e, come al solito, c'è anche l'acqua calda per una lavatina alla svelta." Appena sentirono questo quei giovani, in un batter d'occhio, si spogliarono e tutti nudi si riscaldarono intorno a un gran fuoco, poi si lavarono con l'acqua calda, si unsero con l'olio e, alla fine, si sistemarono intorno a una mensa stracolma di vivande.

VIII
Avevano appena preso posto che altri ne arrivarono, molto più numerosi e non mi ci volle gran che a capire che anche questi erano dei briganti e della stessa risma. Anch'essi, infatti, se ne vennero con il loro bottino: monete d'oro e d'argento, vasi preziosi, stoffe di seta e broccati. Anch'essi si ritemprarono con un bagno caldo, poi sedettero a mensa fra i compagni. Alcuni, estratti a sorte, cominciarono a servirli. Mangiarono e bevvero a più non posso, divorarono montagne di carne, intere infornate di pane, uno dietro l'altro tracannarono file di bicchieri; fecero un baccano d'inferno, cantarono a squarciagola, si scambiarono lazzi ingiuriosi, sembravano tanti Lapiti e Centauri ubriachi, a metà bestia e a metà uomini.
A un tratto, uno di loro, il più grosso di tutti, prese la parola:
Noi abbiamo espugnato Ia casa di Milone di Ipata e, a parte il ricco bottino che abbiam fatto su, grazie al nostro coraggio, siamo ritornati alla base quanti n'eravamo, senza nemmeno un graffio; voi invece che siete andati a scorrazzare per le città della Beozia siete tornati in pochini e avete perduto perfino il vostro capo, il fortissimo Lamaco. Per riaverlo qui vivo e vegeto io sarei pronto a dare tutta questa roba che vi siete portata dietro. Comunque egli è ormai morto, il suo troppo coraggio l'ha perduto, ma la sua memoria sarà celebrata insieme con quella dei re più famosi e dei guerrieri più valorosi. Quanto a voialtri non siete che dei volgari ladruncoli, buoni solo per furtarelli da servi, per sgraffignare cenci ai bagni pubblici o nelle casupole delle vecchie."
Si vede che tu sei l'unico a non sapere che le case dei signori sono le più facili da svaligiare" rimbeccò a questo punto uno degli ultimi venuti. "Sì, è vero, per ché se anche in quelle grandi case c'è un sacco di servitù che va e che viene, in effetti ciascuno bada più a salvare la propria pelle che le ricchezze del padrone. La gente modesta, invece, che non ha tanti servitori, cerca di custodirselo per benino quello che ha, poco o molto che sia, di nasconderselo con la massima cura e non lo molla, a rischio, magari, del proprio sangue.

IX
Se non ci credete state a sentire:
Eravamo appena giunti a Tebe, la città dalle sette porte e, secondo le regole più elementari del mestiere, ci mettemmo subito a fare le nostre indagini sulle sostanze di questo e di quello. Arrivammo così a sapere che un certo Crisero, un banchiere, aveva denari a palate, ma che per paura delle tasse e delle pubbliche elargizioni, da furbo fingeva di non essere poi così ricco, e così se ne viveva come un eremita in una casupola modestissima ma ben difesa e qui, cencioso e sordido, covava i suoi sacchi d'oro. Così decidemmo di visitarlo per primo, pensando che non sarebbe poi stata una gran cosa affrontare un uomo solo e che senza alcuna fatica ci saremmo impossessati di tutti i suoi tesori.

X
Senza perder tempo, scesa la notte, ci trovammo tutti pronti davanti alla porta di Crisero e fummo subito dell'avviso che non era il caso di forzarla, di scardinarla e tanto meno di abbatterla perché il rumore che avremmo fatto avrebbe svegliato tutto il vicinato e noi ci saremmo trovati a mal partito.
Fu così che Lamaco, il nostro valorosissimo capo, col suo coraggio di sempre introdusse una mano nel buco della serratura e cercò, dall'interno di far saltare il chiavistello. Ma quel Crisero, certamente il più infame di tutti gli esseri con due gambe, che stava all'erta e che aveva sentito tutto, si avvicinò in punta di piedi, senza il minimo rumore e, all'improvviso, con tutta la forza che aveva inchiodò con un grosso ferro la mano del nostro capo al legno della porta, poi lasciandolo così atrocemente crocifisso, corse sul tetto di casa e di lì, gridando a squarciagola, si mise a invocare aiuto, chiamando ad uno ad uno per nome tutti i vicini e facendo credere che la sua casa aveva improvvisamente preso fuoco e che, quindi, ne andava di mezzo la vita di tutti."
Naturalmente i vicini si precipitarono a dargli una mano, atterriti da un pericolo che minacciava anche loro.

