Artù

Re di Logres, figlio di Uther Pendragon e di Igerne, marito di Ginevra.
Il mago Merlino costruì per Uther Pendragon un bellissimo castello e vi pose la Tavola Rotonda, a imitazione di quella un tempo istituita da Giuseppe d'Arimatea. Alla tavola prendevano posto diversi cavalieri (il numero varia) e una posizione speciale spettava al Santo Graal, il calice utilizzato da Cristo nell'Ultima Cena. Il Graal era scomparso dalla Britannia a causa delle colpe degli uomini.
Per l'istituzione della Tavola Rotonda vennero indetti dei festeggiamenti. A Carduel (Carlisle) convennero tutti i cavalieri con le loro spose. Tra queste anche Igerne, moglie di Gorlois, signore di Tintagel in Cornovaglia. Al vederla, Uther Pendragon se ne innamorò. Igerna aveva già tre o quattro figlie, note nelle leggende arturiane come madri dei cavalieri Galvano, Agravain e Ivano. Ulfin, uno dei consiglieri del re, parlò a Igerna della passione di Uther e questa lo riferì al marito. Indignato, Gorlois abbandonò la corte, rinchiuse la moglie nella fortezza di Tintagel e radunò un'armata per combattere Uther Pendragon. Il giorno prima della battaglia, Merlino con i suoi poteri magici fece assumere a Uther le sembianze di Gorlois e mutò se stesso e Ulfin in due cavalieri del duca di Cornovaglia. Così trasformati, i tre si recarono a Tintagel, dove Igerna aprì loro le porte e accolse Uther credendo si trattasse del marito.
Il mattino successivo ebbe luogo la battaglia e Gorlois rimase ucciso. Poco tempo dopo, Uther sposò Igerna che non sospettava minimamente che il figlio che presto avrebbe dato alla luce non fosse di Gorlois. Appena nato, Artù fu dato a Merlino che, senza menzionarne le origini, lo affidò a sir Ettore che lo allevò insieme al proprio figlio, sir Kay.
Due anni più tardi, Uther morì. I nobili, non sapendo chi nominare quale suo successore, consultarono Merlino, giurando di rispettare la sua decisione. Su consiglio del mago, si riunirono tutti nella chiesa di Santo Stefano a Londra il giorno di Natale. Alla fine della messa, una grande roccia era misteriosamente apparsa nel cortile della chiesa. La roccia era sormontata da un'incudine nella quale era profondamente conficcata una spada.
Avvicinandosi, gli uomini notarono sull'elsa ingemmata un'iscrizione. Essa diceva che sarebbe stato re colui che avrebbe estratto la spada. Tutti i presenti tentarono, ma nessuno riuscì nell'impresa. Trascorsero diversi anni e un giorno sir Ettore venne a Londra con il figlio Kay e Artù. Sir Kay, che doveva partecipare al suo primo torneo, si accorse di aver dimenticato la spada e Artù si offrì di tornare a casa per andare a prenderla. Trovò, però, la casa chiusa e passando dal cortile della chiesa di Santo Stefano vide la roccia con la spada che estrasse agevolmente dall'incudine.
Diede quindi l'arma a sir Kay, ma sir Ettore la riconobbe e domandò ad Artù come l'avesse ottenuta. In principio non riteneva possibile che il ragazzo avesse estratto da solo la spada, ma dopo aver visto Artù rimettere a posto la spada nella roccia e tirarla fuori, gli credette.
Poiché Merlino era un mago, si diffuse la voce che Artù non fosse figlio di Uther Pendragon, ma un figlio del mare, allevato dalle onde e gettato a riva ai piedi di Merlino. Comunque, in principio molti diffidarono di Artù e si rifiutarono di prestargli obbedienza. Tra gli scettici vi erano anche alcuni familiari del re, in particolare i quattro nipoti Galvano, Guerrehet, Agravain e Gueheriet. Artù fu costretto a dichiarare loro guerra. Nonostante la forza di Galvano aumentasse tra le 9 e le 12 e tra le 15 e le 18, Artù riuscì a vincerlo approfittando, secondo il consiglio di Merlino, dei momenti in cui era più debole.