XI
Eravamo proprio in un bel pasticcio: o lasciarci ammazzare tutti o piantare lì il compagno. Trovammo una soluzione, la migliore, date le circostanze, condivisa anche da lui: con un colpo netto tagliammo al nostro capitano il braccio all'altezza del gomito e, lasciato lì l'avambraccio, gli avvolgemmo la ferita con molte bende perché il sangue che colava non rivelasse le nostre tracce e ce la filammo con quel che restava di Lamaco. Da una parte noi ci sentivamo impegnati verso di lui da un sacro giuramento, ma dall'altra vedendoci inseguiti da una folla vociante e atterriti dal pericolo imminente accelerammo la fuga. Così quell'eroe sublime quel valoroso, non potendo correre altrettanto in fretta, né rimanere indietro senza danno, con mille preghiere ci supplicò e ci scongiurò per la destra di Marte e per la fede giurata, di liberare un buon compagno come lui da ulteriori sofferenze e dalla cattura. Come avrebbe potuto, un brigante degno di questo nome, sopravvivere alla perdita della mano, la sola cioè che gli consentiva di rubare e di uccidere? Fortunato, invece, se fosse stato ucciso, come voleva, dai suoi compagni
Quando però vide che nessuno di noi se la sentiva di commettere un omicidio volontario, con la mano che gli restava afferrò la spada la baciò lungamente e con un colpo tremendo si trapassò il petto.
Onore noi rendemmo al coraggio del nostro magnanimo capo; avvolgemmo con cura in un lenzuolo di lino i resti di quel corpo e li affidammo al mare perché li custodisse. Il nostro Lamaco ora è sepolto là nelle profondità degli abissi.

XII
Così egli è degnamente morto, da valoroso, come visse.
Alcimo, invece, nonostante ce l'avesse messa anch'egli tutta in quanto a coraggio, non poté sfuggire a una sorte crudele. Penetrato nel misero tugurio di una vecchia, salì nella stanza di sopra, dove quella dormiva, ma invece di sbarazzarsene subito, strangolandola, come avrebbe dovuto, preferì prima gettare da una larga finestra tutto quello che c'era da rubare perché noi lo portassimo via. In un battibaleno fece piazza pulita di ogni cosa e non volendo risparmiare nemmeno il letto sul quale quella vecchiaccia dormiva, con uno scossone la scaraventò per terra e afferrò il pagliericcio per buttarcelo giù come aveva fatto con tutto il resto. Ma quella megera gettandosi alle sue ginocchia così lo supplicò: 'Ma perché ragazzo mio vuoi regalare i poveri oggetti e gli stracci di una povera vecchia ai ricchi vicini sulla cui casa sporge questa finestra?'
Ingannato da queste parole astute e prendendole per vere, temendo, per giunta, che tutto quello che finora aveva mandato giù e il resto che stava per gettare potesse andare a finire non più nelle braccia dei suoi compagni ma in casa d'altri, per sincerarsi della cosa, si sporse dalla finestra aguzzando ben bene lo sguardo all'intorno, ma soprattutto per valutare le ricchezze della casa vicina di cui la vecchia gli aveva parlato. Atto certamente coraggioso ma imprudente perché proprio mentre egli era penzoloni tutto intento a guardare altrove, quell'assassina, con una spinta da nulla ma improvvisa, lo fece precipitare giù a capofitto.
A parte l'altezza rispettabile, egli andò a cadere proprio sopra un grosso macigno ch'era lì sotto fracassandosi le costole. Patì poco però perché mentre ci stava raccontando come erano andate le cose, cominciò a vomitare sangue e spirò.
Degno compagno di Lamaco noi gli demmo la stessa sepoltura.

XIII
Colpiti da questa duplice perdita la piantammo lì con Tebe e raggiungemmo la vicina Platea.
Qui venimmo a sapere, per il gran parlare che se ne faceva, che un certo Democare stava allestendo uno spettacolo di gladiatori. Era un uomo tra i più ragguardevoli, fornito di molti mezzi e generoso per giunta, che organizzava quei pubblici divertimenti con una magnificenza pari alle sue possibilità.
Difficile sarebbe trovare un uomo di ingegno, un oratore tanto abile da saper descrivere con parole adeguate tutti i particolari di quei preparativi: gladiatori dalla forza eccezionale, cacciatori dall'occhio infallibile, malfattori che non avevano più nulla da perdere, si preparavano con le loro carni a ingrassare le belve, macchine montate su telai fissi, torri di tavole snodabili a guisa di case mobili, vivaci pitture, palchi riccamente addobbati per assistere al previsto spettacolo venatorio. E che gran quantità di bestie feroci, di tutte le specie, perché Democare ce l'aveva messa tutta e s'era fatti venire dall'estero quei magnifici esemplari, vero sterminio di condannati a morte.
Ma oltre a tutte queste attrazioni, che, peraltro, erano già costate un patrimonio, egli, spendendo quattrini a palate, s'era procurato un gran numero di gigantesche orse. senza contare quelle che aveva catturato egli stesso o che aveva comprato pagandole assai salate, si aggiungevano tutte 1e altre che gli amici, a gara, gli avevano regalato; ed egli le manteneva tutte queste bestie con ogni cura e a fior di quattrini.

XIV
Naturalmente tutto quel magnifico e grandioso apparato allestito per la gioia del pubblico non sfuggì agli occhi gelosi dell'Invidia. Tutte quelle bestie, infatti, indebolite dalla lunga cattività, estenuate dal caldo eccessivo dell'estate, infiacchite dalla mancanza di movimento, furono colpite da un'improvvisa pestilenza e morirono quasi tutte.
Ce n'erano un po' dappertutto, riverse qua e là nelle piazze, agonizzanti, simili a relitti di un naufragio. La plebe più miserabile che per la sua squallida povertà è costretta a non andar troppo per il sottile in fatto di cibo e, per riempirsi il ventre vuoto, a ricorrere a supplementi schifosi e a qualche razione gratis, si gettò di furia su quelle vivande già bell'e servite.
Quella circostanza suggerì a me e al qui presente Babulo, un'idea geniale. "Avevamo visto un'orsa di parecchio più grande delle altre, la prendemmo e facendo finta di volercela mangiare la portammo nel nostro nascondiglio. Qui la scuoiammo per benino lasciandole tutti gli artigli e la testa fino all'altezza del collo; poi raschiammo accuratamente la pelle dalla parte interna per assottigliarla e dopo averla cosparsa di cenere finissima la mettemmo a essiccare al sole.
Nell'attesa che il calore del sole l'asciugasse, con la carne di quella bestia facemmo una gran mangiata e, in vista dell'imminente impresa, stringemmo il seguente patto, cioè, che uno di noi, non tanto il più forte, quanto il più coraggioso, purché si offrisse volontario, entrasse in quella pelle e assumendo l'aspetto di un'orsa penetrasse nel palazzo di Democare; poi approfittando del silenzio della notte, al momento opportuno, aprisse le porte e facesse entrare anche noi.

XV
L'impresa era affascinante e non pochi della nostra banda si fecero avanti. Ma fra tutti fu scelto, all'unanimità, Trasileone il quale accettò il rischio di una simile trappola a doppio taglio e, tranquillamente, si fece chiudere nella pelle che, divenuta morbida e pieghevole, gli si adattò perfettamente. Con una cucitura accurata accostammo gli orli della pelle e mascherammo la sutura, del resto quasi impercettibile, con il folto pelame che era ai lati. Poi infilammo, non senza difficoltà, il capo di Trasileone alla radice della gola nel punto dove era stata tagliata la testa della belva, praticammo dei piccoli fori accanto alle narici perché potesse respirare e, in corrispondenza degli occhi perché potesse vedere, infine, facemmo entrare il nostro coraggiosissimo compagno, ormai diventato una bestia perfetta, in una gabbia che ci eravamo procurata per pochi spiccioli, anzi fu lui stesso a saltarvi dentro con un balzo risoluto e disinvolto.

XVI
Dopo questi preliminari ecco come procedemmo per far scattare la nostra trappola. Eravamo venuti a sapere che un certo Nicanore, di origine tracia, era legato a Democare da profondi vincoli di amicizia. Così scrivemmo una lettera nella quale fingemmo che quell'amico inviava un esemplare di una sua battuta di caccia per concorrere alla splendida riuscita dei giuochi.
Così a sera inoltrata ci recammo da Democare con la gabbia nella quale c'era Trasileone e con la falsa lettera.
Quello stupito della grande mole della bestia e tutto contento di quel dono così generoso e così opportuno dell'amico, ordinò che all'istante ci fossero contati dai suoi forzieri, dieci monete d'oro per ciascuno, portatori come eravamo di tanta gioia.
Succede sempre che la gente, ad ogni novità, si precipita per vedere; così intorno a quella belva, si radunò subito una gran folla d'ammiratori che il nostro Trasileone, astutamente immedesimandosi nella parte, teneva a bada con grandi salti minacciosi, per cui tutti non facevano altro che complimentarsi della gran fortuna di Democare che dopo aver perduto tante bestie poteva in qualche modo rifarsi della disgrazia con questo nuovo arrivo.
Frattanto egli ordinò che la belva fosse subito portata, con ogni precauzione nei suoi allevamenti.
Ma allora dovetti farmi avanti io.