Con l'aiuto di Merlino, Artù governò il paese e ristabilì pace e giustizia. Un giorno, però, avendo colpito senza motivo con la spada sir Pellinor, l'arma si spezzò. Senza alcuno strumento di difesa, Artù sarebbe perito se Merlino con la sua magia non avesse addormentato Pellinor e trasportato il re in un luogo sicuro.
Privato della sua magica spada, Artù non sapeva cosa fare. Mentre si trovava presso un lago vide un braccio rivestito da una stoffa bianca emergere dall'acqua e tenere sollevata una spada ricoperta di gemme preziose. Accanto ad Artù apparve quindi la Dama del Lago che disse al re che la spada gli era destinata.
Artù remò fino al centro del lago e prese la spada che aveva nome Excalibur. L'arma, gli disse la Dama del Lago, aveva poteri magici e finché il fodero fosse rimasto in possesso del re, egli non sarebbe stato sconfitto.
Così armato, Artù ritornò al suo palazzo e vinse i Sassoni che avevano invaso il paese. Andò quindi in aiuto di Leodagan, re di Scozia, minacciato dal malvagio fratello Rion, re d'Irlanda. Rion voleva farsi un mantello con le barbe dei re e per ultima voleva quella di Leodagan. Artù non solo uccise Rion, ma s'impossessò del mantello che riportò a casa come trofeo.
In seguito, Artù ritornò alla corte di Leodagan e s'innamorò di Ginevra, figlia del re. Merlino era contrario alle nozze finché Artù non fosse risultato vittorioso in Bretagna. Al ritorno trionfale del re, si celebrò il matrimonio a Camelot (Winchester) il giorno di Pentecoste. Artù in dono ricevette la Tavola Rotonda. In precedenza, Artù aveva sconfitto i dodici re che gli si erano rivoltati contro. Per suo ordine, le loro spoglie erano state seppellite a Camelot. Qai Merlino eresse un castello con una sala apposita per accogliere la Tavola Rotonda. La sala era ornata di statue a grandezza naturale di tutti i re vinti, ognuno con in mano un cero acceso che, secondo la profezia di Merlino, avrebbe bruciato fino all'apparizione del Graal.
Il numero dei cavalieri della Tavola Rotonda varia, a seconda dei racconti, da dodici (il numero degli apostoli di Cristo) a più di cento.
Tra i cavalieri associati alla Tavola Rotonda, il più avvenente era Lancillotto. Questi s'innamorò di Ginevra e la regina ricambiava il sentimento. Col tempo, la regina venne accusata di adulterio e Lancillotto, sparito per un certo periodo, ritornò a corte per difenderne l'onore; quindi partì per la Bretagna. Artù inseguì il cavaliere, affidando Ginevra alle cure di Mordred, suo nipote, o secondo alcuni racconti, suo figlio.
Immediatamente, Mordred approfittò dell'assenza dello zio e s'impossessò del trono dichiarando che il re era stato ucciso. Quindi tentò di convincere Ginevra a sposarlo. In principio, ella rifiutò, ma infine, temendo per la propria vita, acconsentì. Chiese, comunque, a Mordred, il permesso di andare a Londra per acquistare l'abito di nozze. Arrivata in città, la regina si recò alla Torre e scrisse ad Artù per avvisarlo di ciò che stava accadendo. Senza indugio, il re abbandonò l'assedio al castello di Lancillotto e, dopo aver attraversato il Canale della Manica, si scontrò con l'esercito di Mordred vicino a Dover.
Si avviarono dei negoziati e si decise che Artù e un certo numero di cavalieri avrebbero incontrato Mordred con un numero pari di uomini per discutere i termini della pace. Nessun' 1lfffia avrebbe dovuto essere estratta. Quando, però, le due delegazioni s'incontrarono, un serpente si nascondeva nell'erba e un cavaliere estrasse la spada per ucciderlo. Il suo gesto fu preso per il segnale d'inizio della battaglia. Lo scontro si risolse in una carneficina e quasi tutti i cavalieri rimasero uccisi. Artù combatté quindi con Mordred e, raccogliendo tutte le sue forze, riuscì infine a uccidere l'usurpatore, non prima però che questi lo colpisse mortalmente.
Ciò non sarebbe mai avvenuto se la fata Morgana, malvagia sorella di Artù, non avesse rubato il magico fodero della spada, sostituendolo con un altro. Tutti i nemici erano periti e tra i cavalieri di Artù solo sir Bedivere era ancora in vita. Egli accorse al fianco del re e questo, dandogli la spada, lo pregò di gettarla nel lago. In principio, Bedivere rifiutò, poi fece ciò che gli aveva chiesto Artù.
Appena la magica spada sfiorò le acque, dal fondo del lago apparve un braccio che afferrò l'arma e, dopo averla roteata tre volte, sparì.
Udito ciò, Artù tirò un sospiro di sollievo e liferì al suo fedele cavaliere una profezia di Merlino, secondo cui egli non sarebbe morto. Chiese a sir Bedivere di porlo in una barca decorata di nero. Sir Bedivere obbedì, quindi, vedendo che Artù stava per lasciarlo, chiese il permesso di accompagnarlo, ma il re non poteva esaudire il suo desiderio perché si stava recando ad A valon per guarire della ferita in attesa di tornare un giorno dalla sua afflitta gente.
La leggenda di re Artù, figura emblematica di eroe cristiano, la vita e le gesta del quale spesso richiamano quelle di Gesù, è uno degli apici della fantasia medievale. Alcune delle analogie riscontrabili tra la vita di Artù e quella di Cristo sono: la nascita in circostanze misteriose, il tradimento da parte di una persona amata (Ginevra), la morte per mano di nemici, il trionfo dopo la morte (quando è portato ad A valon, la terra della beatitudine) e infine la credenza che egli ritornerà quando la Gran Bretagna si troverà nel bisogno. Con questo filo, l'immaginazione medievale ha tessuto un ricco arazzo di leggende ancora oggi di grande effetto, come dimostra il successo del romanzo di T. H. White, Re in eterno e il musical di Broadway, Camelot, di Lerner e Lowe, che,si rifanno entrambi alla leggenda di Artù.

L'Artù storico

C'è chi pensa che la figura di Artù sia basata su uno o più personaggi realmente esistiti e che egli fosse un capo romano-britannico che combatté contro gli anglosassoni tra la fine del V e gli inizi del VI secolo. Le evidenze archeologiche mostrano che nel periodo in cui si pensa che sia vissuto Artù, l'espansionismo degli anglosassoni subì una battuta d'arresto per un'intera generazione. Se effettivamente fu una figura storica, il centro del suo potere doveva essere nelle aree celtiche del Galles, della Cornovaglia, dell'Inghilterra nord-occidentale e nella Scozia meridionale. E forse anche in Bretagna (in Francia). Quest'ultima è comunque un'altra questione molto controversa. Comunque, alcune teorie sostengono che Artù avesse origini romane o pre-romane.

I Sarmati

Nel 1978, C. Scott Littleton e Ann C. Thomas, riprendendo e ampliando le ipotesi di Joel Grisward e Kemp Malone, teorizzarono l'esistenza di una connessione tra i Sarmati da un lato e la storia e la successiva leggenda di Artù dall'altro.
Gli alano-sarmati erano una popolazione nomade delle steppe dell'odierna Ucraina che combatteva a cavallo con spada lunga, lancia, arco e scudo (su cui era inciso un simbolo indicante il diritto di portare le armi). Indossavano armature a scaglie ed elmi conici ed erano conosciuti nel II secolo d.C. per la loro abilità come cavalieri pesanti.
Nel 175, l'imperatore romano Marco Aurelio arruolò 8.000 sarmati nell'esercito romano, di cui 5.500 furono poi inviati lungo il confine settentrionale della Britannia romana (odierna Inghilterra). Là si unirono alla legione VI Vincitrice, in cui serviva un certo Lucio Artorio Casto. Invece di rimandare a casa questi guerrieri una volta terminati i loro 20 anni di servizio, le autorità romane li insediarono in una colonia militare nell'odierno Lancashire, dove i loro discendenti sono attestati dalle fonti ancora nel 428 come "truppa dei veterani sarmati".