XVII
'Signore, per carità, questa bestia è stremata dal gran caldo e dal lungo viaggio; non metterla insieme con le altre, tanto più che sono parecchie, come ho sentito dire, e non godono buona salute. Perché non le trovi un posticino qui, a casa tua, spazioso e ben arieggiato magari vicino a uno specchio d'acqua, che le dia un po' di refrigerio. Lo sai, no, che queste bestie vivono nei boschi fitti, in caverne umide e vicino a limpide sorgenti.
A queste considerazioni Democare rimase colpito e ripensando fra sé al gran numero di bestie perdute non fece obbiezione alcuna, anzi ci autorizzò subito a mettere la gabbia dove volevamo.
'Anzi,' ripresi 'noi siamo anche disposti a dormire qui, questa notte, accanto alla gabbia; la bestia è troppo malandata per il caldo e per il viaggio e così possiamo darle noi cibo e acqua al momento giusto e con ogni premura.'
'Non c'è bisogno che vi prendiate questo disturbo,' ci rispose. 'Quasi tutta la mia gente ha una lunga pratica ormai e sa benissimo come governare gli orsi.'

XVIII
Dopo di che gli augurammo la buona notte e ce ne andammo.
Usciti di città scorgemmo in un luogo appartato e fuori mano, un sepolcreto, dove trovammo molte casse da morto ormai corrose e sconquassate dal tempo con i cadaveri già polvere e cenere, ne aprimmo alcune pensando di nascondervi il futuro bottino. Poi con il solito sistema della nostra banda, attendemmo che la luna tramontasse, cioè quando il primo sonno diventa irresistibile e assale e afferra più forte i sensi degli uomini, e ci appostammo tutti al completo con le spade in pugno davanti alle porte di Democare, puntuali come se fossimo stati citati in giudizio.
Dal canto suo Trasileone, colto il momento più propizio della notte, per dare il via al colpo, uscì dalla gabbia e in un attimo passò a fil di spada, uno dopo l'altro, i guardiani che dormivano lì accanto; lo stesso fece col portinaio e, sfilatagli la chiave, corse ad aprirci le porte.
Noi ci precipitammo dentro e, in un baleno, ci radunammo al centro della casa. Allora egli ci indicò il magazzino nel quale la sera prima aveva visto accortamente nascondere una gran quantità di argenteria.
In un attimo, facendo forza tutti insieme, scardinammo le porte e io ordinai a ciascuno dei miei compagni di arraffare quanto più oro e argento potevano e di andarlo a nascondere in quelle casse dei morti, di cui ci si poteva fidare, e, di volata, poi, ritornare per raccogliere altro bottino.
Io solo nell'interesse di tutti, sarei rimasto a vigilare davanti alla porta finché non fossero ritornati. Del resto la stessa presenza di un'orsa che scorazzava libera per la casa mi pareva sufficiente a spaventare quei servi che, eventualmente, si fossero svegliati. Chi, infatti, per quanto forte e coraggioso, vedendosi davanti una simile bestiaccia, di notte per giunta, non se la sarebbe data a gambe, non avrebbe cercato scampo in camera sua, spaventatissimo, sprangandosi dentro?

XIX
Avevamo, dunque, organizzata ogni cosa a puntino e prese tutte le precauzioni, quando capitò un maledetto contrattempo. Infatti, mentre aspettavo ansioso il ritorno dei compagni, un servitorello, reso inquieto per il rumore o chissà ispirato da qualche dio, si avanzò quatto quatto e vista la fiera che andava liberamente su e giù per tutte le stanze, tornò adagio sui suoi passi e riferì a tutti quelli di casa ciò che aveva visto.
In un attimo tutta la casa si riempì di servi: fiaccole, lucerne, candele di cera e di sego, ogni altro oggetto buono a far luce rischiarò le tenebre; di tutta quella gente nessuno era senza un'arma, chi con un bastone, chi con una lancia, chi con la spada in pugno, tutti corsero a bloccare le uscite. Come se non bastasse sciolsero anche i cani da caccia per avventarli contro l'orsa, quelli con le orecchie a punta e il pelo ritto.

XX
Allora io, vedendo la tempesta che si addensava feci dietro front e me la svignai da quella casa non prima però di aver lanciato uno sguardo, dalla soglia della porta dove m'ero acquattato, a Trasileone che, intanto, aveva iniziato contro i cani una bellissima resistenza. Benché sapesse che era giunta ormai l'ultima sua ora, non dimenticando chi era, chi eravamo noi e il suo coraggio di sempre, egli non si arrese dinanzi alle fauci già aperte di Cerbero. Sostenendo, infatti, fino all'ultimo, la parte che s'era volontariamente assunto, ora arretrava, ora attaccava, finché con finte e aggiramenti non riuscì a scivolar fuori di quella casa.
Purtroppo, benché fosse all'aperto e avesse via libera, non riuscì a fuggire e a salvarsi: tutti i cani del quartiere, che erano tanti e feroci, si unirono in un'unica muta ai segugi che erano usciti dalla casa all'inseguimento. Che orribile e funesto spettacolo vedere il nostro Trasileone circondato e assalito da una muta di cani inferociti e dilaniato da mille morsi.
Io non riuscii a sopportare la vista di tanto strazio e così mi confusi tra la gente che correva da tutte le parti e nel tentativo di soccorrere il buon camerata nell'unico modo che potevo senza scoprirmi cominciai a dissuadere i battitori di quella caccia all'orso: 'È un vero pecato,' gridavo, 'è un delitto perdere una così gran bella bestia che deve valere un tesoro.'