Va detto che la cultura dei sarmati è rilevante per le tradizioni arturiane. Oltre alla loro abilità come cavalieri pesanti (e i guerrieri di Artù sono cavalieri), i sarmati avevano un enorme attaccamento, quasi religioso, per le spade (il loro culto tribale era rivolto a una spadaconficcata a terra, simile alla leggendaria Spada nella roccia. Portavano anche stendardi che avevano forma di draghi, un simbolo utilizzato anche da Artù e dal suo presunto padre, Uther Pendragon. Le loro cerimonie religiose erano celebrate da sciamani della loro terra natale, forse come Merlino, e comprendevano l'inalazione di vapori allucinogeni che esalavno da un calderone (cosa che richiama le leggende sulle visioni del Santo Graal). Infine, un precedente per il perduto luogo di sepoltura di Artù ad Avalon può essere trovato nella pratica dei sarmati di seppellire i propri capi accanto ai fiumi, dove i loro corpi e averi erano presto spazzati via. I fautori della teoria di questa connessione guardano anche alle leggende dei discendenti dei sarmati come prova a sostegno. Gli osseti, un popolo iraniano che vive nelle regioni dell'Ossezia e della Georgia, parlano l'osseto, l'unica lingua sarmata ancora parlata. Le ossete saghe dei Nart, che celebrano le imprese di un'antica tribù di eroi, contengono un numero di interessanti parallelismi con le leggende arturiane.
Anzitutto, il guerriero Nart Batraz è indissolubilmente legato alla sua spada, che alla sua morte deve essere rigettata in mare, e così quando gravemente ferito chiede ai suoi compagni superstiti di fare ciò, costoro scagliano l'arma in acqua solo dopo tre volte. Tutto ciò è molto simile alla storia di Artù che, ferito mortalmente dopo la battaglia di Camlann, ordina al suo unico cavaliere superstite, Bedivere, di riportare Excalibur alla Dama del Lago. Anche costui esita ad eseguire l'ordine e per due volte mente ad Artù prima di fare ciò che lui gli ha detto.
Inoltre, gli eroi Nart Soslan e Sosryko raccolgono le barbe dei nemici sconfitti per decorare i loro mantelli, proprio come Rience, nemico di Artù. E come a Rience, anche a Soslan manca un'ultima barba per completare il suo mantello. Un'altra similitudine si riscontra nella Coppa dei Nart, (la Nartyamonga), che compariva nei giorni di festa e portava a ciascuno la cosa che più desiderava mangiare e che era custodita dal più coraggioso dei Nart ("cavalieri") e dalla maga vestita di bianco e associata con l'acqua, che aiuta l'eroe a conquistare la sua spada (anche qui molte sono le similitudini con le storie arturiane) Sebbene vissero almeno tre secoli prima dell'arrivo dei sassoni in Inghilterra, Lucio Artorio Casto e i suoi cavalieri sarmati potrebbero essere sopravvissuti nella memoria, contribuendo almeno in parte a formare le prime storie di Artù. Sebbene molti sostenitori della connessione sarmata leghino le origini della leggenda arturiana a Casto e ai suoi sarmati del II secolo, altri studiosi hanno invece suggerito che alcuni dettagli d'origine sarmata come la Spada nella roccia potrebbero invece essere stati aggiunti in seguito nei romanzi francesi, entrando forse nella tradizione come risultato dell'impatto provocato dall'arrivo degli alani nell'Europa del V secolo d.C.