XXI
Ma il trucco non funzionò e a quel povero diavolo non portò alcun bene perché nel frattempo un omaccione grande e grosso, sbucando da una casa, s'avventò contro l'orsa e gli conficcò la lancia nel petto.
Dopo di lui un altro fece altrettanto e poi altri ancora gli si fecero sotto quasi a gara a colpirlo con la spada. E così Trasileone, veramente gloria e vanto della nostra banda, degno dell'immortalità invece che di tanto strazio, alla fine fu sopraffatto; ma non un grido, non un gemito tradirono la fede giurata: per quanto egli fosse ormai tutto dilaniato dai morsi e trafitto dai colpi continuò a fare la belva muggendo e ringhiando e sopportando con una forza d'animo nobilissima la sua sventura, finché non rese la vita al fato riservando per sé gloria immortale
Eppure fu tanta l'impressione, tanta la paura che egli aveva messo in quella folla che fino al sorgere del sole, anzi fino a giorno alto, nessuno osò toccare la belva neanche con un dito sebbene giacesse morta lì a terra.
Fu un macellaio, prima con molta titubanza, via via con più coraggio, a sventrare la bestia e a mettere allo scoperto l'eroico brigante. Così anche Trasileone ci morì ma la sua gloria non morirà.
In fretta e furia raccogliemmo i bagagli che i fedeli morti ci avevano custodito e di gran carriera ci lasciammo alle spalle il territorio di Platea, giustamente pensando in cuor nostro che se la lealtà non è più di questo mondo, vuol dire che essa, in odio alla nostra perfidia, se n'è andata a stare fra i Mani e coi morti.
E così, eccoci qua, stanchi morti per il peso del carico e per la strada pessima, con tre compagni di meno, e questa, come vedete, è la roba che abbiamo portato."

XXII
Quando smisero di raccontare brindarono con vino schietto in calici d'oro alla memoria dei compagni caduti, cantarono per un po' qualche strofetta in onore di Marte, poi se ne andarono a riposare.
A noi invece la vecchia di cui ho detto prima, somministrò orzo fresco in grande abbondanza e per il mio cavallo, l'unico che potesse godersela in tanto scialo, fu proprio come trovarsi a un banchetto dei Salii.
Io invece che non avevo mai mangiato orzo se non ben brillato e cotto a puntino, adocchiai un angolino dove erano stati raccolti i pani avanzati da tutta la compagnia e mi misi alacremente a lavorar di ganasce che per il lungo digiuno s'erano anchilosate e avevan fatto la muffa. A notte inoltrata i banditi si destarono e, variamente equipaggiati, levarono il campo, alcuni armati di spade, altri travestiti da fantasmi e scomparvero a passi veloci.
Quanto a me, sebbene morissi dal sonno, continuai a mangiare imperturbabile e di buona lena. E pensare che quand'ero Lucio mi bastavano sì e no un paio di pani per alzarmi già sazio da tavola mentre ora, per riempire un ventre così vasto, m'ero già attaccato alla terza cesta. Così la luce del giorno mi colse di sorpresa ancora tutto intento in quest'opera.

XXIII
Ebbi un po' di vergogna, vergogna asinina s'intende, e così, benché a malincuore, mi staccai di lì e andai a dissetarmi in un vicino ruscello. Poco dopo rientrarono i briganti, tutti trafelati e nervosi: erano tornati a mani vuote senza neanche un misero mantello.
Spade in pugno, ranghi serrati, banda al completo, si tiravano dietro, però, una fanciulla dai lineamenti delicati che doveva appartenere a una delle famiglie più nobili della regione, come indicava il suo aspetto signorile, una fanciulla perbacco che faceva voglia anche a un asino pari mio, e che piangeva e che per la disperazione si strappava i capelli e si lacerava le vesti.
La fecero entrare nella caverna e con queste parole cercarono di calmarla: "Sta sicura, la tua vita e il tuo onore qui non corrono alcun pericolo; soltanto devi portare un po' di pazienza e darci una mano in un nostro affaretto, perché è la povertà che ci spinge a far questo. I tuoi genitori, con tutti quei quattrini che hanno, per quanto taccagni, di certo saranno disposti a pagare un adeguato riscatto, trattandosi del loro stesso sangue."

XXIV
Ma la fanciulla non si calmò a queste parole né ad altre simili che le vennero dette. Come poteva in effetti? Se ne stava con la testa fra le ginocchia e piangeva dirottamente.
Quelli allora chiamarono la vecchia e le ordinarono di sederle accanto e di dirle parole gentili, per quanto potesse; poi se ne andarono per i loro soliti affari.
Ma nemmeno alle parole della vecchia la fanciulla smise di piangere, anzi cominciò a lamentarsi ancora più forte e con certi singhiozzi che la scuotevano tutta e che strapparono le lacrime perfino a me: "Oh, povera me" diceva "privata di una casa come la mia, di tutti i miei servi, di tutti i miei affezionati domestici, dei miei amati genitori, vittima di un infame rapimento, diventata merce di scambio, chiusa come una schiava in questa prigione fra le rocce, senza più nessuno di quegli agi in cui sono nata e cresciuta, con la vita in forse, in questo antro di carnefici, fra tutti questi briganti, in mezzo a una simile razza di assassini. Come faccio a non piangere, come faccio a vivere?"
Così si lamentava, finché sfinita dall'angoscia, la gola gonfia, le membra stremate, non chiuse gli occhi stanchi al sonno.

XXV
Aveva appena socchiuse le palpebre che improvvisamente si riscosse come una pazza e ricominciò a smaniare più di prima, a battersi il petto e a straziarsi con le mani il bel viso.
Ora sì che è finita per me, ora sì che non c'è più speranza" diceva tra i sospiri mentre la vecchia le chiedeva il perché di quel rinnovato dolore. "Non mi resta che appendermi a una corda o trapassarmi con una spada o precipitarmi in un burrone."
A queste parole la vecchia perse la pazienza e con un'espressione dura pretese che le dicesse il perché di quel pianto improvviso, di quell'insopportabile lagna, dopo che finalmente era riuscita a prendere sonno: "Non vorrai mica impedire che i miei ragazzi guadagnino un po' di soldi col tuo riscatto? Bada che se la fai tanto lunga con tutte queste lacrime che, sta sicura, non impressionano mica dei briganti, io ti farò bruciare viva."

XXVI
Atterrita da questo discorso la fanciulla prese a baciarle le mani e a implorare: "Perdonami, madre mia, perdonami, ma abbi un po' di compassione per la mia infelicissima sorte. Io lo so, ne sono sicura che l'età ormai avanzata, questa tua veneranda canizie non ha inaridito in te il sentimento della pietà. Considera un po' che sventura è la mia: un bel giovane il più in vista fra tutti quelli della sua condizione, che tutta la città aveva riconosciuto come suo figliuolo, per giunta mio cugino, si era legato a me con un sentimento d'amore purissimo, che io ricambiavo. Aveva soltanto tre anni più di me, eravamo cresciuti insieme fin dall'infanzia, compagno inseparabile della mia camera e del mio letto. Da tempo eravamo fidanzati, anzi, con il consenso dei genitori e dai documenti ufficiali egli poteva già considerarsi mio sposo.
In vista delle nozze, tra uno stuolo numeroso di parenti e di amici egli già faceva sacrifici propiziatori nei templi e nei santuari; la mia casa era tutta adorna di lauri e risplendeva di luci e risuonava di canti nuziali; la mia povera madre, tenendomi sulle ginocchia, già mi faceva bella nell'abito nuziale e mi copriva di teneri baci, trepidante, facendo voti e sperando in cuor suo nella prole futura.
Proprio in quel momento all'improvviso, irruppero i briganti, tutti con le spade sguainate che mandavano lampi, come in una violenta scena di guerra. Non erano venuti per uccidere né per saccheggiare, ma in schiera serrata entrarono direttamente nella nostra stanza. Nessuno dei servi tentò di ricacciarli, tanto meno di resistere, ed io, infelice, morta di paura e tutta tremante fui strappata dalle braccia materne. Così le mie nozze furono tragicamente interrotte e sconvolte, come quelle di Attide e di Protesilao.