Coloro che non accettano il collegamento coi sarmati, lo fanno sostenendo che l'oscurità che circonda la figura di Casto renderebbe quest'identificazione improbabile. Affermano anche quanto sia di poco peso come prova della connessione sarmata il fatto che Casto sia divenuto un'importante figura leggendaria. Del resto, nessuna fonte romana accenna a lui o a imprese da lui compiute in Britannia. E non esisterebbe neppure una qualche prova effettiva che Casto abbia comandato i sarmati. Inoltre, le connessioni sarmate emergerebbero da opere tarde come La morte di Artù di Thomas Malory (XV secolo), in cui si dice che Artù e i suoi uomini erano "cavalieri in armature scintillanti". Invece, non comparirebbero nelle tradizioni più antiche scritte in gallese come il Mabinogion. E ciò ha portato gli scettici a concludere che l'influenza sarmata fu in realtà molto limitata nello sviluppo dei racconti arturiani e che quindi non può essere stata base storica di queste leggende. In realtà, il tema della "spada nella roccia" compare già in uno dei primi poemi di Roberto de Boron, mentre elementi sarmatici sono identificabili anche nei racconti gallesi del "Mabinogion" anche se potrebbero appartenere a un comune sostrato indoeuropeo. La prova che Casto ha effettivamente comandato i sarmati in Britannia si evince dall'analisi dell'epigrafe 1919 del volume III del Corpus Inscriptionum latinarum di Theodor Mommsen, in cui si legge che, dopo il grado di praefectus (forse praefectus alae = comandante di truppe a cavallo), Casto fu "dux legionum cohortium alarum Britaniciniarum contra Armoricanos", cioè rivestì il ruolo di comandante supremo delle truppe della Britannia contro gli armoricani. Dato che l'epigrafe è datata alla fine del II secolo d.C. e che in quel periodo i sarmati costituivano buona parte della cavalleria romana in Britannia, è sufficientemente provato che essi furono guidati da Casto almeno nella campagna di Armorica, mentre resta probabile che egli li condusse anche in precedenza come praefectus alae e che abbia partecipato al loro trasferimento in Britannia dalle regioni danubiane, dove aveva servito come centurione e primo pilo della legione V Macedonica.

Riferimenti letterari

Nell'Europa medievale, intorno alla figura del re si sviluppò tutta una letteratura in prosa e poesia. Uno dei primi racconti si trova nella Historia regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, scritta nel XII secolo. Da quest'opera trasse ispirazione il poeta francese Wace che trasformò la cronaca di Monmouth in un poema di 14.000 versi. Di questa versione si servì Layamon, un prete, per la sua opera su Artù e le leggende bretoni di circa 32.000 versi allitterati. Successivi autori effettuarono delle aggiunte.
Chrétien de Troyes, vissuto nel XII secolo alla corte della contessa di Champagne a Troyes, riferisce di essersi basato, per la propria opera su Artù, su scritti precedenti che non ci sono pervenuti. Nel racconto di Goffredo di Monmouth, l'enfasi è posta su Artù, mentre nei romanzi di Chrétien, il re passa in secondo piano e vengono narrate le avventure di Galvano, Ivano, Erec, Lancillotto e Perceval.
Chrétien narra anche dell' amore tra Lancillotto e Ginevra, moglie di Artù e di come questi sia stato tradito. Artù, nelle vesti del marito gabbato, compare in diverse leggende successive. L'opera di Chrétien fu seguita dal Merlin di Robert de Borron, scritto intorno al 1200, in cui sono narrate la nascita e l'infanzia di Artù e la storia della spada nella roccia. Il poema Mort Artu racconta della scomparsa della spada Excalibur in un lago magico quando Artù è trasportato ad A valon.
La Morte d'Arthur di sir Thomas Malory, nonostante il titolo francese, è uno dei capolavori della letteratura inglese del Quattrocento. L'autore attinse a tutte le leggende precedenti.
Gli Idilli del re di Tennyson devono molto all'opera di Malory, anche se l'approccio è differente. Il poeta, infatti, attribuisce all'adulterio di Lancillotto e Ginevra il fallimento della Tavola Rotonda. Artù diviene quasi una figura simbolica, invece che un personaggio in carne e ossa. Altri poeti dell'Ottocento che hanno trattato la leggenda sono William Morris, Swinbume e Matthew Arnold. Nel XX secolo, le versioni migliori sono quella del poeta americano Edwin Arlington Robinson, in cui Tristano, Merlino e Lancillotto costituiscono una trilogia, e quella di Mark Twain, che con il suo Uno Yankee alla corte di re Artù tratta la leggenda in modo più irriverente.