XXVII
Ed ora l'orribile sogno che ho fatto ha rinnovato la mia sventura, anzi l'ha raddoppiata. Mi sembrava di essere stata strappata di forza dalla mia casa, dalla mia camera, dal mio stesso letto e trascinata per strade deserte. Invocavo per nome il mio infelicissimo sposo e lui, privato dei miei amplessi, ancora tutto profumato d'unguenti com'era e cinto di corone, cercava di raggiungermi, ed io che gli fuggivo davanti portata da piedi non miei. E siccome lui gridava che gli rapivano la bella sposa e chiamava in suo soccorso il popolo, uno dei briganti irritato da quel molesto inseguimento raccolse una grossa pietra che si trovò fra i piedi e con quella colpì il mio povero e giovane marito uccidendolo.
Tale fu l'orrore di questa terribile scena che piena di paura io mi riscossi da quel sonno funesto."
Ai pianti della fanciulla si aggiunsero allora i sospiri della vecchia: "Suvvia, padroncina, fatti coraggio" le diceva "non lasciarti spaventare da queste false visioni notturne, perché non solo i sogni del mattino risultano falsi ma anche quelli che si fanno a notte alta non corrispondono per niente a quello che poi accade realmente. Pensa un po' che sognare di piangere, di venir malmenati o addirittura di morire ammazzati vuol dire che guadagnerai un sacco di soldi e che, vice versa, sognare di ridere, di riempirsi la pancia di dolci o di fare all'amore significa che avrai dispiaceri, malattie e guai.
Ma ora è meglio straviarti: ti racconterò una bella storia, una di quelle favole che sanno le vecchie."
E cominciò:

XXVIII
Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla.
Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l'indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. "Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un'altra Venere, anch'essa bellissima, nella sua grazia virginale.

XXIX
Di giorno in giorno una simile credenza si rafforzava sempre più e la voce cominciò a diffondersi nelle isole vicine e poi più lontano in molte regioni del continente.
Folle di pellegrini sempre più numerose facevano lunghi viaggi, attraversavano mari profondi per vedere quella straordinaria meraviglia del secolo.
Nessuno andava più a Pafo o a Cnido o a Citera per visitare i santuari di Venere; alla dea non si facevano più sacrifici, i suoi templi erano lasciati nell'abbandono, i suoi sacri cuscini calpestati, le cerimonie trascurate, le sue statue restavano disadorne, vuoti i suoi altari e ingombri di cenere spenta.
Alla fanciulla si innalzavano preghiere, e si placava il nume di una dea potente come Venere adorando un volto umano. Al mattino, quando la vergine usciva, a lei si apprestavano vittime e banchetti invocando il nome di Venere assente e, quando passava per via, il popolo le si affollava supplice intorno con fiori e ghirlande.
Questo eccessivo tributo di onori divini a una fanciulla mortale suscitò lo sdegno violento della Venere vera che, scuotendo fieramente il capo e malcelando la collera, così cominciò a ragionare:

XXX
'Ecco che io, l'antica madre della natura, l'origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all'intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze.
'A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri.
'Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta.'
'E là per là chiamò il suo alato figliuolo, quel cattivo soggetto che, infischiandosene della pubblica morale, ha la pessima abitudine di andarsene in giro armato di torce e di frecce, di entrare di notte nelle case della gente e profanare i letti nuziali insomma di provocare impunemente un sacco di guai, senza far mai nulla di buono. E sebbene fosse un briccone e sfacciato per natura, lei questa volta con le sue parole lo incoraggiò e lo aizzò, lo condusse fino a quella città, gli indicò Psiche - così si chiamava la fanciulla - e gli raccontò gemendo e fremendo d'indignazione tutta la storia della bellezza contesa.

XXXI
'Ti prego' gli diceva 'in nome dell'affetto che mi porti, per le dolci ferite delle tue frecce, per le soavi scottature delle tue torce, fa che tua madre abbia piena vendetta, punisci senza pietà questa bellezza insolente. Se tu vuoi puoi davvero farmelo questo piacere, soltanto questo: che la ragazza si innamori pazzamente dell'ultimo degli uomini, di quello che la sfortuna ha particolarmente colpito nella posizione sociale, nel patrimonio, nella stessa salute, caduto così in basso che sulla faccia della terra non se né trovi nessuno come lui disgraziato.
Così gli parlò stringendosi forte al seno quel suo figliuolo e baciandoselo a lungo. Poi si diresse alla spiaggia vicina, là dove batte l'onda, e sfiorando con i rosei piedi le creste spumose dei fervidi flutti, ristette alfine sulla calma superficie del mare; e il mare le rese omaggio, a un suo cenno, com'ella desiderava, come se tutto da tempo fosse già stato voluto: le danzarono intorno le figlie di Nereo cantando in coro, e Portuno con l'ispida barba azzurra e Solacia col grembo colmo di pesci e il piccolo Palemone che cavalcava un delfino. Qua e là fra le onde esultavano a schiera i Tritoni,l uno soffiava dolcemente nella conchiglia sonora, un altro con un velo di seta faceva schermo all'ardore molesto del sole, un terzo sosteneva uno specchio dinanzi agli occhi della dea, gli altri nuotavano a coppie aggiogati al suo cocchio.
Un tal seguito scortava il viaggio di Venere verso l'oceano.

XXXII
Ma intanto Psiche, bellissima com'era, non ricavava alcun frutto dalla sua grazia. Tutti la ammiravano, la lodavano, e pure non un re, non un principe, nemmeno un plebeo veniva a chiederla in sposa. Restavano lì a contemplare quelle divine sembianze come si ammira una statua di suprema fattura.
Un giorno le due sorelle più grandi, la cui bellezza, modesta, era passata inosservata al gran pubblico, si fidanzarono con principi del sangue e celebrarono nozze felici mentre Psiche, rimasta vergine, sola nella vuota casa, piangeva il suo triste abbandono e sofferente e intristita finì per odiare la sua stessa bellezza che pure tutti ammiravano.
E così l'infelice padre della sventurata fanciulla, temendo una maledizione celeste e la collera degli dei, interrogò l'antichissimo oracolo del dio Milesio e con preghiere e con vittime chiese a questa potente divinità per la vergine negletta nozze e marito. E Apollo, benché greco e ionico, per compiacere l'autore di questo romanzo, gli rispose in latino così:

XXXIII
"Come a nozze di morte vesti la tua fanciulla
ed esponila o re su un'alta cima brulla
non aspettarti un genero da umana stirpe nato
ma un feroce, terribile, malvagio drago alato
che volando per l'aria ogni cosa funesta
e col ferro e col fuoco ogni essere molesta.
Giove stesso lo teme, treman gli dei di lui,
orrore ne hanno i fiumi d'Averno e i regni bui."
Il re che un tempo era stato felice, sentito il sacro responso, fece ritorno a casa coll'animo colmo di tristezza e riferì alla moglie i comandi del funesto oracolo. Per più giorni non fecero che piangere, gemere, lamentarsi. Ma ormai era giunto il tempo di adempiere a quanto aveva prescritto il crudele vaticinio e per la sventurata fanciulla venne l'ora di prepararsi a quelle funebri nozze. Già il lume delle fiaccole si oscurava di nera fuliggine spegnendosi sotto la cenere, il suono del flauto nuziale si mutava in una triste nenia lidia, il canto lieto dell'imeneo in un lamento lugubre e la sposa novella si asciugava le lacrime con il velo nuziale. Tutta la città si dolse del triste destino che aveva colpito quella casa e in segno di generale cordoglio fu decisa la sospensione di ogni pubblica attività.

XXXIV
Ormai alla povera Psiche non restava che obbedire al volere celeste e sottomettersi al supplizio cui era stata destinata.
Terminati nella più profonda tristezza tutti i solenni preparativi di quel funesto matrimonio una gran folla di popolo seguì le esequie di un vivo e Psiche in lacrime fu accompagnata non a nozze ma al suo funerale.
I poveri genitori colpiti da una sventura così grande, esitavano a compiere un così orribile crimine ma era la stessa figliola ad esortarli: 'Perché' diceva 'volete angustiare ancor più la vostra infelice vecchiaia? Perché affannate il vostro cuore, che è anche il mio, in continui lamenti? Perché sciupate con lacrime inutili quei vostri visi adorati? Straziando i vostri occhi è come se straziaste i miei. E perché vi strappate i capelli, perché vi battete il petto, e tu, madre, perché colpisci quel santo seno che mi nutrì? Ecco per voi il premio della mia famosa, straordinaria bellezza. L'invidia funesta ha inferto il colpo mortale e voi tardi lo avete capito. Quando folle intere, intere città mi tributavano onori divini e tutti, a una voce, mi proclamavano la nuova Venere, oh, allora avreste dovuto dolervi e piangere e indossare il lutto come se fossi già morta. Ne sono sicura, lo sento, la mia rovina è stata soltanto per quel nome di Venere.
Conducetemi dunque in cima alla rupe che la sorte mi ha destinata e lasciatemi lì. Desidero ormai celebrare presto queste nozze felici, voglio vederlo subito questo mio nobile sposo. Perché indugiare, perché differire l'incontro con costui che è nato per la rovina dell'intero universo?'

XXXV
Così disse la vergine e poi tacque e con passo deciso s'avviò tra la folla che la seguì in corteo.
Giunsero così alla rupe destinata, su in alto, in cima a un monte a strapiombo, e lì lasciarono la fanciulla, sola, lì lasciarono le fiaccole, spente con le loro lacrime, con cui s'eran fatti lume e a capo chino rientrarono alle loro case.
I poveri genitori, distrutti da tanta sciagura, si chiusero nell'ombra più fitta delle loro stanze votandosi a una notte senza fine.
Psiche intanto, spaurita e tremante, là in cima alla rupe, si struggeva in lacrime, quand'ecco l'alito mite di Zefiro che mollemente spirava e in un vortice lieve le ventilava le vesti, dolcemente la sollevò da terra e sostenendola col suo soffio leggero, giù giù lungo il pendio del monte, la depose nel cavo di una valle in grembo all'erbe e ai fiori.